La Gipsoteca di Possagno secondo Carlo Scarpa
Antonio Canova (e allievi), Modello in gesso per le tre Grazie (particolare) |
Il complesso del Museo Canova, con sede
a Possagno (TV), è costituito dalla Casa di Antonio Canova (1757-1822), dal
Tempio di sua costruzione e dalla Gipsoteca. Quest’ultima – come suggerisce il
nome greco – raccoglie i modelli in gesso, ma anche i bozzetti in terracotta e alcuni
marmi “minori”.
Il modus
operandi dello scultore è ormai noto: da un primo rapido disegno, egli
passava al modello in argilla e, da questo, al gesso e infine al marmo. Nella
concezione dell’artista veneto, impregnata di una forte religiosità, l’argilla
era la vita, il gesso la morte, il marmo la resurrezione dell’opera d’arte. E
se da un lato i bozzetti in argilla sono stati rivalutati dalla critica nel corso
della seconda metà del Novecento, il giudizio metaforico di Canova sul gesso
non deve trarre in inganno: esso riveste certamente la parte negativa di questo
particolare rapporto dialettico, ma ne è una parte fondamentale e necessaria,
dunque non meno importante nemmeno da un punto di vista estetico.
La prima struttura della gipsoteca fu
voluta dal fratellastro di Canova, Giovanni Battista Sartori (1775-1858), per
raccogliere alcune opere che si trovavano nello studio romano di Campo Marzio,
chiuso a quattro anni dalla morte dello scultore. Il nuovo edificio doveva
disporsi sul lato nord, prevedendo un doppio accesso dal porticato e dal museo
preesistente, collegato alla casa.
Il progetto fu affidato negli anni
Trenta all’architetto veneziano Francesco Lazzari (1791-1871), benché sia
durata a lungo la convinzione che fosse opera di Giuseppe Segusini. Nel 1853,
infine, il complesso edilizio e le collezioni furono donate da Sartori al
Comune di Possagno.
La gipsoteca aveva una classica pianta
basilicale e rappresentò uno dei primi edifici progettato appositamente per
ospitare un museo. Ed è curioso che questo sia avvenuto proprio nel piccolo
borgo di Possagno, seguendo quella valorizzazione del territorio cominciata con
Canova stesso e che ne richiama lo spirito d’avanguardia su temi come appunto
la promozione, la conservazione e la musealizzazione.
La gipsoteca preesistente all’intervento
di Carlo Scarpa prevedeva tre sale quadrate, che raccoglievano i grandi gruppi
scultorei lungo le pareti perimetrali, sopra le quali erano alloggiate alcune
mensole lignee con busti e teste, sormontate a loro volta da erme e
bassorilievi funebri. L’immagine che se ne deduce è certamente quella di un
ambiente sovraffollato, tipico di questa fase ancora proto-museografica, in cui
una certa ansia espositiva tradiva invece un gusto estetico che oggi appare
quantomeno dubbio.
Vi era tuttavia una logica
nell’allestimento ideato dallo stesso Sartori, il quale mise al centro i gessi con soggetti cristiani,
contrapponendo all’eroismo classico un eroismo di matrice religiosa e
controriformista. La disposizione non seguiva dunque un ordine cronologico, ma
apertamente ideologico, tanto che la Religione
dimorava al posto d’onore, al centro dell’abside, in un percorso in linea retta
che non prevedeva particolari sentimentalismi.
Dopo i bombardamenti della Prima guerra
mondiale, la situazione cominciò a mutare. Stefano e Siro Serafin cominciarono
a riordinare le opere danneggiate e a restaurarle, in una stanza del complesso
poi definita non senza retorica “ospedale di capolavori”. Un ulteriore
ampliamento unì appunto il cosiddetto ospedale alla Stanza dei modelletti in
terracotta, a quel tempo ancora esclusi dall’esposizione. Proprio questa nuova
area fu ripresa da Scarpa, che la ingrandì ulteriormente, e segnò l’ingresso
della nuova ala museale.
