Considerazioni sul razzismo e sulla prospettiva storica
Domingo Ulloa, Racism / Incident at Little Rock (1957) |
Esiste un solo razzismo o esso è un panorama sterminato? In
qualche modo entrambe le risposte, come ebbi a scrivere in un altro post di
questo blog (qui). Possiamo così individuare
caratteristiche specifiche nella storia del razzismo di certi Paesi, che da un
lato distinguono Stati come USA e Regno Unito, ma che – volendo ridurre ai
minimi termini – li accomunano. Semmai, la storia dei due Stati, su questo tema
particolare, ha preso strade diverse nel corso del Novecento, con il Regno
Unito che ha fatto indubbiamente maggiori passi in avanti rispetto agli Stati
Uniti.
Non che il problema sia stato risolto una volta per tutte, anzi.
Ciò che preme sottolineare ora è che le coordinate teoriche del razzismo siano
fondamentalmente le stesse al di là delle manifestazioni locali. La differenza
tra teoria e storia è che la prima esprime le linee generali, la seconda le
applicazioni particolari. E non bisogna confondere i due piani, per non fare un
danno ai processi storici, che sono sempre anche processi di coscienze, singole
e collettive.
Il processo storico avviato nel 2020 dalla morte di George
Floyd è molto più articolato di quanto ogni lettura semplicistica di parte (qualunque
parte) vorrebbe far credere. Semplice è solamente la soluzione: la totale ed
effettiva parità di diritti per tutti i neri d’America e non solo. La
difficoltà sta come sempre nei dettagli, laddove i più intimoriti da un
cambiamento dello status quo tentano di rallentare, boicottare, porre sotto una
cattiva luce.
Così dalla discussione incentrata sul tema dell’abuso di
potere da parte della polizia statunitense, spesso proprio per ragioni di
razzismo, l’attenzione si è allargata, forse troppo, su altri temi, come l’abbattimento dei monumenti collegati
con il razzismo e il colonialismo. In dettagli del genere si mostra la
complessità.
Ha senso etichettare classici del cinema e della letteratura
come razzisti o sessisti, quando non fanno altro che riflettere un clima
diffuso dell’epoca, solo in seguito superato? Sarebbe come dire che certi
scrittori medievali fossero troppo cristiani ai nostri occhi, oppure che gli
antichi greci fossero nient’altro che schiavisti. Ora, in queste affermazioni
si può dire che non vi sia un fondo di verità? Certamente c’è, ma una riduzione
a questi termini svilirebbe la realtà delle cose. Nei due casi citati, il ruolo
della democrazia ateniese, della filosofia antica, l’importanza del monachesimo
nel conservare il pensiero non cristiano, la mistica, il diritto e molto, molto
altro.
Tra i vari testi di J. Locke, J. S. Mill, G. H. Sabine, E.
J. Hobsbawm e altri, nella mia personale biblioteca conservo anche due libri
particolari. Il Manifesto del Partito
Comunista (1848) di Karl Marx e Friedrich Engels e il Mein Kampf (1925) di Adolf Hitler. Essi rappresentano le due
ideologie che hanno ispirato i più grandi genocidi del Novecento e della storia
umana. Sì, in modalità diverse, ma con esiti decisamente simili.
Se li gettassi contribuirei all’ignoranza dell’umanità, al
suo oblio. E un giorno un essere umano, inconsapevole, avrebbe la scusa per
riproporre queste teorie pensando che siano una possibilità di progresso per l’umanità.
Dunque, non è soltanto ridicolo valutare il passato con la sola coscienza del
presente, ma è anche criminale pensare di relegare prodotti realmente razzisti
(o comunque fonte di derive storiche orribili) a roghi fisici o metaforici.
Che cosa significa tutto questo? Qualcuno potrebbe obiettare
che dunque il nazismo, al suo tempo, fosse lecito, in quanto conforme al
pensiero di allora. Da un punto di vista storico, tuttavia, non si tratta di
determinare alcun “se”, poiché il nazismo fu di fatto lecito e attivo. Se
invece ipotizzassimo il nazismo nel mondo contemporaneo, non potremmo fare
altro che considerarlo per quello che è, un’ideologia criminale sotto ogni
punto di vista.
