Disordine mondiale. Memorie del Coronavirus. Parte VII
Gustave Courbet, L'onda (1870) |
La Fase Due
Mentre cresceva l’impazienza per la riapertura del 4 maggio, pochi
giorni prima scoppiò il “caso Bonafede”.
Il neo vice capo del DAP (Dipartimento dell’amministrazione
penitenziaria) inoltrò al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede un elenco
di 456 boss mafiosi che chiedevano di poter essere scarcerati a causa
dell’emergenza sanitaria. Di fatto, 376 riuscirono ad ottenere i domiciliari,
tra cui il boss del clan dei Casalesi Pasquale Zagaria, per ironia della sorte
finito a Brescia, una delle città più colpite dal Coronavirus. Questa notizia
fece scalpore già da sé, poiché era chiaro che porre ai domiciliari queste
persone significava mostrare debolezza da parte dello Stato (non giustificabile
con generiche “ragioni umanitarie”) e rafforzare le mafie, che soprattutto in
questa fase critica, disponendo di molta liquidità, avrebbero potuto
“riconquistare” i quartieri più colpiti dalla crisi.
Il 3 si aggiunse ulteriore benzina sul fuoco: nel corso del
programma televisivo ‘Non è l’Arena’, in onda su ‘La7’, Massimo Giletti
ricevette la chiamata del noto magistrato antimafia Nino Di Matteo, che era ora
al CSM, il quale sosteneva che Bonafede gli avesse proposto la nomina al DAP
nel 2018, per poi ritirarla inspiegabilmente. In quest’ultimo termine stava
tutta la polemica: perché il ministro della Giustizia aveva cambiato idea sulla
nomina, preferendo Francesco Basentini al DAP e proponendo a Di Matteo un
incarico agli Affari Penali?
C’erano molti dubbi, alcuni dei quali facevano temere che le
pressioni mafiose avessero fatto cambiare idea al ministro, sulla base di
alcune intercettazioni fatte in carcere, in cui alcuni mafiosi dicevano ad alta
voce che, se fosse stato nominato Di Matteo, questi avrebbe gettato la chiave
delle loro celle.
Il ministro chiamò quella sera stessa, ma più che entrare
nel merito delle parole di Di Matteo, ricordò le azioni politiche intraprese in
quegli anni, dal cosiddetto “Spazzacorrotti” all’interruzione della
prescrizione. Inoltre, il sabato precedente era stato approvato al Consiglio
dei Ministri il nuovo decreto legge di Bonafede, per il rientro dei detenuti in
regime di 41 bis o di alta sicurezza.
Il decreto legge del 9 intendeva porre la parola fine alla
questione: prevedeva infatti che i giudici di Sorveglianza rivalutassero la
sussistenza delle motivazioni sanitarie che avevano portato ai domiciliari di
centinaia di mafiosi.
L’opposizione di centro-destra portò avanti una mozione di
sfiducia per il ministro, a cui si aggiunse anche una mozione di sfiducia da
parte di +Europa, benché per ragioni diverse (la scarsa attenzione alla salute
dei detenuti): entrambe furono comunque respinte il 20 maggio.
Mentre questo caso esplodeva e si discuteva su come
concluderlo, il 4 maggio cominciò la cosiddetta “Fase Due”, con la riapertura
delle attività anche non essenziali, benché mantenendo le misure di
distanziamento sociale. Tuttavia, da un lato vi erano fabbriche che – grazie
all’intervento dei prefetti – avevano potuto riaprire già prima, in particolare
al Nord, mentre dall’altro molte attività rimasero ancora chiuse. Tra queste
bar, ristoranti, cinema, discoteche, botteghe di parrucchieri, saloni di
bellezza, etc.
Già dalla conferenza del premier Conte precedente al 4, le
disposizioni – che ancora dovevano essere pubblicate – stavano facendo
discutere esperti di giurisprudenza e cittadini comuni. In particolare fece
molto parlare il termine “congiunti”.
Alla fine si giunse a queste poche certezze: non si potevano
vedere amici, poiché il termine congiunti comprendeva parenti, coniugi,
conviventi e fidanzati stabili. E anche su quest’ultimo termine non c’era
chiarezza: come era possibile stabilire se un affetto fosse in effetti stabile?
Fu difficile non sentirsi presi in giro. Ma per capire il nuovo decreto, era in
realtà già uscita una guida nel 1949, poi divenuta un classico
dell’antropologia: Le strutture
elementari della parentela di Claude Lévi-Strauss.
Era poi permesso svolgere attività sportiva senza l’obbligo
di rimanere in prossimità dell’abitazione. Palestre e piscine rimanevano
tuttavia ancora inaccessibili. Riprendevano invece gli allenamenti riconosciuti
come di interesse nazionale dal CONI, dal CIP e dalle federazioni.
Oltre agli ambienti dedicati allo sport, restavano chiusi
anche i centri culturali come musei e biblioteche.
Le uscite erano vietate a coloro che avevano febbre
superiore a 37,5° C. Gli spostamenti potevano avvenire anche al di fuori del
proprio comune di residenza, ma non in un’altra regione. Fu permesso di
svolgere i funerali, ma solo con congiunti e fino ad un massimo di quindici
persone. Le messe invece continuavano a restare sospese e questo portò
all’indignazione della Chiesa.
Per quanto riguardava aspetti più “tecnici”, rimase valida
l’autocertificazione precedente al 4, ma ne fu introdotta anche una nuova. Le
espressioni più comuni sui media richiamavano il fatto che ci stessimo avviando
“verso la nuova normalità” e che avremmo dovuto attuare una “convivenza forzata
con il virus”.
A fine aprile, a livello globale si contavano più di tre
milioni di contagi e i morti erano circa 200mila. Che cosa era cambiato da
prima del lockdown, in Italia? I numeri rispetto ad allora erano evidentemente
peggiori, ma migliori se si calcolava il lento calo dei nuovi contagi nel corso
di aprile. La vera differenza, prima ancora che nei numeri, stava nella nuova
consapevolezza degli italiani e nella speranza che l’introduzione delle misure
di distanziamento sociale potessero permettere di ripartire in relativa
sicurezza. Una sicurezza che poteva essere assicurata solo da uno shock come
quello della quarantena.
Nella Fase Uno, gli italiani avevano attraversato almeno due
sotto-fasi. Durante le prime settimane vi era ottimismo: era il momento dei
canti dal balcone, dell’“andrà tutto bene”, delle persone che riscoprivano la
cucina “fatta in casa” e che razziavano il lievito dai supermercati. In quelle
stesse settimane, quasi in sordina, c’erano imprenditori e lavoratori a rischio
che non avevano ancora alcuna garanzia sul futuro, né per gli eventuali rinvii
(affitti, scadenze varie), né sui tempi in cui sarebbero arrivati gli aiuti
economici dallo Stato.
Poi, gradualmente, si entrò in quelle settimane critiche,
con migliaia di morti giornaliere, contagi in rapida crescita, lo sconforto per
la quotidianità irrimediabilmente perduta. In due parole: tristezza e
depressione.