Prima di ciò, nel primo dopoguerra,
giunsero dall’Accademia di Venezia i gruppi colossali dell’Ercole e Lica e di Teseo
vincitore sul Centauro. L’allestimento fu affidato a Luigi Coletti: fu
proprio l’Ercole e Lica a sostituire
la Religione al “posto d’onore”,
rispecchiando una maggiore sensibilità per l’aspetto critico piuttosto che
ideologico. Inoltre, il Monumento funebre
di Maria Cristina d’Asburgo fu ricostituito (le singole parti in gesso
erano infatti dislocate all’interno dell’edificio) e fu costruita con cura
filologica la piramide, elemento di unione per le diverse parti.
Infine, dopo gli stravolgimenti della
Seconda guerra mondiale, che portarono a proteggere le opere nel Tempio,
debitamente sigillate, nel 1955, la Soprintendenza alle Belle Arti commissionò
a Carlo Scarpa l’ampliamento della gipsoteca. L’occasione: il bicentenario
della nascita di Antonio Canova.
Scarpa aveva studiato i gessi
all’Accademia di Venezia e, nei suoi sopralluoghi a Possagno, aveva compreso
subito la centralità del paesaggio, che per entrambi gli artisti veneti
assumeva i contorni di un luogo ameno e incontaminato, in una parola:
mitologico.
Scarpa definì lo spazio ritagliando
scorci di paesaggio, tanto terrestre quanto celeste, e piegò l’ambiente
naturale nella cornice del proprio edificio.
Non è chiaro il momento esatto in cui
gli fu affidato l’incarico, ma sembra che una prima idea risalga già ai primi
anni Cinquanta, quando Scarpa collaborava con Vittorio Moschini, Soprintendente
alle Gallerie di Venezia, all’allestimento delle Gallerie stesse. Tuttavia, a
causa della lentezza dei finanziamenti pubblici, l’ampliamento dovette
attendere fino all’ultimo per essere realizzato.
Nella fase iniziale della progettazione,
ovvero nella primavera del 1956, Scarpa fece dei semplici schizzi a matita, in
cui già emergeva una prima pianta del nuovo volume a punta tronca (sala a
siringa), a fianco della gipsoteca neoclassica. Intorno alla sala si trovava il
giardino, che riprendeva vigore nella sua interazione con la cultura
neoclassica, in un rapporto reciproco tra interno ed esterno. Esso inoltre si
ricollegava idealmente al giardino davanti alla casa, coltivato secondo le
modalità e le piante del tardo Settecento, tra cui un pino italico piantato da
Canova stesso nel 1799: nell’insieme, dunque, l’alternanza tra natura e
architettura risulta del tutto armonica, oltre che esteticamente funzionale.
Sul lato opposto alla sala a siringa,
invece, sorgeva un gruppo di edifici in luogo delle ex scuderie, che si riuniva
“a cerniera” nella sala alta.
In una pianta successiva, Scarpa
posizionò i principali gruppi scultorei. In particolare, al principio vi era
un’iniziale volontà di posizionare Ercole
e Lica nella nuova ala, che in tal caso avrebbe concentrato su di sé
l’attenzione del visitatore, oltre ad occupare un notevole spazio espositivo.
Tuttavia questa idea – ispirata forse dalla soprintendenza – venne meno e
Scarpa poté concentrarsi nella disposizione di diverse opere, giocando su una
sorta di sospensione.
L’ingresso fu infine mantenuto dal lato
del porticato, da cui si accede all’atrio attuale, che svolge la funzione di
ingresso e di snodo tra la vecchia e la nuova struttura.
L’impresa edile Protto assunse l’incarico
soltanto nel gennaio del 1957 e, nel frattempo, Scarpa fu accusato dal
presidente dell’Ordine interprovinciale degli architetti di praticare la
professione senza un valido titolo di studio. Fu così che il responsabile
amministrativo del cantiere, Antonio Rusconi, affrontò con astuzia la questione
e affermò che Scarpa fosse stato incaricato come un consulente artistico.
Scarpa fu presente in modo irregolare ai lavori, ma talvolta si fermava a
dormire nel complesso per potersi poi confrontare direttamente con le
maestranze, anche apportando modifiche dell’ultimo minuto.
Ad ogni modo, i lavori proseguirono in
gran fretta e si conclusero il 12 settembre dello stesso anno: l’inaugurazione
avvenne tre giorni dopo, sebbene mancassero ancora alcune finiture e alcuni
serramenti. La struttura scarpiana era in parte nascosta dalla gipsoteca
neoclassica e stretta dai volumi della casa, tuttavia si affermò subito come
modello della nuova museografia italiana.