La questione non è nemmeno se storicamente il nazismo fosse
evitabile o meno; l’analisi potrebbe invece concentrarsi sul fatto che esso non
fosse l’unica risposta che l’umanità di allora scelse di seguire e che in
quanto sconfitto, ideologicamente e materialmente, il nazismo fosse inadatto a
sopravvivere a causa delle sue disumanità e contraddizioni interne.
Trovo che il discorso sul nazi-fascismo sia particolarmente
facile; più ostico il dibattito parallelo, benché non sovrapponibile, con il
comunismo, nella sua manifestazione storica più che ideologica.
Quella espressa in precedenza era evidentemente una
generalizzazione, che come ogni altra generalizzazione dice solo mezze verità e
in modo troppo sintetico. Ma una provocazione serve ogni tanto ad animare un
poco il dibattito e magari a smuovere dalle proprie granitiche convinzioni.
Perché non mi risulta che vi siano casi eclatanti in cui il
marxismo storicamente tradotto non abbia previsto una interpretazione
totalitaria, o elitaria, burocraticista e spesso genocida. E anche parlando di
socialdemocrazia, potremmo trovare ispirazioni più realistiche in teorie
politiche precedenti o contemporanee a quella di Marx.
Ognuno ha i propri criteri di giudizio. Il mio è che quando
una teoria non riesca a tradursi storicamente, se non modificandosi alla
radice, allora si tratti di un’utopia. E le utopie sono belle per fare sogni ad
occhi aperti o per scriverci opere di fantasia.
Piuttosto mi chiedo: perché rimanere ancorati a ideologie
fallite e non provare invece la via più difficile, ovvero la costruzione di
nuove teorie più adatte al presente? Che colgano i punti di forza e le debolezze
delle ideologie passate per dedurne altre più efficaci per il nostro tempo.
Come trattare invece i monumenti? Le statue sono sempre
state create, rimosse o distrutte dall’umanità; esse svolgono una funzione
pubblica e a distruggerle sono le nuove consapevolezze. Talvolta, persino la
vergogna, quando quei monumenti mostrano un lato di noi stessi che avvertiamo
come sbagliato e fuori tempo. Tutto ciò porta ovviamente con sé il pericolo
della dimenticanza. Interviene così il concetto di relazione e la possibilità
di integrare quei monumenti o di crearne altri riparativi. Un articolo della
scrittrice Igiaba Scego, a questo link, spiega perfettamente tale argomento.
Forse è bene anche sgombrare il campo da possibili
incomprensioni. La prospettiva storica non può mai essere un modo per
giustificare i soprusi nel presente: essa è un metodo per analizzare con
sguardo critico il passato, comprenderlo nella sua manifestazione, e da ciò che
ne risulta tracciare le linee per un mondo futuro più maturo.
Come detto, monumenti e personaggi
storici concludono una loro funzione quando il loro messaggio alla storia perde
valenza, o ne assume una contraria, nel presente. L’importante è però storicizzare
il personaggio senza cadere nella tentazione opposta, stigmatizzandolo in
maniera acritica e considerandone un solo aspetto come se valesse per forza
quale espressione dell’indole di quel personaggio.
Certo, porre in una prospettiva
storica e tematica (o contestuale) significa anche riconsiderare in negativo
alcuni personaggi storici, non soltanto assolverli con la formula magica “erano
tempi diversi”. Revisione e revisionismo sono due termini differenti e lo
storico Franco Cardini ne ha dato una utile spiegazione, nell’articolo a questo
link.
È necessario soppesare il bene e il male di un
personaggio storico e vedere se dal confronto ne emerge comunque qualcosa di
valido in positivo. Se dunque quest’ultimo è il caso p. es. di Churchill, non
si può dire che valga per persone come Montanelli.