Quando cominciò la Fase Due, tra le varie polemiche, ci si
chiese anche perché non si fosse attuata una riapertura distinguendo tra aree
geografiche anziché tra settori commerciali. Era evidente che le regioni si
trovassero in situazioni anche molto diverse tra loro, in certi casi con
contagi sotto le dieci persone.
Non ritengo sia esagerato affermare che quella potesse
essere l’occasione per fare un passo in avanti nella soluzione della “questione
meridionale”, favorendo per una volta il Sud. E non per discriminare il Nord,
bensì per attuare un qualsiasi genere di collaborazione nazionale, che tenesse
conto del generale contenimento della diffusione nel meridione. Rimase tuttavia
una possibilità tra tante, dimenticata, mentre alcuni giornali e personaggi
pubblici si misero a parlare di discorsi divisivi, basati sui più vecchi e
ridicoli stereotipi tra Nord e Sud.
Dal 4 uscirono tante, tantissime persone. I commenti
indignati, persino disperati, erano prevedibili. Ma si potevano rimproverare
tutti indiscriminatamente? Uscirono in tanti perché tutti erano rimasti
bloccati per due mesi. Nessuno aveva più diritto di altri di uscire, né
qualcuno avrebbe avuto particolari virtù a rimanere a casa.
Era anche plausibile pensare che nelle settimane seguenti il
numero dei contagi sarebbe cresciuto, perché era ovvio che con più persone
esposte avremmo avuto più contagiati che in quarantena.
Alcune delle domande più serie erano queste: sarebbero state
sufficienti le misure di distanziamento e i dispositivi di protezione? Gli
italiani erano pronti ad un cambiamento così drastico, che richiedeva una forte
responsabilità? Se ci fosse stata una nuova crescita dei contagi, questa sarebbe
stata esponenziale? E il sistema sanitario era in grado di contenere una nuova
ondata? I dubbi sembravano non avere fine.
Prove di riapertura
Il 17 maggio fu emanato
un nuovo DPCM, riguardante ulteriori provvedimenti per fronteggiare l’emergenza
epidemiologica e per l’allentamento delle misure di quarantena a partire dal
giorno seguente ed efficaci fino al 14 giugno 2020.
Cercherò di fare
un riepilogo degli articoli che sia il più breve possibile, ma al contempo
utile a comprendere la situazione a metà maggio.
Le persone con
febbre maggiore di 37,5° C dovevano rimanere al proprio domicilio. Era
consentito l’accesso ai parchi, ma con il divieto di assembramento; era
consentita l’attività sportiva e motoria all’aperto nelle aree attrezzate;
restavano sospese le competizioni sportive, ma erano permessi gli allenamenti a
porte chiuse; riaprivano palestre e piscine, seguendo le linee guida
dell’Ufficio per lo Sport.
Le
manifestazioni pubbliche furono consentite, ma in forma statica e mantenendo il
distanziamento. Cinema e teatri rimasero in sospeso fino al 14 giugno. Fu
consentito l’accesso ai luoghi di culto, secondo protocolli specifici per le
diverse confessioni, specificate negli allegati.
Musei e luoghi
della cultura poterono riaprire, ma seguendo i protocolli fissati dalle
regioni. Sospesi invece i congressi, le riunioni e gli eventi sociali; sospesa
anche la riapertura di centri culturali e sociali, dei centri benessere e
termali.
Poterono
riaprire le attività commerciali al dettaglio, con la dilazione degli accessi e
un tempo massimo per potersi muovere nel negozio. Ristoranti, pub, bar,
gelaterie e pasticcerie poterono riaprire, in accordo con le linee guida delle
regioni. Era permessa anche la riapertura degli stabilimenti balneari e degli
alberghi. In ogni luogo si raccomandò comunque la sanificazione.
Riaprirono anche
i cantieri e le attività industriali in grado di seguire i protocolli di
sicurezza delle regioni e delle organizzazioni di categoria.
Vi era l’obbligo
di utilizzare le mascherine nei luoghi al chiuso accessibili al pubblico e in
ogni ambiente in cui non fosse possibile mantenere le distanze di sicurezza.
Era inoltre possibile entrare in Italia, seguendo una serie di indicazioni e
sottoponendosi all’isolamento fiduciario per quattordici giorni presso il
domicilio indicato nella documentazione richiesta.
Dal 3 giugno
furono annunciati gli spostamenti da e per gli Stati membri dell’Unione
Europea, per gli Stati che aderivano all’accordo di Schengen, per il Regno
Unito, Andorra, il Principato di Monaco, la Repubblica di San Marino, lo Stato
della Città del Vaticano. Era in ogni caso consentito il rientro presso il
proprio domicilio, abitazione o residenza. Restavano tuttavia sospesi i servizi
di crociera delle navi passeggeri di bandiera italiana.
Consentiti i
trasporti pubblici di linea, secondo un protocollo di regolamentazione di
settore sottoscritto il 20 marzo.
Furono
introdotte disposizioni specifiche per le attività sociali e socio-sanitarie,
che vennero riattivate, con la possibilità di ridurre il distanziamento sociale
tra le persone con disabilità o disturbi e gli accompagnatori o operatori di
assistenza.
Queste le linee
generali del DPCM. Citerò ora alcuni temi molto discussi in questa fase,
proseguendo con nuovi temi rispetto a quanto detto nel capitolo precedente.
Prima di tutto,
la situazione delle scuole. In uno stato di emergenza come questo, le
alternative erano meno di quanto si potesse parlare nelle cosiddette
“chiacchiere da bar”. Il virus ci aveva colti impreparati mettendo a nudo anche
un’altra mancanza in àmbito educativo, ovvero il processo di digitalizzazione
mai davvero compiuto nel nostro Paese. Intendendo questo termine in senso
esteso, a partire dalla formazione degli insegnanti affinché fossero in grado
di utilizzare una banalissima webcam.
Colti in fallo,
non potemmo fare altro che mettere le pezze dove possibile (p. es. fornendo di
computer o tablet quegli studenti che ne erano privi) e sperare di avere tempo,
in futuro, per rimediare. Mi domandai poi alcune cose: università e ambienti di
lavoro avrebbero discriminato i diplomati del 2019-20, anche in modo non
esplicito? Da un lato non ne avrebbero avuto tutti i torti, dall’altro sarebbe
stata una palese ingiustizia. Si poteva pensare ad un modo per mettere alla prova
le loro conoscenze più avanti, p. es. in sede universitaria o con un corso di
formazione lavorativa? Oppure sarebbe stato sbagliato?
Pensavo a queste
e altre domande sull’argomento. Di certo, l’ipotesi iniziale di far passare
tutti gli studenti a prescindere sarebbe stato un modo per screditare coloro
che a scuola si erano impegnati per anni, che ci avevano investito tempo,
denaro e serenità.
L’unica certezza
era che già prima del virus la scuola fosse in gravi difficoltà nel formare
persone adulte e dotate di senso critico e, con l’emergenza epidemiologica, la
situazione divenne più grave che mai. Pensai alla scuola e non mi veniva in
mente nient’altro che una fabbrica di pezzi di carta, al di là del merito o del
demerito di studenti e professori; pensai anche a quei maturandi che si erano
persi un anno magico delle loro vite, dalla gita all’esperienza ansiosa ma
fondamentale della maturità.
