Non esiste il bianco e il nero
La studentessa Vivian Malone entra all'Università dell'Alabama, per iscriversi alle lezioni come uno dei primi studenti non bianchi dell'istituzione. |
Razza, etnia e persecuzioni
Il quinto e
ultimo capitolo della saga di John Rambo, Rambo:
Last Blood (2019, diretto da Adrian Grunberg), fu criticato per aver
portato sullo schermo il razzismo verso i messicani. Poche settimane dopo l’uscita
del film, a novembre, fece molto parlare la notizia dell’attacco di un gruppo
di uomini a Bavispe, nello stato di Sonora, contro tre madri e i loro quattordici
figli. Le vetture erano andate in fiamme; i corpi carbonizzati e alcuni fuggitivi
uccisi. Nove i morti, tra cui sei bambini.
La famiglia
coinvolta, LeBaron, discendeva da un gruppo mormone che, nella prima metà del
Novecento, era fuggita dagli Stati Uniti per le pressioni della Chiesa di Gesù
Cristo dei santi dell’ultimo giorno, che intendeva reprimere la poligamia.
Aveva così fondato una comunità in Messico, che accoglie tutt’oggi mormoni e
cattolici, lottando al contempo contro i cartelli della droga, il narcotraffico
e battendosi per la questione dei diritti dell’acqua (per maggiori dettagli, qui).
Un razzista e
xenofobo, unendo film e cronaca, avrebbe potuto dire che quanto mostrato al
cinema fosse la realtà. Una persona politicamente corretta avrebbe forse detto
che fare un collegamento significava generalizzare, semplificando la realtà.
Infine, una
persona dotata di senso critico avrebbe detto che non tutti i messicani sono
criminali, anzi, e la povertà di molti spiega il dilagare della criminalità,
che è un dato di fatto, tale per cui può accadere di vedere rappresentati
messicani criminali, senza per questo voler dire che ogni messicano lo sia.
Questo sarebbe un discorso che accontenterebbe tutti e nessuno, ma che si
potrebbe aprire a mille altri temi: il passato imperialismo occidentale, etc.
Mettiamo però alcuni
paletti e circoscriviamo il tema: parlerò di molte cose in questo post, cercando
di mostrare il rapporto tra criminalità, discriminazione e razzismo, lasciando
tuttavia a chi legge il compito di trarre le proprie conclusioni.
Le definizioni
che seguono ora sono tratte dal testo di Fabio Dei, Antropologia culturale, e ci servono a costituire una base di
ragionamento.
Il termine razza
indica un gruppo umano con specificità somatiche, intellettuali e
comportamentali, che si suppongono fondate biologicamente e che sarebbero
trasmesse per via ereditaria. Ormai è assodato che si tratti di una
pseudoscienza. L’etnia indica invece un insieme di differenze tra gruppi umani,
intese come differenze pre-politiche, ovvero precedenti alle suddivisioni
politiche in Stati. Secondo l’antropologo Ugo Fabietti, l’identità etnica corrisponde al sentimento che determinati individui hanno
di una comune appartenenza ad una tradizione. Che è quasi sempre immaginata:
alla base del sentimento di appartenenza vi è dunque un dogma.
Di fatto, si
dovrebbe smontare il mito del conflitto etnico globale (Bowen), poiché l’odio
etnico viene alimentato da determinate forze, solitamente al potere, che
fomentano questo odio per opportunismo politico. Secondo Fabietti, il conflitto
etnico non è dunque nient’altro che un conflitto per il potere, mentre per
Arjun Appadurai la violenza etnica è considerata come un modo per riportare
ordine in un mondo globalizzato, in cui le identità vengono costantemente
ridiscusse.
Aggiungiamo
infine un’ultima analisi sul razzismo, sempre tratta dal volume di Dei, secondo
il filosofo Pierre-André Taguieff: egli individuò tre atteggiamenti
intellettuali e tre tipologie di pratica come denominatori comuni dell’ideologia
e del comportamento razzista.
