Arnolfo di Cambio e il ritratto di Carlo I d'Angiò


Arnolfo di Cambio (ca 1235-1302) si formò nella bottega di Nicola Pisano, con il quale lavorò all’Arca di San Domenico, nell’omonima chiesa di Bologna, e al pulpito del Duomo di Siena.
In seguito si allontanò dal maestro e negli anni Settanta del Duecento si trasferì a Roma, lavorando per Carlo I d’Angiò e per i pontefici (realizzò p. es. il monumento funebre di Adriano V, a Viterbo).
Verso la fine del 1277, il re gli permise di recarsi a Perugia, dove era stato richiesto dal Consiglio dei Savi, per sovrintendere la costruzione della Fontana maggiore, in realtà compiuta da Nicola e Giovanni Pisano, evidenziando i numerosi impegni di Arnolfo in quel periodo [1].
Gli anni Ottanta non fecero che accrescere il prestigio di Arnolfo, che realizzò importanti opere come i monumenti funebri del cardinale De Braye ad Orvieto (1282) e di Riccardo Annibaldi a Roma (1289), nonché il ciborio della basilica di San Paolo fuori le mura (1285).
Gli anni Novanta ampliarono il suo successo, grazie ad opere come il ciborio di Santa Cecilia in Trastevere (1293), il monumento a papa Bonifacio VIII (1296) e, del 1300, la statua bronzea di San Pietro.
Ritornato a Firenze negli ultimi anni del Duecento, Arnolfo si occupò soprattutto di architettura e di urbanistica. Vasari gli attribuì infatti la realizzazione di Santa Maria Novella (in realtà smentita), Santa Maria del Fiore, Santa Croce e Palazzo della Signoria.

Fu con il passaggio alla corte angioina che Arnolfo prese presto le distanze dalla sintesi tra gotico e classicismo tipica del suo maestro e del figlio Giovanni Pisano. L’influenza francese si fece presto sentire soprattutto in una accentuata linearità, nella tendenza all’astrazione e in una sottile irrequietezza. Tuttavia Arnolfo non abbandonò mai i modelli forniti dall’antichità e riuscì a proporre una mediazione personale tra questi e gli stimoli francesi.
Un esempio è fornito dal ritratto di Carlo I d’Angiò. Chi era questo committente? Figlio del re di Francia Luigi VIII, divenne conte dell’Angiò e del Maine. Nel 1246 sposò la contessa di Provenza e Forcalquier, accrescendo il proprio potere anche grazie al favore di papa Innocenzo IV. Due anni dopo partì per la settima crociata e subì una breve prigionia. Ritornato in Europa, assistette all’evolversi della situazione nel meridione d’Italia, dove Manfredi si era fatto incoronare sovrano del Regno di Sicilia, titolo tuttavia respinto da papa Alessandro IV.
Nel 1261, fu eletto un papa francese, Urbano IV, che scomunicò Manfredi e chiese la protezione del re di Francia, Luigi IX. Fu con questa nuova alleanza con i reali francesi che Carlo fu incoronato re di Sicilia da Clemente IV (1266). Scontratosi con Manfredi, ebbe la meglio nella battaglia di San Vitale. La guerra si concentrò quindi contro l’ultimo discendente degli Hohenstaufen, Corradino di Svevia, che fu fatto prigioniero e decapitato a Napoli (1268). Quest’ultima città divenne la nuova capitale del regno e Carlo si circondò di nobili francesi.
Partì quindi per l’ottava crociata e, negli anni seguenti, acquisì nuovi titoli, come quello di re di Gerusalemme. L’eccessiva imposizione fiscale e il clima di incertezza scaturito da anni di conflitti portò ai cosiddetti “vespri siciliani” (1282): i siciliani trovarono un alleato negli aragonesi, che occuparono l’isola. Carlo tentò invano di riconquistarla e morì nel 1285.


Quando Arnolfo di Cambio realizzò il ritratto del sovrano, intorno al 1277, questi aveva da pochi anni sconfitto Corradino e stava consolidando il proprio potere, prima della rivolta siciliana. Come per ogni nuova dinastia, l’obiettivo di Carlo era di legittimare il suo governo anche attraverso la rappresentazione di sé nelle sedi del potere.
Per la datazione, gli studiosi tendono a focalizzarsi sul 1277, ma ad ogni modo si può collocare l’opera tra il monumento Annibaldi e la tomba di Adriano V (1276-90) [2], o con maggiore precisione nel periodo in cui Carlo divenne senatore per la seconda volta, ovvero tra il 1268 e il 1278 [3].
Il monumento è oggi conservato ai Musei Capitolini di Roma, ma in origine sembra fosse collocato in una delle tre cappelle, chiamate “tribunal”, erette forse proprio da Arnolfo su commissione di Carlo, sul lato nord di Santa Maria Aracoeli, a Roma [4]. La chiesa francescana divenne in quel periodo una sorta di foro romano, dotato appunto di una “scuola di giustizia”, o tribunale, che lo stesso Carlo utilizzava per parlare al popolo romano. Il monumento, destinato ad essere smembrato, fu dunque spostato al Campidoglio, adiacente alla chiesa [5].
Ciò che è certo è che il monumento era collocato in un contesto giuridico: Carlo stesso, in veste di senatore, poteva amministrare la giustizia civile e penale, oppure delegarla a un suo vicario; la scultura aveva così anche una funzione sostitutiva, o meglio evocativa.