Nella prima metà
di maggio, la ministra dell’Istruzione Lucia Azzolina annunciò i nuovi
provvedimenti relativi alla scuola. Fu concessa la possibilità di bocciare, ma
solo in casi gravi (assenze prolungate prima della chiusura, problemi di
disciplina, etc.). Oltre alla valutazione, fu stabilito di indicare le lacune
accumulate dallo studente durante la chiusura, da dover recuperare al ritorno a
scuola, a settembre, in modalità non ancora definite.
Gli esami di
terza media si sarebbero svolti con un colloquio telematico, presentando una
tesina e preparandosi sul percorso scolastico del triennio.
L’esame di
maturità si sarebbe invece svolto in presenza, in modalità orale, con una
commissione formata da docenti interni e da un solo commissario esterno. Il
colloquio sarebbe durato un’ora, prevedendo la discussione di un elaborato
sulle discipline di indirizzo; la discussione di un testo di letteratura
italiana, del materiale scelto dalla commissione e delle conoscenze di
educazione civica; l’esposizione dell’esperienza di alternanza scuola-lavoro.
Il credito scolastico avrebbe potuto essere convertito fino ad un massimo di sessanta
punti, mentre la prova orale avrebbe portato ad un massimo di quaranta punti.
Le università
rimanevano invece un’incognita, con linee guida molto generiche e una larga
discrezionalità lasciata alle singole istituzioni, che in modo diverso si
preparavano ad organizzare gli esami della sessione estiva. Verso la fine del
mese, infine, furono indicate le linee generali per il concorso pubblico per
l’assunzione di nuovi docenti, da svolgersi in autunno.
Un altro tema di
quei giorni fu costituito dai primi segnali seri di malcontento. Il 13 furono
arrestati dodici anarco-insurrezionalisti, accusati di un attentato incendiario
commesso a Bologna il 15 dicembre 2018. Le indagini sembravano dimostrare che
l’associazione avesse organizzato un sistema per sovvertire l’ordine
democratico dello Stato. Il blitz coinvolse le città di Bologna, Milano e
Firenze.
Altre proteste,
questa volta pacifiche, furono attuate dai commercianti e dai ristoratori, p.
es. a Torino, Palermo e Roma: molti proprietari scelsero infatti di rimanere
chiusi anche dopo il 18, sia perché il governo non aveva emanato il DPCM in
tempo per potersi organizzare, sia perché riaprire con quei sistemi di
sicurezza significava una riduzione della clientela spesso di due terzi.
Nel frattempo,
il governo premeva a livello europeo per sollecitare l’attuazione del Recovery
Fund; il MES era invece stato approvato senza condizionalità, ma solo per
investimenti in settori specifici, come quello sanitario. Mentre però si
aspettava l’arrivo di nuova liquidità nell’economia reale, oltre alle proteste
cominciarono a circolare le prime notizie di suicidi, dovuti alla situazione
disperata.
Molti scelsero
comunque di riaprire le loro attività, ma tra i più limitati vi erano i
lavoratori delle stazioni balneari. Non era solo un problema per i gestori, ma
anche per i turisti, perché molti annunciavano che non sarebbero andati al mare
a quelle condizioni. Mi immaginavo tra cinquant’anni, quando i collezionisti di
oggetti vintage avrebbero trovato le riviste del 2020, con titoli come Abbronzatura Estate 2020 e le fotografie
annesse di persone abbronzate con il segno bianco della mascherina sul viso. Un
colore sbiadito magari, per rievocare le vecchie riviste americane con storie
post-apocalittiche o fantascientifiche al loro interno. Insomma, l’idea di
trascorrere un week-end in spiaggia, a quelle condizioni, era tutt’altro che
invitante. E un problema davvero grave riguardava quelle spiagge, come sulla
Costiera Amalfitana, con aree per la balneazione tipicamente ristrette.
Altri settori
rimanevano chiusi, ma premevano per riaprire. Tra tutti, il calcio. Avevo già
parlato – ancora nei primi capitoli – del potenziale pericolo che avrebbe
causato la chiusura delle attività calcistiche nel nostro Paese, con una certa
tifoseria che necessitava di quello sfogo sociale per non indirizzare in altre
sedi la carica violenta.
Comprendevo
anche gli interessi economici dietro al calcio, tuttavia seguire le norme in
partita era semplicemente impossibile: si potevano impedire le marcature,
facendo stare i giocatori ad almeno un metro di distanza? Le partite si
sarebbero potute tranquillamente risolvere in un testa o croce su chi vincesse
la palla. In fondo, questa fase normativa fu segnata da una miriade di
controsensi e di veri e propri nonsensi: d’altra parte, lo stesso controllo
metodico di tutte le coste, in una Penisola come la nostra, risultava di fatto
impraticabile.
La riapertura
del 4 ci mostrò come molti di noi fossero stati troppo ottimisti. Uscimmo in
città dove i locali erano ancora chiusi; i negozi vuoti o in fallimento; i
luoghi di svago inaccessibili. Anche dopo il 18, molti cominciarono ad avere
paura persino di invitare e di organizzare un piccolo aperitivo in casa. Si
sentiva parlare di bambini e adolescenti che, pur potendo uscire, non ne
avevano alcuna voglia. Fu inoltre segnalato un incremento delle chiamate
relative alla violenza domestica: persone in gravi difficoltà, isolate dal
mondo, con un sentimento di solitudine crescente e la percezione che – là fuori
– non vi fosse più niente e nessuno su cui poter contare.
Questa
emergenza fu il preludio ad una svolta antropologica. Molti purtroppo non si
sarebbero adattati. Non sarebbe andato tutto bene; prenderne coscienza era
fondamentale per reagire. La retorica stessa degli eroi sarebbe stata vana se
ad essa fosse seguita una devastazione della vita sociale, motore propulsore di
ogni società.
La riapertura delle regioni italiane
Il 21 maggio si
superarono i cinque milioni di contagiati nel mondo, sebbene due terzi di questi
fossero concentrati in soli quattro Paesi. In Italia, il Capo della Polizia,
Franco Gabrielli, ribadì la necessità di assicurare il divieto di
assembramento, alla luce dei primi dati allarmistici sulla rinata movida delle
città. Dall’altro lato c’erano anche i più timorosi, che si domandavano
ingenuamente perché fosse necessario riaprire i negozi tanto presto. Semmai, il
problema riguardava le regole rigide, che ebbero per molti un potere dissuasivo
almeno in quelle settimane e che di fatto danneggiarono comunque le attività
commerciali, sebbene per una ragione comprensibile. D’altra parte non si poteva
nemmeno togliere alle persone la possibilità di esercitare una delle pochissime
facoltà che gli erano rimaste, ovvero il potere d’acquisto.
