La protesta di piazza Tienanmen. Che cosa può comunicare la storia ai manifestanti di oggi
Le proteste di piazza Tienanmen, a Pechino,
durarono dal 15 aprile al 4 giugno 1989. Poco più di trent’anni fa. A scuola,
in quinta superiore, di solito non si affronta questo argomento e la guerra
fredda stessa viene vista dagli studenti più come un fantasma dai contorni
indefiniti, anziché come una fase storica importantissima per noi
contemporanei.
Per questo è comprensibile che molti non
sappiano che le proteste coinvolsero non solo quella piazza, ma diverse
centinaia di altre città cinesi. Per quale ragione si protestava? Per la
giustizia, ovviamente, e per i diritti. Quali? Inutile dilungarci, ma l’elenco
mostrerebbe ciò per cui si è lottato e si lotta ancora dalla seconda metà del
Novecento ad oggi, in piena fase di tardo capitalismo.
Tutto cominciò con la morte di Hu
Yaobang, il 15 aprile appunto, per un attacco cardiaco. Molti cinesi avevano
interpretato la sua figura come quella di un rivoluzionario proletario, che si
era battuto per la libertà di parola e di stampa. Yaobang, come ogni essere
umano, era una persona con luci e ombre, ma in effetti la sua politica poteva a
buon diritto inserirsi nel solco del riformismo, una strada che la Repubblica
popolare cinese avrebbe dovuto per forza seguire. L’alternativa, dopotutto, era
di finire come l’Unione Sovietica (la caduta del muro di Berlino era alle
porte, il 9 novembre dello stesso anno).
La morte di Yaobang innescò una miccia.
Ma – senza dilungarci – le aspettative degli insorti si risolsero in un bagno
di sangue. L’esercito intervenne: i feriti furono più di trentamila; i morti in
un numero mai davvero accertato, che varia da alcune centinaia a circa
duemilaseicento persone. E il segretario generale Zhao Ziyang, che da
riformista aveva contribuito a introdurre l’economia di mercato in Cina e che
era l’unico alto dirigente ad essersi opposto alla strage, fu costretto agli
arresti domiciliari, fino alla morte nel 2005.
Di fatto, tutte le speranze per l’avvio
di riforme politiche, per il contrasto alla corruzione, per la liberazione dei
prigionieri politici, per la libertà di stampa e molto altro furono messe a
tacere. Ci rimane un’immagine simbolica, nota come il Rivoltoso Sconosciuto, l’uomo
che si pose di fronte ai carri armati e ne fermò la marcia. Ma il regime
cinese, ancora oggi, non permette il ricordo pubblico di quell’evento, benché
la popolazione lo celebri ogni anno. Sui vari siti turistici, collegati in modo
diretto o meno al governo cinese e alle varie ambasciate, si ricorda solamente
la storia antica della piazza, omettendo deliberatamente i fatti del 1989.
Si tende a dire che le fotografie e i
video di quei giorni diedero maggiore forza a coloro che protestavano in Europa
per ottenere la caduta del muro e dell’URSS. Penso però, e purtroppo, che sia
solo una mezza verità. L’Unione Sovietica era destinata comunque a cadere e il
processo di disgregazione era avviato già da diversi anni.
Non credo nemmeno
che le proteste di piazza Tienanmen abbiano davvero mosso le coscienze di
fronte alle repressioni del regime cinese, dal momento che la storia ci ha
mostrato come la Cina sia potuta divenire un colosso mondiale e che oggi sia in
grado di agire in modo (quasi) del tutto incontrollato anche dal punto di vista
della repressione interna. Si pensi soltanto al caso del Tibet e alle proteste
di circa dieci anni fa, di cui forse i giovani d’oggi non hanno nemmeno mai
sentito parlare. Si pensi allora agli Uiguri, l’etnia turcofona di religione
islamica, la cui persecuzione fece grande scalpore nel 2019. E si concluse anch’essa
nel silenzio generale. Nessuna giustizia; nessun diritto acquisito.
Tutto questo per dire che cosa? Che sono
davvero rare le proteste che hanno avuto un esito felice e immediato nella
storia (qui per un approfondimento). E ogni volta che nascono questi grandi fenomeni, siamo tentati di
credere che non sia mai successo nulla del genere, che “il vento stia cambiando”,
che vivremo finalmente in un mondo migliore e via discorrendo. La realtà ci
mostra piuttosto come molte di queste proteste siano importanti, talvolta
fondamentali, ma che richiedano tempo (anni o persino secoli) per mostrare i
propri frutti. Frutti che, come in ogni grande rivoluzione o protesta, si
concludono sempre, anche minimamente, con un qualche genere di compromesso tra
il nuovo sistema e quello che lo ha preceduto.
Eppure... eppure sappiamo, percepiamo nel profondo di noi stessi, che il cambiamento è necessario; che non possiamo ancorarci a nessuna certezza o abbandonarci alla rassegnazione di fronte ad un'umanità che soffre di fronte a noi, o proprio in noi stessi. E tutto questo è il motore della storia; le nostre vite in qualità di esseri umani, al di là delle singole esistenze che brevemente si disperdono.
Commenti
Posta un commento