La prima base
ideologica è la categorizzazione essenzialista di gruppi e di individui, ovvero
la generalizzazione per cui un individuo diviene esponente di tutti coloro che
compongono il suo gruppo di appartenenza. La seconda base ideologica è la
stigmatizzazione, con l’attribuzione di stereotipi negativi, che possono
spingersi fino alla disumanizzazione dell’altro. La terza base ideologica è la
barbarizzazione, per cui il diverso è l’antitesi della civiltà e va quindi
eliminato.
A livello pratico,
il comportamento razzista si manifesta in tre gruppi di azioni:
discriminazione, segregazione, espulsione (primo gruppo); persecuzione e
violenza (secondo gruppo); genocidio (terzo gruppo).
Inoltre, il
fatto che la divisione in razze umane si sia dimostrata una pseudoscienza non cancella
affatto il razzismo. Da un lato, c’è chi è ancora convinto di una validità
genetica della distinzione razziale, dall’altro si è sviluppato il concetto di
razzismo differenzialista, o fondamentalismo culturale: non si parla di
differenze biologiche, ma di culture o etnie, per indicare generalmente la
propria come superiore alle altre (etnocentrismo).
George Floyd. Breve storia del razzismo negli Stati Uniti
Il 25 maggio
2020, a Minneapolis, in Minnesota, fu ucciso George Floyd, un afroamericano che
perse la vita durante l’arresto da parte di quattro agenti di polizia, che come
mostrato dai video diffusi attuarono un evidente abuso di potere. L’agente
Derek Chauvin premette il suo ginocchio sul collo di Floyd per otto minuti e
quarantasei secondi e, nonostante le richieste disperate della vittima, l’agente
non allentò la pressione fino alla morte dell’uomo.
Prenderò
ispirazione da questo grave fatto di cronaca nera e proverò a fare una sintesi
di un libro di Stefano Luconi, intitolato Gli
afro-americani dalla guerra civile alla presidenza di Barack Obama.
La Dichiarazione
di Indipendenza Americana (1776) asserisce che tutti gli uomini siano stati
creati uguali e Thomas Jefferson aveva affermato che la schiavitù fosse una
violenza del diritto alla vita. Ciò nonostante, anche in un’affermazione così
chiara ci può essere un tranello, interpretabile in chiave razziale, poiché chi
sono questi “uomini” creati uguali? Se il razzismo si sostanzia anche nella
disumanizzazione dell’altro, improvvisamente questa facile affermazione diviene
un problema.
Negli Stati
Uniti, l’importazione di schiavi fu vietata nel 1808. La guerra civile si combatté
tra il 1861 e il 1865, ma bisogna rivalutare la mitologia che narra questa
guerra come uno scontro tra schiavisti e abolizionisti. Abraham Lincoln, al
principio, non aveva alcuna intenzione di abolire lo schiavismo, ma di
relegarlo al Sud. E durante la guerra, molti neri che fuggivano al Nord furono
riconsegnati, secondo il Fugitive Slave
Act (emanato già dal 1850).
Inoltre, Lincoln
fu membro dell’American Colonization Society e prese in considerazione l’idea
di mandare a Panama o alle Hawaii gli schiavi affrancati. Fu solo nel corso
della guerra che egli corresse in parte la sua linea, soprattutto per ragioni
di principio: sedare una rivolta di schiavisti comportava l’abolizione della
schiavitù. E così fu aggiunto il XIII emendamento costituzionale (1865). I
fuggiaschi fornivano informazioni e manodopera; si arruolarono in oltre 186mila,
in reparti di soli neri comandati da bianchi, inizialmente con un salario più
basso dei rispettivi soldati bianchi.
A fine
conflitto, nel 1866, il generale Nathan Bedford Forrest fondò il Ku Klux Klan,
che tra il 1880 e il 1930 si rese colpevole di circa 3.200 linciaggi e di altre
terribili azioni razziste.