Il 26 si cominciò
a parlare in modo diffuso del problema degli assembramenti e il governo tastò
il terreno – come aveva fatto nei mesi precedenti – questa volta sulla
possibilità di creare un gruppo di 60mila volontari per controllare locali e
persino spiagge. In effetti, il solo pensiero di tenere sotto controllo tutte
le coste della Penisola appariva impraticabile, ma certamente la proposta di un
corpo di volontari addetto a tale compito era quantomeno risibile. In fondo,
non era altro che un’implementazione degli informali e annoiati “poliziotti dei
balconi”, che avevano accompagnato le settimane della quarantena.
In attesa del 3
giugno, data di riapertura delle regioni, territori limitrofi come Friuli,
Veneto, Emilia e la provincia di Trento anticiparono i collegamenti
interregionali. Tuttavia ci furono non poche difficoltà ad avere informazioni
su come muoversi, a causa di un continuo rimbalzo di responsabilità e delle
incertezze delle stesse istituzioni. Dai comuni alle polizie locali, dal numero
speciale dedicato all’emergenza alle sedi della Protezione Civile: la rilettura
de Il processo di Kafka poteva ben evidenziare l’assurdità di queste
regole e normative non chiare, che ponevano il cittadino in balìa della libera
interpretazione del presunto responsabile di turno.
Ad ogni modo,
mentre in Italia il problema degli assembramenti riguardava il tema della
movida, in India il rischio di un contagio crebbe per gli sfollati del
superciclone Amphan. Medesime priorità, piani di difficoltà decisamente
diversi. Cito questo dato solo per evidenziare come in quei mesi la nostra
visuale sul mondo circostante si fosse drasticamente ridotta e i problemi
nostrani, anche i più banali, avevano occupato forse più spazio del necessario.
Nel frattempo,
il 27 l’ANSA comunicò i dati sul Recovery Fund: 172,7 miliardi sarebbero stati
riservati all’Italia; 81,807 come aiuti e 90,9 come prestiti. Il discorso fu
solo in parte al centro del dibattito, perché il focus era stato spostato in
modo evidente sui gruppi di persone che si ritrovavano nei locali, scatenando
oltretutto una bagarre tra regioni virtuose e incapaci, dividendo per
l'ennesima volta la sfida tra Nord e Sud.
Vedendo tutti
quegli assembramenti sui media – reali ma anche in parte enfatizzati – ci si
cominciò a domandare come mai non aumentassero in maniera vistosa anche i
contagi. Non ci fu una risposta univoca. Il 25 uscì comunque un articolo
interessante di Luca Carra, sul sito scienzainrete.it (SCIRE), dal titolo Perché si muore sempre meno di Covid?.
Tra le varie
spiegazioni, nell’articolo si citano quelle proposte da Fabio Ciceri, ematologo
vicedirettore scientifico dell’Ospedale San Raffaele di Milano: «Le cure in
ospedale e a casa sono più appropriate che nei primi tempi e somministrate in
modo più precoce. Si è messo a fuoco che, al di là delle polmoniti, la malattia
presentava un quadro infiammatorio e di trombosi diffusa da trattare con
anticoagulanti e terapie immunomodulanti. Inoltre, uscendo dall’emergenza e con
più letti disponibili, gli ospedali rispondono meglio. Un altro punto
importante è la stagionalità: a febbraio-marzo negli esami sierologici dei
pazienti abbiamo trovato virus influenzali e altri virus che suggeriscono
infezioni concomitanti e, quindi, aggravanti il quadro. Anche l’inquinamento
atmosferico, irritando le vie respiratorie, fa sovraesprimere i recettori ACE2
e peggiorare la prognosi».
Giunse infine il
3 giugno, con la possibilità di potersi muovere tra regioni: senza dubbio le
persone stavano già cominciando ad abbassare la guardia e a parlare, in tanti,
in termini complottistici, spinti anche dal comprensibile malcontento per mesi
di inattività.
Secondo i dati
della Johns Hopkins University, al 31 le vittime a livello globale erano
370.247, di cui 103.906 negli Stati Uniti. I contagiati avevano superato i sei
milioni, di cui oltre un milione e settecentomila negli Stati Uniti e quasi
mezzo milione in Brasile.
Ma all’emergenza
Coronavirus tornarono ad affiancarsi altri temi molto importanti a livello
mondiale. Ad Hong Kong erano riprese le proteste, ma fu negli Stati Uniti che
accadde un fatto gravissimo. Il 25, a Minneapolis, in Minnesota, fu ucciso
George Floyd, un afroamericano che perse la vita durante l’arresto da parte di
quattro agenti di polizia, che come mostrato dai video diffusi attuarono un
evidente abuso di potere. L’agente Derek Chauvin premette il suo ginocchio sul
collo di Floyd per otto minuti e quarantasei secondi e, nonostante le richieste
disperate della vittima, l’agente non allentò la pressione fino alla morte
dell’uomo. Le parole della vittima, "I can’t breathe" divennero uno
slogan e la sua morte portò ad un’ondata di proteste destinata a protrarsi per
diverse settimane e di cui avrò modo di parlare più nel dettaglio.
Le
contraddizioni della superpotenza a stelle e strisce potevano vedersi anche di
fronte al lancio del razzo Falcon 9 della compagnia Space X, fondata da Elon
Musk. La missione Demo-2 (o DM-2) fu avviata al Kennedy Space Center il 30 e i
due astronauti coinvolti furono Bob Behnken e Doug Hurley. Si trattò di un’ennesima
conquista statunitense, con l’obiettivo di aprire la strada alla
normalizzazione dei viaggi nello spazio, oltre che di uno sfoggio di tecnologie
avveniristiche, a partire dagli schermi piatti nella capsula Crew Dragon.
Certamente gli eventi della morte di Floyd e della missione Demo-2 non avevano
quasi nulla in comune, ma forse evidenziavano bene quali fossero le grandi
vette e i gravi disastri che gli Stati Uniti erano in grado di compiere ancora
oggi.
Black Lives Matter
Queste memorie
sono circoscritte al tema del Coronavirus e a come il mondo reagì alla
pandemia. Tuttavia fenomeni come le proteste negli Stati Uniti, riunite intorno
al movimento Black Lives Matter, non possono essere ignorati, per la loro
rilevanza storica e per il fatto che comunque si inserirono nel contesto
dell’emergenza sanitaria, intrecciandosi ad essa.
Il mese di
giugno si aprì con una bufala su un presunto blackout a Washington DC, il primo
del mese. Nella capitale c’erano stati significativi disordini nella notte, con
saccheggi e scontri tra polizia e manifestanti. Quest’ultimi avevano marciato
verso Lafayette Square, di fronte alla Casa Bianca, costringendo il presidente
Trump a rifugiarsi con la famiglia nel bunker previsto dal protocollo per le
emergenze. La Casa Bianca rimase così al buio e Trump, per minimizzare lo
smacco subìto, si affrettò a fare battute sull’accaduto. In seguito, dalle
parole passò ai fatti e fece sgombrare con la forza lo spazio antistante alla
sede governativa per poter simbolicamente andare alla chiesa presidenziale di
St. John (incendiata dai manifestanti) e – Bibbia alla mano – annunciare di
essere colui che avrebbe riportato law
and order.
