Disordine mondiale. Memorie del Coronavirus. Parte VI
Johannes Vermeer, Donna che legge una lettera davanti alla finestra (1657-59) |
Il lockdown nel mondo
Aprile fu il mese in cui furono messi alla prova i nervi dei
cittadini. Molti eventi si succedettero a livello nazionale e internazionale:
il Coronavirus si era diffuso praticamente ovunque nel mondo e non ci fu
governo che poté permettersi di non considerare l’emergenza. Stati Uniti
inclusi, nonostante le continue dichiarazioni del presidente Donald Trump.
La sua comunicazione poteva essere riassunta in tre fasi
essenziali: negazione, sminuimento, colpevolizzazione esterna. La prima si
realizzò soprattutto nella prima metà di aprile, con continue recrudescenze
nelle settimane successive, e si incentrò sul negare la gravità del problema.
La seconda si sviluppò dalla metà di aprile e, dopo aver
dato per certa la diffusione del virus, mirò a non drammatizzare la situazione
interna, concentrandosi sulle possibili soluzioni: tra queste anche il
consiglio dello stesso POTUS di bere disinfettanti per rendersi immuni dal
virus, con l’effetto di ottenere che il discorso mediatico si concentrasse per
giorni su quella dichiarazione anziché sulla mancata attività preventiva del
governo.
La terza fase si sviluppò in conseguenza della seconda e fu
inizialmente concomitante, per poi proseguire durante maggio: diversi media
statunitensi cominciarono a farsi un’idea più matura dell’emergenza e le
critiche rivolte al governo ebbero come risposta le accuse reiterate alla Cina.
Secondo Trump e alcuni dirigenti della CIA, gli USA erano infatti in possesso
delle prove che dimostravano come la Cina avesse volontariamente creato il
virus in laboratorio e ne avesse favorito la diffusione globale tenendo
nascosti i dati dei primi contagi. Al momento, tuttavia, queste presunte prove
non erano state ancora mostrate al mondo, ma la questione sulle responsabilità
del presidente non erano più l’unica priorità sui media.
A sostegno di tali accuse, Trump scelse di non versare più
la quota di circa mezzo miliardi di dollari riservata all’OMS, accusando
l’organizzazione di essere stata troppo filo-cinese e di aver contribuito
all’insabbiamento iniziale dell’emergenza.
In merito alla riapertura, gli Stati Uniti agirono in modo
confuso, così come era avvenuto nella fase di chiusura. A fine aprile, diversi
Stati avevano cominciato a riaprire per settori economici; in territori come il
Tennessee riaprirono anche i ristoranti; in altri le chiese (p. es. in Montana,
dai primi di maggio); il Texas annunciò persino la riapertura di musei, teatri
e cinema da maggio. Più cauti nelle riaperture gli Stati più colpiti come la
California e le città come New York.
Questi provvedimenti in ordine sparso riflettevano le
divisioni interne agli USA, con aree rurali a maggioranza repubblicana (e con
pochi casi o nessuno), che spingevano per un allentamento, e diverse aree
metropolitane (più colpite) che tendevano a rimandare la Fase Due almeno a metà
maggio.
Veniamo così all’Europa. Il 5 ci fu uno storico discorso
della regina Elisabetta II, il quarto alla nazione in ben sessantotto anni di
regno, esclusi ovviamente i tradizionali discorsi di Natale. Il discorso fu
significativamente breve e in uno stile asciutto e privo di particolare enfasi
retorica; la regina ricordò gli ostacoli affrontati e vinti dal Regno Unito
dalla seconda guerra mondiale, per poi rivolgere un sentito ringraziamento alla
NHS (National Health System).
Da un lato, il ritorno della regina sullo schermo fece
tirare un sospiro di sollievo a molti britannici e non solo in merito allo
stato di salute della famiglia reale, dopo settimane di voci poco rassicuranti.
Dall’altro, quella sera stessa, fu ricoverato il premier Boris Johnson. Fu un
segnale preoccupante. E mentre il Regno Unito si strinse intorno a Johnson e
alla sua famiglia, molti in Italia colsero l’occasione becera per gioire
dell’ironia della sorte, che aveva portato al contagio proprio del premier che
aveva inizialmente deciso di non chiudere il Paese.
Le voci di questo genere furono però contrastate da più
parti: diversi esponenti dell’opposizione laburista augurarono una pronta
guarigione a Johnson, così come volti noti dello sport e dello spettacolo
britannici. D’altra parte la politica era una cosa e si stava comunque parlando
di un premier eletto con un notevole consenso. La vita delle persone però
andava oltre: si trattava di un padre che aveva oltretutto una moglie incinta.