Il XIV
emendamento, emanato sotto la presidenza di Andrew Johnson (un ex schiavista
del Sud), stabilì che fossero cittadini tutti coloro che nascevano sul territorio
nazionale. Il presidente Ulysses Simpson Grant promulgò il Ku Klux Klan Act (1871), con il quale mise fuori legge l’organizzazione;
nel 1875 fu emanato il Civil Rights Act,
che vietava la segregazione nei luoghi pubblici. Tutto risolto allora? Nemmeno
lontanamente, come ben sappiamo.
Negli anni
seguenti l’attenzione si spostò anche su altre questioni. Lo scenario di
discriminazioni si allargò: p. es. a New York c’erano conflitti tra neri e
irlandesi, tra i nuovi migranti europei (italiani, russi, etc.) e i vecchi
(anglosassoni, scandinavi, etc.). Gli orientali erano esclusi a priori.
Ma le
discriminazioni più dure colpirono proprio i neri: le cosiddette “leggi Jim
Crow” stabilirono una serie di segregazioni, p. es. nei treni; in Georgia fu
stabilita una tassa di registrazione alle urne; in Louisiana un reddito minimo
per poter votare. Fu poi assunto il sistema dell’Australian ballot, un’unica scheda elettorale che metteva in
difficoltà gli analfabeti. La Grandfather
clause (1898) consentiva il voto solo a chi aveva votato prima del 1867 o
fosse discendente di un elettore, escludendo così tutti i neri. Infine, la
sentenza Plessy vs. Ferguson (1896) sanciva la legittimità della segregazione,
secondo il principio “separati ma uguali”. Di fatto, le disuguaglianze
coinvolgevano l’intera vita dei neri, a partire dai minori finanziamenti alle
scuole pubbliche degli afroamericani.
Pur tra infinite
difficoltà, i neri cercarono una soluzione. L’ex schiavo Booker T. Washington
sostenne che gli afroamericani avrebbero dovuto ottenere la parità economica
prima di poter ottenere la parità civile; promosse una scuola professionale, il
Tuskegee Institute, ottenendo anche gli investimenti dei bianchi (era il cosiddetto
“compromesso di Atlanta”).
L’intellettuale
William DuBois incentivò la formazione di una classe dirigente nera acculturata
e fu cofondatore della National Association for the Advancement of Colored
People (NAACP), che lottò per rendere il linciaggio un reato federale.
Durante la PGM,
Wilson condannò i linciaggi, ma solo a parole; veniva intanto meno la Grandfather clause, ma gli Stati del Sud
introdussero le primarie bianche per il partito democratico, che ormai dominava
quell’area. Alla guerra parteciparono circa 400mila afroamericani, in unità
segregate comandate da bianchi, svolgendo mansioni secondarie (cucinieri,
meccanici, etc.). Altri neri trovarono impiego nell’industria bellica del Nord
e questo portò ad un sovraffollamento nei ghetti: la questione razziale divenne
così un reale problema nazionale.
Durante la
grande depressione, Roosevelt non prese provvedimenti a favore dei neri, per
assicurarsi l’elettorato bianco: egli mise inoltre un ex membro del KKK come
giudice della Corte Suprema, per ragioni di opportunismo politico. Ciò
nonostante, il presidente avvicinò l’elettorato afroamericano al partito
democratico, perché il New Deal li stava aiutando, non in quanto neri, ma
perché erano i più colpiti dalla crisi. Roosevelt costituì anche un informale
gabinetto nero con i candidati democratici neri al Nord.
Quando però il sindacalistica
Philip Randolph organizzò una marcia su Washington (1941), per protestare
contro la sperequazione nell’assunzione di neri e bianchi nel settore degli
armamenti, Roosevelt emanò l’executive
order 8802 e proibì la marcia. Gli Stati Uniti dovevano mostrarsi uniti di
fronte al mondo. Di fatto, ci furono operaie a Detroit che scioperarono per non
essere state separate dalle colleghe nere (1943) e molti altri casi simili.