Nei giorni di
quella bufala, mi chiesi perché ci lamentassimo delle fake news se poi, quando ci comodava, eravamo pronti a diffonderle
o a “cavalcare l’onda”. Il fact checking
doveva necessariamente valere per tutti e per tutto. Altrimenti era solo
ridicola contro-propaganda.
Facciamo
però un discorso più specifico in termini storici. Il 4 si commemorò
l’anniversario delle proteste di piazza Tienanmen, a Pechino, che durarono dal
15 aprile al 4 giugno 1989. Ne parlai in questo blog e rimando a quel post (qui) per integrare il discorso.
Si tende comunque a dire
che le fotografie e i video di quei giorni diedero maggiore forza a coloro che
protestavano in Europa per ottenere la caduta del muro e dell’URSS. Penso però,
e purtroppo, che sia solo una mezza verità. L’Unione Sovietica era destinata
comunque a cadere e il processo di disgregazione era avviato già da diversi
anni.
Non credo
nemmeno che le proteste di piazza Tienanmen abbiano davvero mosso le coscienze
di fronte alle repressioni del regime cinese, dal momento che la storia ci ha
mostrato come la Cina sia potuta divenire un colosso mondiale e che oggi sia in
grado di agire in modo (quasi) del tutto incontrollato anche dal punto di vista
della repressione interna. Si pensi soltanto al caso del Tibet e alle proteste
di circa dieci anni fa, di cui forse i giovani d’oggi non hanno nemmeno mai
sentito parlare. Si pensi allora agli Uiguri, l’etnia turcofona di religione
islamica, la cui persecuzione fece grande scalpore nel 2019. E si concluse
anch’essa nel silenzio generale. Nessuna giustizia; nessun diritto acquisito.
Tutto questo per
dire che cosa? Che sono davvero rare le proteste che hanno avuto un esito
felice e immediato nella storia. E ogni volta che nascono questi grandi
fenomeni, siamo tentati di credere che non sia mai successo nulla del genere,
che “il vento stia cambiando”, che vivremo finalmente in un mondo migliore e
via discorrendo. La realtà ci mostra piuttosto come molte di queste proteste
siano importanti, talvolta fondamentali, ma che richiedano tempo (anni o
persino secoli) per mostrare i propri frutti. Frutti che, come in ogni grande
rivoluzione o protesta, si concludono sempre, anche minimamente, con un qualche
genere di compromesso tra il nuovo sistema e quello che lo ha preceduto.
Eppure... eppure
sappiamo, percepiamo nel profondo di noi stessi, che il cambiamento è
necessario; che non possiamo ancorarci a nessuna certezza o abbandonarci alla
rassegnazione di fronte ad un’umanità che soffre di fronte a noi, o proprio in
noi stessi. E tutto questo è il motore della storia; le nostre vite in qualità
di esseri umani, al di là delle singole esistenze che brevemente si disperdono.
Ora, le
proteste negli Stati Uniti avevano una indiscutibile legittimità. Per un'inquadratura antropologica e storica dell'argomento, rimando a un post che scrissi sull'argomento (qui), per mostrare come l'assassinio di George Floyd si inserisse nella storia stessa degli Stati Uniti e in un certo pensiero razzista.
Leggendo la sintesi alla quale ho rimandato, sembra che l’umanità continui a mordersi la coda all’infinito,
senza mai venirne a capo. Ho citato p. es. l’uccisione di Fred Hampton (1969)
per mano della polizia e i tumulti di Los Angeles del 1992: casi che
scatenarono reazioni molto simili a quelle successive alla morte di Floyd, in
una fase storica in cui vi era ancora un concreto attivismo per i diritti
civili, che andava oltre il tempo fugace di un trend sui social.
Nella storia
umana, è capitato che singoli individui si distinguessero, magari persone di
cui non abbiamo nemmeno mai sentito parlare, ma che hanno trovato un loro modo
di uscire da questo schema perverso, da questo infinito ritorno, portando
l’umanità ad un livello superiore. Quello che stava succedendo negli Stati
Uniti era qualcosa di grandioso e di doveroso da portare avanti, ma il timore
era che non ci sarebbero state conseguenze positive sul lungo periodo. Era
facile pensare che la rabbia sarebbe divenuta sempre più uno scontro tra
opposte fazioni, sempre più feroce. Una lotta senza quartiere dove avevo seri
dubbi che, alla fine, avremmo potuto distinguere i cosiddetti “buoni” dai
“cattivi”, senza se e senza ma. E questo è il ciclo di cui parlo.
Violenza chiama
violenza e chi aveva il dovere di fermarla? Chi aveva il diritto morale di
poterla fermare? Era facile condannare il saccheggio quando questo era
realizzato per puro sfogo o per violenza gratuita. Ma se ci riferivamo a quelle
persone relegate ai margini della società (inevitabilmente aggiungerei, in un
sistema tardo-capitalista dove per forza c’era chi vinceva e chi perdeva),
allora mi era molto più difficile condannare e più semplice comprendere. Non
bisognava nascondere che la violenza potesse provenire anche dagli stessi
manifestanti afroamericani: proprio in quanto esseri umani, era legittimo per
loro provare anche odio, disperazione, desiderio di rivalsa troppo a lungo
frustrata.
In queste
proteste c’era un malessere concreto e trasversale, impossibile da ignorare. E
proprio di questo parlerei, di proteste al plurale: il caso Floyd aprì un vaso
di Pandora, dove non vi era solo la contraddizione mai davvero risolta dei
diritti civili, ma molto altro, che riguardava ogni etnia. Al contempo, però,
era necessario che gli afroamericani fossero liberi di esprimere le loro
istanze di giustizia senza l’interferenza di altre persone estranee alla loro
questione.
Mi concentrerei
inoltre su un altro punto. Era necessario capire anche come si sarebbero
schierati gli ispanici a livello elettorale – a patto che avessero scelto di
farlo – e come si sarebbero schierate tutte le minoranze, anche quegli
afroamericani che vivevano invece in zone urbane della classe media o
medio-alta.
Ormai tanti
orientali, ispanici e afroamericani erano perfettamente nelle istituzioni e nei
CdA delle aziende, si potrebbe dire in maniera proporzionale al loro peso nella
società (14% per gli afroamericani). Eppure non sempre era così e c’erano
ancora molte situazioni critiche di discriminazioni dirette e indirette, in
particolare nelle aree più disagiate degli Stati Uniti. Sembrava però chiaro
che le proteste di quei giorni riguardassero non solo quegli afroamericani che
vivevano ancora la discriminazione, ma anche coloro che, al di là dell’etnia,
vivevano la discriminazione economica e di classe. Quell’elettorato che in gran
parte affidò le proprie speranze di emancipazione all’allora candidato alle
presidenziali Barack Obama e che in quei giorni faceva i conti con una realtà
che non era poi cambiata di molto sotto quel punto di vista.
Infine,
un’ultima considerazione. Ritengo che ogni governo statunitense, repubblicano o
democratico, abbia sempre sentito di avere un debito morale nei confronti dei
propri veterani di guerra e che quindi non abbia mai fatto quegli accertamenti
sufficienti di cui ci sarebbe stati bisogno, soprattutto quando si trattava di
accedere al lavoro nelle forze dell’ordine. E penso anche che vi fosse sempre
stato il timore che questi veterani, non trovando un lavoro “dignitoso”,
avrebbero potuto impiegare le loro conoscenze militari per costituire gruppi e
sottogruppi di azione violenta contro lo Stato.