Le influenze di Arnolfo furono spesso diverse tra loro. Egli riprese certamente il realismo del maestro Nicola Pisano, che aveva lasciato da pochi anni dopo i lavori a Siena, tanto che l’opera è considerata la prima rappresentazione realistica, dall’età classica, di un personaggio vivente.
Non sono assenti nemmeno i modelli federiciani (e Nicola Pisano proveniva da quell’ambiente di corte), ma quel classicismo mostra, al confronto, «una sacralità e solennità ‘di maniera’» [6]. I precedenti ritratti di Federico II e dei monumenti funebri, p. es. di Clemente IV realizzato da Pietro di Oderisio, nella chiesa di San Francesco a Viterbo, non sono infatti capaci di raggiungere il medesimo equilibrio tra realismo e idealizzazione.
I richiami classici sono evidenti nell’iconografia stessa: Carlo è seduto sullo scranno di un senatore romano ed è rappresentato in parte come un civis togato. Lo scranno è simile a un faldistorio, pieghevole e senza schienale, ma i dettagli rimandano piuttosto alla sella curulis, sedile pieghevole a forma di X, spesso ornato di avorio, da cui il faldistorio deriva. Simbolo del potere giudiziario, era riservata in origine ai re di Roma [7] e in seguito ai magistrati detti appunto “curuli”.
La celebrazione scultorea si lega ad un sobrio realismo, che può essere inteso come un tardo arcaismo scultoreo della penisola, o meglio ancora come un modo per unire la forma classica a superfici levigate secondo l’influenza francese e che si ritrova in modo ancora più esplicito nelle sculture Annibaldi, che era peraltro una figura molto vicina agli Angiò [8].


Individuate le influenze di Arnolfo, è più facile comprendere i dettagli dell’opera. La scultura è ricavata da un frammento di trabeazione antica e questo recupero di materiali non era estraneo ad Arnolfo [9]. L’opera è in marmo; è alta 160 cm e può essere schematicamente suddivisa in tre cubi: testa, busto, gambe con seggio [10]. Carlo è assiso sulla sella curulis in modo solenne; la frontalità non implica la staticità, e il panneggio funge da elemento di collegamento tra le parti del corpo scoperte, muovendosi secondo linee posate, eleganti e mai piatte.
Il volto è squadrato e i dettagli realistici sono numerosi: le rughe ai bordi delle labbra e sulle guance, i segni delle occhiaie, il naso pronunciato, il mento separato da una linea centrale, il pomo d’Adamo e la pelle leggermente appesantita del collo. I capelli, coperti sul capo dalla corona, cadono ai lati con naturalezza, nonostante la pettinatura curata tenda a contenerne la forma.
La posa è salda, autoritaria, ma non ieraticamente distaccata. Bene si adattano a quest’opera gli attributi che Sallustio dedicò a personaggi come Cesare e Catone, ovvero integritas, severitas, innocentia e magnitudo animi.
Carlo indossa una lunga veste e un ampio mantello, che un tempo era dipinto di azzurro e decorato con gigli dorati, elementi che rimandano ai reali di Francia e ai d’Angiò. La corona non è del tutto conservata e forse era decorata con pietre preziose.
Le mani furono modificate in un restauro del tardo Quattrocento e in origine dovevano probabilmente reggere uno scettro e un globo, o una spada corta. Altri particolari evocano i simboli del potere: lo scranno presenta due protomi leonine, che ricordano prima di tutto il padre di Carlo, re Luigi VIII, chiamato appunto “il Leone”. Il retro della scultura è finito, ma solo in modo approssimativo, concentrandosi dunque sulla visuale frontale. Nel complesso, in questa maniera «di impiantare l’immagine, scheggiandola tuttavia in una possente tridimensionalità» [11], si sintetizza la monumentalità di Arnolfo.