In effetti, Scarpa aveva a disposizione
un’area di modeste dimensioni, che costeggia una strada affacciata su una
valle. Il dinamismo in verticale è evidente: egli costruì anche un tetto a
cascata, che dall’alta sala correva tra due muri convergenti, per poi
concludersi in una vetrata che dà su una vasca d’acqua. Qui il sole si riflette
in modo del tutto naturale e accentua le forme delle tre Grazie.
I piani digradano a loro volta in questa
direzione, con un lento incedere che moltiplica i punti di vista: si alternano
gessi distesi ed eretti, mentre le aperture nelle pareti creano un effetto a
cornice che rende le sculture parte di una tela immaginaria, in cui l’elemento
architettonico e lo sfondo naturale contribuiscono a rivitalizzare il soggetto.
Tra la nuova e la preesistente
gipsoteca, una piccola calle, dalla quale si possono spiare le statue
attraverso piccoli fori quadrati, quasi che Scarpa giocasse con il visitatore,
facendo recitare le Grazie nel ruolo di ninfe o di Susanna. E la pavimentazione
in ciottoli bianchi e neri a motivo geometrico potrebbe ricordare le opere di
Piet Mondrian ben note all’architetto, se non fosse che essa richiama più
direttamente la pavimentazione del tempio canoviano, creando una connessione
interna al complesso che non esisteva nei progetti originari dello stesso
Sartori.
Ad ogni modo, lo spazio non è soltanto
molto luminoso, ma piuttosto articolato da queste aperture geometriche, come
agli angoli delle stanze, in cui si formano dei triedri trasparenti. Lo stesso
Scarpa affermò di aver voluto ritagliare l’azzurro del cielo.
La sua ala si presenta al visitatore con
la Maddalena a sinistra, Dirce al
centro, il rilievo de L’Apologia di
Socrate a destra e, sullo sfondo, Le
Grazie. Le quali sono visibili anche dal lato sud della nuova ala, con la
parete esterna che disegna il profilo delle sculture. La parete, trasparente, è
formata da un telaio di pilastri e di architravi in acciaio, in parte chiuso
dalla tenera pietra di Vicenza.
La luce può giungere tenue o violenta.
Il pavimento è in pietra Aurisina, che scende verso il fondo della galleria con
sottili ma decise pause: lo zoccolo è di ferro, discosto dalla parete mediante
distanziatori che alloggiano le viti di fissaggio.
Il taglio delle finestrature alte
riprendeva un suo precedente lavoro, per il padiglione del Venezuela (1954-56)
nei giardini della Biennale. Tuttavia le lastre di vetro di tali dimensioni non
si trovavano a quel tempo, così Scarpa le fece tagliare in più punti e le
smerigliò per renderle opache, per evitare che la levigazione le facesse
diventare verdi e riflettenti.
Riguardo al colore delle pareti, l’architetto
aveva pensato inizialmente ad un intonaco scuro, ma egli stesso ritenne la
soluzione troppo banale, così optò per uno sfondo bianco, con un pizzico di
polemica anche sulle stanze preesistenti, che presentavano un intonaco grigio
ritenuto insensato.
Per risolvere invece la questione
dell’armonia tra gli spazi preesistenti e l’ampliamento, Scarpa fece uno
schizzo della Villa Lippomano di Baldassare Longhena, a San Vendemiano. La
villa mette in relazione il corpo centrale con le stanze laterali, in una pianta
a T rovesciata, che prevede una doppia galleria al piano terra che si allunga
collegando la residenza nobiliare alle barchesse, sullo sfondo di un panorama
naturale.
Scarpa cercò di operare in modo analogo,
prima ancora che a livello strutturale, a livello di allestimento, armonizzando
l’intera esposizione. L’atrio odierno presenta infatti una serie di stele e di
mensole in legno con profili in acciaio poste ad altezze diverse, realizzate
con misure specifiche a seconda dell’opera. Così, a destra spiccano le teste
dei napoleonidi in posizioni sfalsate, che consentono all’occhio un più vivace
movimento e l’occasione di cogliere in prospettiva l’intera collezione. Come in
altre occasioni, Scarpa è interessato a suggerire al visitatore un’idea di
insieme, incuriosendo e invogliando ad andare oltre.