Qualcuno avrebbe potuto criticarne le scelte politiche, ma non si parlava di un
mostro. Al contrario, chi gioiva per la sua malattia la diceva lunga sulla
pochezza della propria persona.
A proposito di Karma, di coloro che dicevano “se l’è
meritato”, mi si conceda di spiegare meglio un argomento sempre frainteso da
noi occidentali, ovvero il significato del Karma, così come giunge a noi dalla
civiltà indù.
Invocare l’azione del Karma contro chi ci fa un torto
(“Prima o poi ti tornerà tutto!”) o mostrare soddisfazione quando a qualcuno
capita qualcosa (sintetizzato nella famosa espressione “It’s Karma, bitch”) non
ha davvero nulla a che fare con la reale funzione del Karma.
Questo agisce indipendentemente dalla volontà umana e si
potrebbe banalizzare nell’idea di una reazione proporzionata ad una certa
azione compiuta. Non solo, ma invocarne l’azione per ottenere una vendetta o
una rivincita porta proprio quello stesso Karma ad agire per danneggiarvi
ulteriormente, perché vi viene restituita la cattiveria del vostro pensiero. Al
di là del fatto che il vostro pensiero sia giustificato o meno.
Che cosa significa questo? Che l’azione del Karma ci insegna
a non gioire delle disgrazie altrui, mai, e a fare del bene in modo del tutto
disinteressato, senza l’aspettativa che quel bene ci venga restituito.
Perché questa parentesi? Perché chi ricorda quelle settimane
di aprile ricorderà non solo la solidarietà, ma anche la cattiveria che si
mostrò verso il prossimo. Ad ogni modo, ammalatosi il 27 marzo, Boris Johnson
fu ricoverato in terapia intensiva ai primi di aprile; fu infine dichiarato
guarito e dimesso il 12. Il 29 aprile nacque il suo sesto figlio.
Ma torniamo alla sintesi di aprile. Il 4 era scoppiato un
grave incendio in Ucraina, che durò diversi giorni e si estese fino ai confini
della zona di alienazione di Chernobyl, coprendo circa 20mila ettari di
foresta. Le fiamme arrivarono a pochi chilometri dal “sarcofago” di acciaio e
cemento che copre il reattore quattro. Sembrava la beffa di questo 2020, che
fece riecheggiare il disastro del 1986.
Il pericolo maggiore era però che le fiamme potessero raggiungere
il sito di smaltimento delle scorie radioattive di Pidlisny, situato vicino al
reattore e alla città abbandonata di Pripyat. Un’agenzia ucraina addetta alla
zona di alienazione si occupò di scavare fossati per impedire all’incendio di
propagarsi, ma fortunatamente il 14 cominciò a piovere e ogni minaccia fu a
poco a poco estinta. Non si sapeva ancora la causa scatenante dell’incendio, ma
non era difficile pensare che fosse opera tutta umana, considerando la
diffusione degli incendi in quell’area, scatenati dall’attività agricola.
Inoltre, per uno strano caso, il giorno dopo, il 15, si
commemorò il primo anniversario di un altro incendio, quello della cattedrale
di Notre-Dame.
Proprio in Francia, il primo ministro Edouard Philippe
presentò il 28 aprile il piano del governo per la riapertura, che seguiva di
pochi giorni quello italiano. Le scuole, in tempi diversi in base al grado,
avrebbero riaperto a partire dall’11 marzo, con una riserva riguardo alle
scuole superiori. I bambini furono suddivisi in gruppi di dieci, con l’obbligo
delle mascherine per i più grandi.
L’11 fu anche la data indicata per la riapertura degli
esercizi commerciali: rimanevano esclusi bar e ristoranti, almeno fino al 18
maggio, che divenne una nuova data simbolica per molte nazioni. Gli spostamenti
furono concessi entro cento chilometri e solo per comprovate necessità e per
rivedere i familiari.
Fu concessa l’attività fisica senza restrizioni spaziali,
mentre rimasero chiuse le spiagge fino a giugno. Il governo infine concesse gli
incontri pubblici fino a dieci persone. Calcolò infine di poter realizzare
700mila test a settimana.
Anche la Spagna, uno dei più significativi focolai globali,
annunciò un piano il 28, scandito in quattro fasi, che tenevano conto delle
diverse situazioni regionali. Qui si decise di chiudere le scuole fino a
settembre, con eccezioni per i più piccoli, i cui genitori non potevano
lavorare da casa. I viaggi furono consentiti solo nella provincia di residenza.