Ciò che ho
voluto tracciare con queste sintesi e con le mie considerazioni riguarda un
approccio critico rispetto a un tema tanto delicato come quello dei diritti
civili, che potrebbe estendersi alla lotta per molti altri diritti umani. Se è
vero che non possono più esserci dubbi su quale sia la via da seguire per
un’umanità davvero unita senza differenze di razza, dobbiamo anche affrontare
questa lotta senza mitologie, senza generalizzazioni, senza contro-propaganda.
Poiché, letteralmente parlando, non esiste il bianco e il nero, e siamo tutti
esseri umani nella nostra capacità di odiare e di amare.
La Fase Tre in Italia. Politica e razzismo
L’11 giugno accaddero
due eventi rilevanti nel nostro Paese. Il Consiglio dei Ministri approvò la
vendita di due fregate prodotte da Fincantieri all’Egitto, con il consenso
delle delegazioni dei partiti di maggioranza, sebbene Liberi e Uguali avesse
precisato in seguito il suo disaccordo. La vendita fruttava 1,2 miliardi di
euro, a cui si aggiungevano accordi per jet, caccia e satelliti. L’approvazione
fece tornare al centro dell’attenzione, almeno per pochi giorni, il caso di
Giulio Regeni, che quattro anni prima era stato rapito, torturato e infine
ucciso in circostanze mai chiarite. A questo caso si aggiungeva quello di
Patrick Zaky, attivista egiziano e studente all’Università di Bologna, che era stato
arrestato il 7 febbraio 2020 all’aeroporto del Cairo, per “istigazione al
rovesciamento del governo e della Costituzione”. Ma con la vendita di queste
fregate, il governo italiano ribadiva l’interesse a mantenere i rapporti
commerciali con l’Egitto governato da Abdelfattah al-Sisi, rifiutando la strada
dello scontro diplomatico.
La strategia
adottata dal governo mostrò tutta la sua debolezza il 1° luglio, quando le
procure dei due Paesi si incontrarono in videoconferenza per un confronto. Di
fatto, la procura generale egiziana non fornì nuove informazioni sul caso
Regeni, nemmeno sulle sollecitazioni del procuratore Michele Prestipino
Giarritta, che chiese risposte concrete e in tempi brevi p. es. sulla scelta
del domicilio per i membri dei servizi segreti egiziani sotto indagine da parte
di Roma.
Dieci giorni
prima c’era pure stata una beffa ai danni della famiglia Regeni, quando gli
inquirenti egiziani consegnarono alcuni presunti oggetti personali di Giulio,
trovati in realtà nella casa di una delle persone uccise in una sparatoria, a
marzo 2016, a cui il governo cercò invano di attribuire la colpa della morte di
Regeni. Nessuna verità, dunque, e anzi la volontà italiana di umiliarsi di
fronte all’Egitto in cambio di un nuovo accordo commerciale.
Oltre a questo
triste episodio, l’11 giugno il CdM approvò un nuovo DPCM, in vigore da lunedì
15, per regolare le riaperture della cosiddetta Fase Tre. Ora, una premessa:
l’uscita dei DPCM e le conferenze stampa del premier Conte divennero una
pratica talmente diffusa, sulla quale spendemmo giorni e giorni durante la
quarantena, che ormai ci sembravano un qualcosa di talmente routinario da poter
essere ignorato. Allo stesso modo, la formula “Fase Tre” non ebbe tanta fortuna
come quella precedente, forse anche per il fatto che apparisse troppo
ravvicinata o precipitosa.
Ad ogni modo, il
nuovo DPCM stabiliva quanto segue: riaprivano le aree gioco per bambini nei
luoghi pubblici e i centri estivi, seguendo alcune linee guida che riducevano
il numero degli iscritti anche a meno di un terzo rispetto alle normali
capacità. Ripresero gli eventi sportivi di interesse nazionale, senza pubblico,
e dal 25 fu consentito lo svolgimento degli sport di contatto, compatibilmente
con l’andamento della situazione epidemiologica dei territori coinvolti.
Fu di nuovo
possibile svolgere manifestazioni pubbliche, benché in forma statica,
mantenendo le distanze sociali e le misure di contenimento. Riaprirono teatri,
cinema e sale da concerto, ma con posti pre-assegnati e l’obbligo di distanziamento
di almeno un metro: gli spettacoli all’aperto erano consentiti fino a un
massimo di mille spettatori, ridotti a duecento per sala nei luoghi chiusi.
Luoghi di culto e della cultura poterono riaprire con analoghe disposizioni.
Riaprirono anche i centri benessere e i centri termali.
Rimasero sospesi
i servizi educativi per l’infanzia e le attività didattiche in presenza nelle
scuole di ogni ordine e grado. Stessa sorte anche per le università. Le prove
teoriche e pratiche realizzate da autoscuole e motorizzazione civile non furono
invece sottoposte a queste sospensioni.
Riaprirono gli
stabilimenti balneari, con regole che potevano variare leggermente da regione a
regione, ma che includevano talvolta il pagamento per l’accesso e in ogni caso
il distanziamento delle postazioni, con regolare igienizzazione.
Infine,
rimanevano praticamente invariate le disposizioni di quarantena per chi
mostrasse i sintomi del Coronavirus.
Per dare un’idea
pratica di come ci si doveva muovere in quei giorni, riporto la mia esperienza
personale in alcuni luoghi, come testimonianza per il futuro. Quanto riporto
era la situazione a Pordenone e in provincia.
Tra maggio e
giugno, mi capitò p. es. di dover andare più volte in ospedale a causa del
ricovero di un parente stretto. Il giorno che questi andò al pronto soccorso,
ci fu impedito di restare nella sala d’attesa e il paziente dovette rimanere da
solo durante tutto l’iter di analisi. Dopo i primi controlli, stabilito che
dovesse essere operato, gli venne fatto un tampone per il Coronavirus: il
risultato arrivò circa un’ora e mezza dopo e fu negativo. A quel punto fu
portato in reparto, in attesa dell’operazione. Per le circa due settimane di
ricovero, non potemmo andarlo a trovare e riuscimmo a vederlo soltanto tramite
videochiamata. Il fatto di non poter ricevere visite fu molto deleterio per il
suo umore, ma non si poteva fare altrimenti. Ogni due giorni si saliva
all’ottavo piano dell’ospedale e si attendeva all’ingresso del reparto, dove un
infermiere veniva a ritirare i vestiti e gli oggetti che avevamo portato e ci
restituiva quelli sporchi. Quando fu in grado di muoversi, il paziente riuscì
anche ad affacciarsi per farsi vedere a distanza. Per il resto, dovette tenere
la mascherina costantemente, benché fosse negativo al tampone e isolato
all’interno del reparto.