Inoltre, i giapponesi finirono nei campi di internamento; tedeschi e italiani
finirono nel mirino delle autorità: non fu un buon momento per nessuna
minoranza.
Gli anni
Cinquanta segnarono una prima svolta significativa. Rosa Parks divenne un
modello per l’emancipazione degli afroamericani e la sentenza Sarah Keys vs.
Carolina Coach Company stabilì l’incostituzionalità della segregazione sui
mezzi pubblici urbani.
Si passò inoltre
dal modello della NAACP, che si fondava sui contenziosi giudiziari, alle
iniziative di massa, promosse da gruppi come la Montgomery Improvement
Association, presieduta da Martin Luther King.
Nel 1961, il
CORE (Congress of Racial Equality, fondato nel 1942 e aperto ai bianchi)
organizzò le freedom rides: gruppi
misti di neri e di bianchi viaggiarono negli autobus del Sud e, dopo vari
scontri, ottennero la fine della segregazione nei trasporti interstatali. Si
diffusero sempre di più anche i sit-in di protesta, in luoghi pubblici e
privati, per porre fine alla segregazione. John F. Kennedy fece una proposta di
legge sui diritti civili; il 28 agosto 1963 ci fu la marcia su Washington con
250mila persone. Quello stesso anno, il 22 novembre, fu assassinato il
presidente, ma il successore Lyndon B. Johnson emanò il Civil Rights Bill (1964), per la fine della segregazione razziale e
della discriminazione nelle assunzioni. Il Voting
Rights Act (1965) pose fine ai testi di alfabetismo alle urne; crebbe
inoltre il numero degli elettori neri nel Sud.
Nel 1965,
scoppiarono disordini a Watts (Los Angeles), per il fermo di un automobilista
nero: ci furono scontri e morti in varie città, come Chicago e Detroit. L’8
aprile 1968 fu assassinato King. La protesta afroamericana si radicalizzò di
fronte a questi eventi: dopo il ferimento dello studente James Meredith,
Stokely Carmichael introdusse il termine Black Power, ad indicare un movimento
che doveva distruggere la civiltà occidentale fondata sul razzismo. Dal
movimento nacque il governo ombra del Black Panthers Party (1966, Oakland,
California), di cui Carmichael era il primo ministro. Anche la conversione all’Islām
fu vista da molti afroamericani come una risposta alla lotta contro le
discriminazioni dei bianchi: tra gli esponenti più significativi, i leader
della Nation of Islām, Malcolm X e Elijah Muhammad.
La presidenza
Nixon si inserì nella fase di controffensiva dei bianchi. Con il Counter Intelligence Program, il
presidente fece infiltrare agenti federali nel Black Panthers Party e, nel
1969, il leader Fred Hampton fu ucciso dalla polizia in una reazione di forza
sproporzionata. Le attività del gruppo cessarono nel 1977, poiché l’idea del
potere nero era un obiettivo irrealistico e il sessismo dell’organizzazione non
contribuì al suo successo.
Il gruppo portò
comunque anche a risultati positivi: rafforzò l’orgoglio afroamericano e l’attivismo;
incentivò lo studio della storia e della cultura dei neri nelle scuole; aiutò i
ghetti; mantenne viva l’attenzione sui problemi dei neri dopo l’emancipazione.
Dagli anni
Settanta in poi, la questione razziale perse sempre più interesse tra gli
elettori. Jesse Jackson, già collaboratore nel Chicago Freedom Movement,
assunse il ruolo che era stato di King, ma abbandonò la SCLC (Southern
Christian Leadership Conference) e fondò il PUSH (People United to Save
Humanity), a carattere interrazziale per l’aiuto ai diseredati.