La statua di Indro Montanelli ai giardini
pubblici di Milano, a lui dedicati, fu imbrattata a giugno 2020 con vernice
rossa e non era la prima volta che subiva un atto di vandalismo. Penso che in
tutta questa faccenda fosse necessario porsi in una prospettiva di buonsenso
critico, promuovendo una contestualizzazione storica e tematica. Ma proprio in
nome di essa, Montanelli ne usciva sfavorito: in una prospettiva storica, il
giornalista appariva un individuo piccolo, impregnato di supponenza
intellettuale. Non era possibile parlare del suo lavoro come scrittore e
giornalista non considerando questa figura in tutte le sue caratteristiche,
compreso quel matrimonio con una bambina africana che Montanelli continuò a
raccontare fino a tarda età e i cui contorni storici rimanevano incerti, ma non
la mentalità di colui che questa storia la raccontava (qui un bell’articolo di
Davide Fiammenghi sulla capacità di mentire di Montanelli). E se era vero che ognuno di noi vive di luci
e di ombre, qui le ombre divenivano tenebre e non era possibile fare finta di
nulla.
Il giudizio storico è costituito anche dalla
doverosa revisione di quei panegirici alla memoria che nascondono senza pudore
ciò che è sotto la luce del sole. Montanelli non riconsiderò molti pensieri
come quelli diffusi sui social in quei giorni. E visse ben oltre gli anni
Trenta del Novecento: ebbe tutto il tempo – il tempo di una vita – per
conoscere gli sviluppi storici e antropologici di taglio anticolonialista e
antirazzista. Il non aver fatto un passo indietro nemmeno in quel clima di
attenzione per i diritti umani (di tutti) è una condanna che Montanelli si
auto-inflisse. Ed era giusto che i contemporanei lo sottolineassero.
Vorrei concludere queste considerazioni con
altri due pensieri. Nell’analisi
di fenomeni a noi estranei, come può esserlo un fenomeno storico del tutto
contrario ai nostri princìpi, dovremmo simulare, fingere una osservazione
partecipante. Osservare una tigre in gabbia, o nel recinto dello zoo, ci
restituisce molte informazioni utili su quell’animale, ma ci priva della
conoscenza diretta di alcune sue caratteristiche peculiari. Poterla osservare
nel suo habitat naturale, p. es. in un parco nazionale, è invece molto più
utile per capire a fondo le sue caratteristiche.
Ecco dunque che
per analogia è un limite per noi analizzare fenomeni storici come il nazismo
trattandolo come un animale pericoloso da osservare in una gabbia; dovremmo
simulare quella osservazione costituendo un habitat naturale nella nostra
mente, un luogo di sperimentazione controllato ma con tutte le peculiarità che
consentano di vedere un fenomeno in ogni suo aspetto. Solo allora potremmo
provare orrore puro per le distorsioni della mente umana, avendole sperimentate
in noi stessi, avendo riconosciuto la nostra potenzialità di pensarle. E da
quell’orrore rafforzare i nostri più sani princìpi; rafforzare inoltre la
nostra capacità di contrastare quei pensieri deviati.
L’antropologa
Nancy Scheper-Hughes sostenne che i sentimenti sociali che preparano gli
stermini si trasmettono anche a scuola, in famiglia, nelle chiese, etc.: la
responsabilità riguardo ad essi è di ognuno di noi, ed è fondamentale
riconoscere una potenzialità genocida in noi stessi per poter così esercitare
una costante ipervigilanza difensiva.
Questo
ovviamente vale soprattutto per chi il razzismo non lo subisce, perché è
evidente che per chi ne fa esperienza l’orrore emerga in modo piuttosto traumatico
e diretto.
Queste
considerazioni prevedono certamente una concentrazione e un impegno critico che
non è facile da sostenere nel nostro tempo, dove il relativismo di pensiero
rende difficile distinguere i fatti concreti dalle interpretazioni, per non
parlare della difficoltà di trattare in maniera olistica il sapere a
disposizione, evitando di rinchiudersi nella propria settorialità.
La prospettiva
storica – così come ho cercato di delinearla in queste riflessioni – dovrebbe
forse suggerirci che anche noi contemporanei saremo derisi, a ragione, dalle
future generazioni. Abbiamo infatti limiti di cui non possiamo renderci conto
pienamente e per i quali un giorno le future generazioni ci sminuiranno. I
contemporanei hanno da sempre avuto questa tendenza a vedere i conflitti
interiori più nelle persone del passato che in loro stessi. E questa è pura
cecità, alla quale tuttavia non ci si deve rassegnare.
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