Un altro
esempio: scuola e università. Seguii via Skype diversi studenti, facendo
ripetizioni anche a due maturandi. Mi raccontarono situazioni quantomeno
bizzarre: docenti che forse non avevano mai visto prima una webcam e che
facevano intere lezioni mostrando solo un mento o i capelli; docenti che
proprio non fecero lezioni online e che caricavano materiale didattico senza
fine, ad ogni ora della notte e nei giorni festivi. C’erano poi casi di
studenti che svolgevano verifiche scritte a webcam spenta, con l’ausilio degli
appunti e di internet e che magicamente alzarono la loro media anche di tre
voti. Voti che al principio erano segnati come provvisori e che poi – dato
l’evolversi della situazione – furono confermati o calcolati in modo del tutto
arbitrario dagli insegnanti. Si arrivò così alla maturità: nessuna prova
scritta e un’unica prova orale, regolamentata minuto per minuto con argomenti
già prestabiliti e un marginalissimo spazio riservato ad eventuali domande
“fuori programma”, per così dire.
Come ebbi già
modo di scrivere in questi capitoli, mi domandai ancora una volta quanto tutto
ciò avrebbe danneggiato gli studenti diplomatisi nel 2020 a livello lavorativo
o di carriera universitaria. Proprio a proposito di università, vidi e sentii
di studenti che svolsero esami a webcam spenta, copiando allo stesso modo degli
studenti delle superiori. Personalmente, conclusi i 24 CFU necessari
all’accesso ai concorsi per l’insegnamento e partecipai a tre esami tramite la
piattaforma Microsoft Teams. Vidi molte cose quantomeno discutibili, oltre al
fatto che le connessioni danneggiarono diversi studenti. Da luglio, poi,
avrebbero ripreso gli esami in presenza, perlomeno a Trieste.
Racconto ancora
alcuni esempi. Ripresi a lavorare in biblioteca a fine maggio. Si parlò di
“porte aperte”, ma di fatto le regole furono molto stringenti e in generale
tale modello fu adottato da tutti gli enti pubblici come questo. I dipendenti
firmarono una sorta di auto-certificazione in cui affermavano di non aver
contratto il virus e che avrebbero seguito una serie di protocolli qualora
avessero avuto sintomi da Covid-19. L’accesso alla biblioteca fu consentito
solo su appuntamento e soltanto per ritirare i libri precedentemente prenotati.
Erano sospesi tutti gli altri servizi, come l’accesso ai computer, la lettura
di giornali e riviste, l’ingresso alla sezione ragazzi. I dipendenti avevano
l’obbligo di utilizzare la mascherina e i guanti, di assicurarsi che gli utenti
si igienizzassero le mani all’ingresso e di accompagnarli all’uscita, che non
corrispondeva all’ingresso, in modo tale che non si incrociassero le persone.
Per sintetizzare, cito un’ultima norma: le restituzioni potevano avvenire solo
lasciando i libri in un box all’esterno della biblioteca; i dipendenti li
ritiravano e li mettevano in quarantena per quattro giorni in una apposita
sala.
Come era
prevedibile, l’utenza calò drasticamente e molti furono scontenti di queste
decisioni, poiché probabilmente le persone volevano tornare alla normalità,
mentre il cambiamento delle loro abitudini generava in loro un ulteriore
stress. Oltretutto, molti dovettero trovare surreale la differenza tra le
regole stringenti delle strutture pubbliche e la libertà che trovavano nei bar
e nei locali, dove le persone cominciavano ormai a violare la gran parte delle
norme di distanziamento. In tutto questo, l’arrivo dell’estate non fece altro
che peggiorare la situazione.
In effetti, in
un primo tempo l’accesso ai locali fu limitato e si fece ampio uso di
mascherine e guanti (spesso guanti per modo di dire, trattandosi di pezzi di
plastica rettangolari senza dita), ma da metà giugno la situazione precipitò.
La mascherina non era più obbligatoria negli spazi aperti, purché si
mantenessero le distanze, e questo forse spinse molti ad abbassare la guardia o
a pensare che il pericolo fosse stato esagerato per mesi. Era comune osservare
persone senza mascherina e in gruppi numerosi tanto nei negozi quanto nei
locali.
L’immagine più
nitida di questo fenomeno la fotografai con la mente nella località di mare di
Lignano: discoteche che non rispettavano alcuna norma di distanziamento; bar e
ristoranti pieni dove praticamente nessuno indossava la mascherina e manteneva
le distanze. La polizia si fece vedere solo una volta, quasi all’alba, per un
giro di controllo: d’altra parte, se fossero stati presenti per tutta la
nottata, avrebbero dovuto multare letteralmente qualche migliaio di persone.
Dopo questi
esempi diretti, vengo all’ultimo argomento. Il 21 si conclusero i nove giorni
dei cosiddetti “Stati generali”, organizzati dal governo Conte a Villa Doria
Pamphilj, ai quali tuttavia non parteciparono le opposizioni, vedendovi
solamente una “passerella” politica. L’obiettivo del governo era di individuare
le linee guida per il futuro del Paese, confrontandosi con tutte le parti
sociali coinvolte.
In breve
sintesi, segnalo alcune idee uscite da questa settimana e mezza di confronti.
Il premier Conte presentò il Recovery Plan suddividendolo in nove punti e
centotrentasette progetti. La riforma del fisco avrebbe dovuto essere
improntata ad una maggiore equità ed efficienza: tra le intenzioni, quella di
abbassare l’IVA e di favorire a livello fiscale gli imprenditori che operavano
al Sud. A livello di infrastrutture, si parlò di diversi progetti, come una
linea ad alta velocità da Brindisi a Napoli, nonché una riforma del codice
degli appalti. Seguì un rilancio del progetto per un’Italia digitale, con
un’ulteriore estensione dei pagamenti digitali e la creazione di una rete unica
nazionale di fibra ottica. In questo contesto si parlò anche della
digitalizzazione della pubblica amministrazione, legandola al processo di
sburocratizzazione. Non mancarono infine i riferimenti al Green Plan italiano,
che incluse anche la transizione energetica dell’ex ILVA di Taranto. Tante le
idee e le proposte, ma di fatto gli Stati generali furono un momento di
confronto di idee e di parole e non già un piano d’azione attuato o attuabile
nell’immediato.
Nel frattempo
premeva la rabbia nel Paese e cominciarono a svolgersi diverse manifestazioni
di protesta contro il governo. Nei giorni degli Stati generali, a Roma si
riunirono ultrà ed esponenti di estrema destra: ci furono tensioni e lanci di
bottiglie; bruciò una parte del prato del Circo Massimo e si udirono cori
inneggianti al duce.
Cito questi
episodi per due motivi. Il primo per evidenziare come nei primi tempi della
quarantena sottolineai l’importanza del calcio e dello sport come sistema per
attutire la rabbia sociale. Il secondo per sottolineare come nel nostro Paese
vi fosse la necessità di guardare a noi stessi in termini di razzismo, prima
ancora che agli Stati Uniti. In diversi Stati, soprattutto negli USA e nel
Regno Unito, si cominciarono ad abbattere le statue di razzisti e schiavisti,
provocando spesso un acceso confronto sulla legittimità di quegli atti di
vandalismo. Eppure in Italia avevamo molto di cui discutere, tra numerosi
monumenti di origine fascista e statue dedicate a personaggi controversi, come
quella di Indro Montanelli ai giardini pubblici di Milano, a lui dedicati. La
statua fu imbrattata con vernice rossa e non era la prima volta che subiva un
atto di vandalismo.