È tuttavia difficile concepire l’impatto che l’opera potesse avere quando fu realizzata, non solo per la mancanza della colorazione e per la differente collocazione, ma anche per l’assenza dell’architettura che contribuiva ad inquadrare nello spazio la scultura di Carlo.
Questo elemento non è secondario, dal momento che la tradizione stessa, a partire da Vasari, consideravano Arnolfo più in veste di architetto che di scultore (ed egli si firmò come architetto nel sepolcro di Bonifacio VIII). L’equilibrio tra la scultura e la struttura architettonica è parte centrale dell’arte di Arnolfo e della sua concezione della spazialità, come evidenzia Romanini:

La struttura architravata e centrica della fronte del cosiddetto “tribunal” sottolineata dall’aprirsi a ventaglio del fregio nel cornicione, torna nel Carlo d’Angiò in trono, ove la rigida massa del corpo del re, duramente frontale e rettilinea, è centrata dai due leoni che stanno ai suoi lati, impostati in assi diagonali. [12]

L’architettura che inquadrava la scultura di Carlo era forse un arco a tre passaggi, di cui rimane soltanto un frammento di tibicine, ritenuto da Romanini «l’esempio più significativo delle radici prime da cui nacque il valore di protagonista assoluto, ritmico costruttivo ed emotivo, della linea arnolfiana […], un esempio della volontà di sintesi […] verso cui Arnolfo porta le sue ricerche linearistiche, sin da questi primi anni» [13].
In questo senso, il legame con i modelli francesi è stretto, e la posa stessa di Carlo, unita al contesto architettonico, richiama p. es. l’iconografia delle monete rappresentanti Luigi VIII. Il pregio di Arnolfo è stato però di aver saputo cogliere questi stimoli, senza tuttavia rinunciare ad una rappresentazione più personale del soggetto, in cui la linea misurata si sviluppa in funzione del messaggio e dell’espressività.


Bibliografia


Abbate F., Arnolfo di Cambio, Fratelli Fabbri, Milano, 1966

Carli E., Arnolfo, Edam, Firenze, 1993

Previtali G., Studi sulla scultura gotica in Italia, Einaudi, Torino, 1991

Romanini A. M., Arnolfo di Cambio, Sansoni, Firenze, 1980

Scalini M. (a cura di), Augusta fragmenta. Vitalità dei materiali dell’antico da Arnolfo di Cambio a Botticelli a Giambologna, Silvana Editoriale, Milano, 2008

Tomei A., Arnolfo di Cambio, Giunti, Firenze, 2006


Sitografia


Capuozzo M., La ritrattistica gotica di Arnolfo di Cambio
link: qui




[1] Cfr. F. Abbate, Arnolfo di Cambio, Fratelli Fabbri, Milano, 1966, p. 2.
[2] Romanini la colloca in un’epoca «anteriore al monumento De Braye e vicina al monumento Annibaldi», per «l’asprezza fisionomica e la rigidità frontale». Cit. Romanini A. M., Arnolfo di Cambio, Sansoni, Firenze, 1980, p. 159.
[3] Altri, come Pace 2005, ritengono più plausibile la realizzazione nel corso dell’ottavo decennio del Duecento. Cfr. E. Carli, Arnolfo, Edam, Firenze, 1993, p. 59.
[4] Cfr. A. M. Romanini, Arnolfo…, op. cit., p. 156 e F. Abbate, Arnolfo, op. cit., p. 7, che riporta la medesima supposizione da parte di Pico Cellini.
[5] Cfr. A. Tomei, Arnolfo di Cambio, Giunti, Firenze, 2006, dove si sostiene che sia da ridiscutere anche la collocazione originaria nella chiesa.
[6] F. Abbate, Arnolfo…, op. cit., p. 5.
[7] Secondo la tradizione, fu portata Roma dal quinto re, Tarquinio Prisco, poiché era già in uso presso gli Etruschi quale simbolo del potere giudiziario ed esecutivo.
[8] Cfr. F. Abbate, Arnolfo…, op. cit., p. 4.
[9] Cfr. M. Scalini (a cura di), Augusta fragmenta. Vitalità dei materiali dell’antico da Arnolfo di Cambio a Botticelli a Giambologna, Silvana Editoriale, Milano, 2008, p. 20. Si ricorda, p. es., la Vergine ricavata da una figura femminile romana, che faceva parte del monumento orvietano al cardinale de Braye.
[10] Cfr. E. Carli, Arnolfo, op. cit., pp. 60-61.
[11] G. Previtali, Studi sulla scultura gotica in Italia, Einaudi, Torino, 1991, p. 50.
[12] A. M. Romanini, Arnolfo di Cambio, Sansoni, Firenze, 1980, p. 158.
[13] Ivi, p. 160.

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