Ad aprile, comunque, la situazione spagnola cominciò lentamente a migliorare.
Ciò nonostante, tra le migliaia di vittime si contava anche Luis Sepúlveda, uno
dei primi a rimanere contagiato, morto il 16 a Oviedo.
La Germania giocò invece d’anticipo e già il 20 cominciò ad
allentare le misure di contenimento. Poteva contare sul fatto che avesse
organizzato un piano nazionale per realizzare migliaia di test a settimana, con
l’aggiunta del tracciamento attraverso i telefoni.
Dunque il 29 uscirono nuovi provvedimenti che erano una
conseguenza di una riapertura che si stava già compiendo: le regioni tedesche
agirono efficacemente in autonomia, pur seguendo una linea generale dettata da
Berlino (così p. es. l’obbligo delle mascherine fu esteso in molte regioni).
Come in Francia, fu annunciata la riapertura delle scuole,
compresi i licei, addirittura al 4 maggio, ma rimasero chiusi anche qui bar e
ristoranti.
Meno cauta l’Austria, dove molti negozi erano già aperti al
14: si annunciò una generale riapertura da maggio, includendo anche ristoranti
e parrucchieri. La legislazione fu molto dettagliata, dai metri quadri
necessari per poter riaprire alla nuova suddivisione delle classi scolastiche.
Questi furono alcuni dei provvedimenti presi nel continente,
abbastanza omogenei dal Nord al Sud Europa, pur con alcune diverse priorità (p.
es. l’istruzione nel Nord, la riapertura di attività commerciali al Sud, etc.).
Caso a parte la Russia, che a fine aprile aveva superato i
100mila contagi e che fu costretta a rimandare la riapertura forse a metà
maggio.
Nemmeno l’America Latina stava uscendo dalla cosiddetta
“Fase Uno” e il Brasile, in particolare, era in una situazione critica, con
cinquemila morti e oltre 70mila contagiati. Cominciarono a circolare anche qui
(come negli Stati Uniti) i video delle fosse comuni scavate dalle ruspe.
Un’eccezione provenne dall’Argentina, colpita soprattutto nelle aree
metropolitane, per cui fu data maggiore autonomia alle province, con alcune
timide riaperture.
Anche in Africa la diffusione del virus aveva portato ad un
lockdown che tuttavia non poteva più essere mantenuto a lungo per ovvie ragioni
socio-economiche. Le stesse misure di distanziamento sociale furono spesso
violate in zone in cui l’unica fonte di sostentamento erano le distribuzioni di
cibo organizzate dai governi centrali, che portarono centinaia di disperati ad
ammassarsi intorno ai centri di distribuzione. Proprio a causa dell’estrema
povertà, cominciarono le prime caute aperture a cavallo tra aprile e maggio.
In Asia, invece, la situazione era in leggero miglioramento.
In Cina, l’8 si concluse il completo isolamento della città di Wuhan, durato
ben settantasei giorni. Circolarono i video dei treni e delle auto in
movimento, unito alla sensazione surreale vissuta da alcuni abitanti. Nel resto
del Paese continuarono le graduali riaperture, con misure di distanziamento
sociale ben regolamentate: ci fu anche il fenomeno del “contagio di ritorno”,
che coinvolse alcuni cinesi rientrati nel Paese, ma il fenomeno era al momento
sotto controllo.
Anche l’India cominciò a riaprire, dal 25, tra
obblighi e divieti (p. es. l’impossibilità di vendere alcolici e beni non
essenziali). Seguendo queste tempistiche, diversi Stati asiatici e dell’Oceania
stabilirono la fine del lockdown intorno alla prima settimana di maggio, per cominciare
l’ingresso in quello che fu definito il processo “New Normal”, riprendendo
l’espressione dal mondo economico-finanziario. Anche nel Medio Oriente, Stati
come l’Iran si avviarono alla riapertura, sebbene i numeri non si fossero
abbassati ai livelli orientali.
L'Italia nel cuore della Fase Uno
Il mese di aprile, in Italia, fu particolarmente stressante
per la gran parte dei cittadini. L’8 il governo varò il cosiddetto “decreto
imprese” o “decreto liquidità” (Dl n.23/2020): esso prevedeva misure per
l’accesso al credito; poteri speciali nei settori strategici; la proroga dei
termini amministrativi e processuali; infine, interventi in materia di salute e
lavoro. Non entrerò tuttavia nel dettaglio, perché di fatto si trattò di un
“decreto di transizione”, che andò incontro a difficoltà burocratiche per
sbloccare la liquidità prevista e che aprì un confronto con le banche
riguardante le garanzie dei prestiti.