Penso che in
tutta questa faccenda fosse necessario porsi in una prospettiva di buonsenso
critico, promuovendo una contestualizzazione storica e tematica. Ma proprio in
nome di essa, Montanelli ne usciva sfavorito: in una prospettiva storica, il
giornalista appariva un individuo piccolo, impregnato di supponenza
intellettuale. Non era possibile parlare del suo lavoro come scrittore e
giornalista non considerando questa figura in tutte le sue caratteristiche,
compreso quel matrimonio con una bambina africana che Montanelli continuò a
raccontare fino a tarda età e i cui contorni storici rimanevano incerti, ma non
la mentalità di colui che questa storia la raccontava. E se era vero che ognuno
di noi vive di luci e di ombre, qui le ombre divenivano tenebre e non era
possibile fare finta di nulla.
Il giudizio
storico è costituito anche dalla doverosa revisione di quei panegirici alla
memoria che nascondono senza pudore ciò che è sotto la luce del sole.
Montanelli non riconsiderò molti pensieri come quelli diffusi sui social in
quei giorni. E visse ben oltre gli anni Trenta del Novecento: ebbe tutto il
tempo – il tempo di una vita – per conoscere gli sviluppi storici e
antropologici di taglio anticolonialista e antirazzista. Il non aver fatto un
passo indietro nemmeno in quel clima di attenzione per i diritti umani (di
tutti) è una condanna che Montanelli si auto-inflisse. Ed era giusto che i
contemporanei lo sottolineassero.
Il problema
della memoria e dei monumenti era tuttavia solo una parte della questione.
Durante gli Stati generali e le proteste negli Stati Uniti, Aboubakar
Soumahoro, sindacalista ivoriano naturalizzato italiano, si incatenò vicino a
Villa Pamphilj, fino a quando Conte decise di ascoltare le sue richieste: una
riforma della filiera agricola, un piano nazionale per affrontare l’emergenza
lavoro e una modifica delle politiche migratorie.
Era questa
l’occasione italiana per dare significato all’indignazione di quelle settimane,
ma ritengo che i sostenitori del Black Lives Matter in Italia non diedero
abbastanza visibilità a questa persona. Oltretutto, sostenere la lotta di
Soumahoro aveva implicazioni nella lotta parallela alle mafie e allo
sfruttamento degli immigrati e degli emarginati che queste compivano.
Citando le
parole del podcaster John Modupe, pronunciate in un video su Instagram del 3
giugno sul tema del razzismo nella Penisola: «Il razzismo in Italia non ha un
valore di mercato abbastanza alto», per cui ci indignavamo per ciò che accadeva
negli Stati Uniti, ma non nel nostro Paese. In poche parole, mediaticamente non
reggeva il confronto tra l’immagine del nero americano e quella dell’immigrato
in Italia. E puntavamo il dito, lavandocene le mani.
Gli sviluppi sull'ambiente
Tra la fine di
maggio e i primi giorni di giugno, circolò la notizia della morte di un’elefantessa,
in India. Era morta dopo giorni di agonia per aver ingerito un ananas riempito
di petardi. Ne nacque un’indignazione internazionale e sui social si trovarono
numerosi disegni dedicati all’elefantessa, che era oltretutto incinta.
L’animale era
entrato nell’area di un villaggio vicino al parco nazionale di Silent Valley, nel
Kerala; un episodio analogo era accaduto il mese precedente, con la morte di un
altro pachiderma. Come raccontò un funzionario forestale, Mohan Krishnan, l’elefantessa
non aveva fatto del male ad un singolo essere umano, «nemmeno quando correva in
preda a un dolore lancinante per le strade del villaggio».
L’ananas con i
petardi era riservato ai cinghiali ed era stato messo dai contadini per
difendere i campi. Forse anche grazie alla reazione internazionale, fu avviata
un’indagine e si arrivò all’arresto di un coltivatore. Ad ogni modo, non
parlerei comunque di fatalità, perché il fatto che l’ananas fosse riservato ai
cinghiali non cambiava la storia di una virgola, a prescindere dall’animale
coinvolto. E si poteva benissimo estendere il discorso al trattamento riservato
agli animali in certi nostri allevamenti, senza fare tanta strada.
In quei giorni,
molti ripeterono la consueta constatazione per cui l’essere umano non meritasse
di vivere su questo pianeta. Di sicuro, il rapporto tra uomini e animali era un
tema particolare in India, a causa della sovrappopolazione. Lo stesso problema era
in fondo all’origine della diffusione iniziale del Covid-19.
Un’altra notizia
collegò questi due argomenti. Il 30 maggio, alcune scimmie attaccarono un
assistente di laboratorio del Meerut Medical College di Delhi, fuggendo con dei
campioni di analisi del sangue di persone affette da Covid-19. La maggior parte
dei campioni fu recuperata intatta, mentre uno di questi era stato masticato da
una delle scimmie.
Questi animali
erano ormai abituati a vivere con gli umani e, in seguito all’adozione delle
misure restrittive, avevano riconquistato aree della città, ritrovandosi
tuttavia in mancanza del cibo che rubavano o ottenevano dalle persone.
Per rimanere
sulla linea di coloro che sostenevano come non fossimo degni di abitare questo
pianeta per la nostra scarsa responsabilità, basterebbe citare il caso della
Siberia.
Circa ventimila
tonnellate di diesel fuoriuscirono da un serbatoio situato nella zona industriale
della città di Norilsk, capitale russa del nichel. La causa fu il cedimento dei
supporti del serbatoio, provocato dal collasso del permafrost.
La compagnia
Norilsk Nickel attribuì la colpa al cambiamento climatico, ma è giusto
ricordare che l’area fosse già uno dei luoghi più inquinati del pianeta, per la
dispersione di anidride solforosa nella tundra artica. Negli ultimi anni, le
temperature in Siberia erano cresciute in maniera sorprendente, provocando una
serie di incendi sempre più gravi. Proprio ai primi di luglio si diffusero gli
incendi boschivi concentrati soprattutto nella Siberia orientale, con una
distruzione di oltre un milione di ettari di foresta.
Per citare un
ultimo tema, ricollegandoci al Coronavirus, divenne un problema anche l’inquinamento
causato dalla dispersione di guanti e mascherine. Secondo i dati diffusi dall’ISPRA,
questi oggetti avrebbero prodotto dalle 160mila alle 400mila tonnellate di
rifiuti entro la fine del 2020. La campagna di sensibilizzazione avviata dal Ministero
dell’Ambiente italiano era certamente utile, ma nel concreto, una volta gettati
negli appositi contenitori, che fine avrebbero fatto questi rifiuti? Di fronte
a tutte queste notizie sull’ambiente, l’unica cosa certa era l’impegno umano a
recuperare il tempo perso con la devastazione del pianeta.
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