Alla convenzione
repubblicana del 2000, solo il 4% dei delegati era nero: George W. Bush pose
due afroamericani come segretario di Stato (Colin Powell) e consigliere per la
sicurezza nazionale (Condoleeza Rice), ma di fatto a decidere erano i neoconservatori,
ovvero il vicepresidente Cheney e il titolare del Pentagono, Rumsfeld. La
commissione sui diritti civili, inoltre, fece emergere come molti voti dei neri,
alle elezioni nazionali, fossero stati annullati per i più svariati pretesti
(omonimia, esclusione dei pregiudicati in Florida secondo una norma del 1868,
etc.).
Ad ogni modo,
gli afroamericani cominciarono ad avere un peso nella politica dagli anni
Settanta: ci furono sindaci neri a Detroit e Los Angeles (1973), a Filadelfia e
Chicago (1983), a New York (1989). Jesse Jackson si candidò alle elezioni del
1984, ma perse le primarie; Douglas Wilder fu il primo nero ad essere eletto
governatore di uno Stato (la Virginia, 1989), ma si pose come candidato
post-razziale. Il moderato Ronald Brown divenne presidente del comitato
nazionale del partito democratico e segretario del Dipartimento del Commercio
nel governo Clinton.
Nel 1992,
scoppiarono tumulti a Los Angeles, allora governata dal sindaco nero Tom
Bradley, perché quattro agenti avevano picchiato un automobilista afroamericano
in stato di ebbrezza ed erano stati assolti: ci furono morti e feriti e fu
istituito il coprifuoco, gestito con l’aiuto della guardia nazionale. Emerse
tuttavia che alla rivolta avevano partecipato non solo afroamericani, ma
soprattutto ispanici, in conflitto contro i bianchi e i coreani, poiché questi
ultimi stavano acquisendo il ghetto ed escludevano i neri dalle attività commerciali.
Bill Clinton fu
definito “il primo presidente nero”, poiché era nato nella miseria, senza
padre, e suonava il sassofono. Il presidente fu contrario al concetto delle
quote e volle porre fine ai sussidi assistenziali senza limiti di tempo. Con il
Personal Responsability and Work
Opportunity Reconciliation Act (1996) fissò il limite di due anni
consecutivi ai sussidi federali; con il Temporary
Aid to Needy Families (1997) pose dei limiti per l’accesso ai sussidi: ci
doveva essere il riconoscimento del padre rispetto al figlio; la fine del
sussidio qualora fosse nato un altro figlio; l’esclusione delle madri
minorenni; l’obbligo di attività socialmente utili per le disoccupate. L’obiettivo
era di responsabilizzare gli afroamericani e di fare in modo che prendessero in
mano il proprio “destino”, anziché attendere il sussidio.
E, infine, la
presidenza di Barack Obama. Egli non si pose come un attivista o un leader
religioso; attuò anzi una strategia post-razziale, che si concentrasse non
tanto sull’origine etnica dell’individuo, ma sul ceto sociale. La maggior parte
dei voti ottenuti provenne da elettori che davano maggiore importanza ai temi
economici e alla necessità di uscire dagli anni di guerra della presidenza
Bush. La questione razziale fu considerata dal 19% degli elettori: il pregio di
Obama, in questo senso, fu di aver portato al voto l’elettorato nero, che dal
2004 al 2008 crebbe del 20%.
Considerazioni finali
Leggendo questa
estrema sintesi, sembra che l’umanità continui a mordersi la coda all’infinito,
senza mai venirne a capo. Ho citato p. es. l’uccisione di Fred Hampton (1969)
per mano della polizia e i tumulti di Los Angeles del 1992: casi che
scatenarono reazioni molto simili a quelle odierne, in una fase storica in cui
vi era ancora un concreto attivismo per i diritti civili, che andava oltre il
tempo fugace di un trend sui social.