L’Adone
inghirlandato da Venere nell’aula viene privato del basamento ottocentesco:
Scarpa valorizza il gruppo scultoreo con un nuovo supporto in cemento liscio,
che riprende la forma arrotondata della base del gesso: viene così meno la
frontalità e si presenta la possibilità di distendersi nello spazio.
Adone
e Venere
è invece posto in solitudine, occupando uno spazio chiave, dove cade l’intersezione
visiva fra ingresso, aula ottocentesca e ampliamento. Il visitatore è portato a
rallentare, a girare intorno all’opera, per poi guadagnare lo spazio
successivo. Scarpa avrebbe voluto spostare verso il centro tutti i gessi, ma
questo tuttavia non fu possibile. Ercole mantenne la posizione preminente nell’abside,
mentre Teseo raggiunse il centro dello spazio del terzo scomparto dell’aula e
fu girato di spalle, in un silenzioso e brutale distacco del personaggio.
Il passaggio dall’atrio all’ampliamento
fu ammorbidito, demolendo un’ampia parte della muratura e dilatando la
percezione visiva. Guardando verso l’ampliamento, a sinistra si mostra un elaborato
sfaldamento dell’angolo, dovuto all’arretramento della parete dell’atrio
rispetto al bugnato neoclassico.
Il percorso stesso studiato da Scarpa
rappresentava una sorta di viaggio a ritroso nel tempo, che portava dall’atrio alle
nuove sale, fino alla struttura neoclassica. In questo senso – come era nella
concezione di Scarpa – il viaggio architettonico era legato alla tradizione.
Il punto di incontro tra le due
strutture è rappresentato dalla lastra in pietra bianca di Vicenza, che si apre
in un’ampia vetrata che permette una vista laterale della gipsoteca.
Nell’accesso alla sala alta, la Danzatrice con i cembali è posta di
profilo e il suo passo di danza è come un invito al visitatore. Un pannello
murario nasconde il gioco di sguardi tra il busto severo di Canova, quello
incupito di Napoleone e una Naiade maliziosa. Le figure sono tutte rialzate e
le figure femminili distese sono poste su un piccolo letto di acciaio, con la Ninfa dormiente che passa da uno scalino
ad un altro.
Le teche presentano una base in legno e
sono composte quasi del tutto di lastre di cristallo, serrate negli spigoli da
un morsetto metallico inserito sull’asta angolare in legno di kussia.
Le vetrine sono sostenute da snelli
profili di acciaio pieno, che si allargano in terra con degli elaborati piedi,
appena staccati dal pavimento da perni in bronzo. In questo modo, è consentita
la visione a trecentosessanta gradi.
Proseguendo lungo la sala, sul ripiano
intermedio Dirce acefala è anch’essa
posta di spalle, mentre Le Grazie
sono collocate al termine del cannocchiale visivo, private del pesante
piedistallo ottocentesco, che – unitamente al nuovo contesto espositivo – fa
acquisire un carattere di intimità domestica al gruppo scultoreo.
In questa ponderata relazione tra
pareti, pavimentazione, piani e aperture all’esterno, fondamentale è la
verticalità e la distanza tra le parti. Se da un lato l’architettura di Scarpa
si adatta in funzione delle opere da mettere in mostra, dall’altro queste
ultime acquistano una vitalità forse mai avuta in precedenza proprio attraverso
un’architettura che è tanto funzionale quanto esteticamente dotata di una
propria autonomia.
Bibliografia
Bassi E., Antonio Canova a Possagno. Catalogo delle opere. Guida alla visita
della Gipsoteca, Casa e Tempio, Edizioni Canova, Treviso, 1972
Cunial G., La Gipsoteca canoviana di Possagno, Fondazione Canova, Asolo, 2003
Dalai Emiliani M., Per una critica della museografia del Novecento in Italia. Il “saper
mostrare” di Carlo Scarpa, Marsilio, Venezia, 2008
Frediani G., Carlo Scarpa. Gipsoteca canoviana Possagno, Mondadori Electa,
Milano, 2016
Los S., Carlo Scarpa, Taschen, Köln, 1993
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