Nella storia
umana, è capitato che singoli individui si distinguessero, magari persone di
cui non abbiamo nemmeno mai sentito parlare, ma che hanno trovato un loro modo
di uscire da questo schema perverso, da questo infinito ritorno, portando l’umanità
ad un livello superiore. Quello che sta succedendo negli Stati Uniti è qualcosa
di grandioso e di doveroso da portare avanti, ma ritengo che non servirà a
cambiare le cose radicalmente (qui per un approfondimento). Temo invece che questa rabbia diverrà sempre più
uno scontro tra opposte fazioni, sempre più feroce. Una lotta senza quartiere
dove ho seri dubbi che, alla fine, sapremo distinguere i cosiddetti “buoni” dai
“cattivi”, senza se e senza ma. E questo è il ciclo di cui parlo.
Violenza chiama
violenza e chi ha il dovere di fermarla? Chi ha il diritto morale di poterla
fermare? È facile condannare il saccheggio quando questo è fatto per puro sfogo
o per violenza gratuita. Ma se ci riferiamo a quelle persone relegate ai
margini della società (inevitabilmente aggiungerei, in un sistema tardo-capitalista
dove per forza c’è chi vince e chi perde), allora mi è molto più difficile
condannare e più semplice comprendere. Non bisogna nascondere che la violenza
possa provenire anche dagli stessi manifestanti afroamericani: proprio perché
sono esseri umani, è legittimo per loro provare anche odio, disperazione,
desiderio di rivalsa troppo a lungo frustrata.
In queste
proteste ci sono certamente i “fenomeni da baraccone”, che non hanno niente a che vedere con le ragioni delle
proteste e approfittano della situazione, ma di fondo c’è un malessere concreto e trasversale. E proprio di
questo parlerei, di proteste al plurale: il caso Floyd ha aperto un vaso di
Pandora, dove non vi è solo la contraddizione mai davvero risolta dei diritti
civili, ma molto altro, che riguarda ogni etnia.
Mi concentrerei
su questo punto. È necessario capire anche come si schiereranno gli ispanici a
livello elettorale – a patto che scelgano di farlo – e come si schiereranno
tutte le minoranze, anche quegli afroamericani che vivono invece in zone urbane
della classe media o medio-alta.
Ormai tanti
orientali, ispanici e afroamericani sono perfettamente nelle istituzioni e nei
CdA delle aziende, si potrebbe dire in maniera proporzionale al loro peso nella
società (14% per gli afroamericani). Eppure non sempre è così e ci sono ancora
molte situazioni critiche di discriminazioni dirette e indirette, in
particolare nelle aree più disagiate degli Stati Uniti. Sembra però chiaro che
le proteste di questi giorni riguardino non solo quegli afroamericani che
vivono tuttora la discriminazione, ma anche coloro che, al di là dell’etnia,
vivono la discriminazione economica e di classe. Quell’elettorato che in gran
parte affidò le proprie speranze di emancipazione all’allora candidato alle
presidenziali Barack Obama e che oggi fa i conti con una realtà che non è poi
cambiata di molto sotto questo punto di vista.
Infine, ritengo che
ogni governo statunitense, repubblicano o democratico, senta di avere un debito
morale nei confronti dei propri veterani di guerra e che quindi non faccia
quegli accertamenti sufficienti di cui ci sarebbe bisogno, soprattutto quando
si tratta di accedere al lavoro nelle forze dell’ordine. E penso anche che vi
sia il timore che questi veterani, non trovando un lavoro “dignitoso”, possano
impiegare le loro conoscenze militari per costituire gruppi e sottogruppi di
azione violenta contro lo Stato.
Ciò che ho
voluto tracciare con queste sintesi e con le mie considerazioni riguarda un
approccio critico rispetto a un tema tanto delicato come quello dei diritti
civili, che potrebbe estendersi alla lotta per molti altri diritti umani. Se è
vero che non possono più esserci dubbi su quale sia la via da seguire per un’umanità
davvero unita senza differenze di razza, dobbiamo anche affrontare questa lotta
senza mitologie, senza generalizzazioni, senza contro-propaganda. Poiché,
letteralmente parlando, non esiste il bianco e il nero, e siamo tutti esseri
umani nella nostra capacità di odiare e di amare.
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