Si cominciò timidamente a parlare di “Fase Due”, benché al
principio non vi fosse che un marasma di ipotesi senza né capo né coda. Ci si
accorse sempre di più della tendenza del governo a far circolare indiscrezioni
sulle diverse ipotesi con l’intento di saggiare l’opinione pubblica.
Curiosamente molte scelte dei successivi provvedimenti inclusero modifiche che
coincidevano con la linea più condivisa nel Paese; un aspetto che fece molto
discutere sui progetti a lungo termine nelle idee del governo.
Settimane prima, il 9 era stato annunciato come il giorno
della riapertura, ma nessuno di noi aveva allora compreso la realtà dei fatti.
Questa si mostrò nella sua evidenza nelle settimane successive, tanto che
quando arrivò il fatidico 9, i discorsi sulla riapertura sembravano un lontano
ricordo. Eravamo ancora in piena Fase Uno e le misure restrittive furono
prorogate al 3 maggio, che divenne la nuova “data magica”.
Nel frattempo, c’erano questioni al centro dell’attenzione
del governo e dell’opinione pubblica e altre che sembravano quasi dimenticate.
Per esempio la situazione delle università. Per quanto a livello di scuole
medie e superiori ci fossero notizie contrastanti, qualcosa filtrava dal
ministero; al contrario, le università furono un settore molto trascurato. Sia
dal punto di vista dei ricercatori che degli studenti. Credo che la difficoltà che
molti universitari trovarono nel preparare gli esami dipendesse dal fatto che
in generale mancarono le minime informazioni sulle modalità di svolgimento
degli appelli. Questo condizionò a livello inconscio gli studenti, già di per
sé sottoposti a situazioni ben note di stress, destinate a crescere con
l’avvicinarsi di giugno.
Il 10 fu varato un nuovo DPCM, annunciato da Giuseppe Conte
nell’ormai abituale conferenza stampa. Fu prorogato ufficialmente il lockdown
fino al 3 maggio e si stabilì un calendario della ripartenza delle attività
commerciali. Venne istituita una task
force per la Fase Due, diretta da Vittorio Colao e destinata a frammentarsi
in una serie numerosissima di nuclei di lavoro, in base al settore della
società coinvolto. Tra le pochissime concessioni, la riapertura delle librerie
la settimana successiva, ma non in tutte le regioni (p. es. nel Lazio si
prorogò la chiusura al 20).
Su quest’ultimo argomento, mi domandai dove fossero stati
tutti quegli assidui frequentatori di librerie prima della quarantena. Inoltre,
io stesso, che leggevo moltissimo, acquistavo quasi sempre in rete; andavo in
libreria solo per acquistare quei libri che rientravano nel catalogo di uno dei
brand dell’editoria al quale ero iscritto. Per il resto, acquisti “fisici” li
facevo solo ai vari mercatini dell’usato e dell’antiquariato.
Non si poteva invece favorire la consegna a domicilio dei
libri? Sarebbe stato più sicuro per tutti e meno dispersivo per i librai. In
realtà, molte librerie avrebbero riaperto, ma i clienti in genere non le
avrebbero prese d’assalto, soprattutto per quei negozi situati in aree in cui
però tutte le altre attività restavano chiuse. Mancava di conseguenza uno
stimolo fondamentale per alimentare l’impulso all’acquisto del consumatore,
ovvero la correlazione di negozi e servizi.
Un’ultima parentesi sulla conferenza stampa. Il discorso di
Conte fece molto parlare per una frase che divenne virale: «Questo governo non lavora col favore delle tenebre». Ma fece soprattutto discutere la frase successiva: «Devo fare nomi e cognomi»,
nominando quindi Matteo Salvini e Giorgia Meloni, per aver a suo avviso
alimentato oltremisura le notizie false riguardanti l’accettazione del MES da
parte dell’Italia. Che si fosse d’accordo o meno con il premier, un dissing politico di questo livello non
si vedeva dai tempi (2010) del «Che fai,
mi cacci?» di Fini vs. Berlusconi.
Nelle ore e nei giorni seguenti, le opposizioni reagirono
alle accuse con affermazioni come quelle della Meloni, che sostenne come solo
negli Stati totalitari i diritti delle opposizioni non fossero garantiti. E
così cominciò il dibattito pubblico che occupò il Paese per qualche giorno, in
particolare sull’opportunità o meno del Presidente del Consiglio di utilizzare
la televisione pubblica per un attacco politico di quel genere.
Ma le parole
forti del 10 non erano finite qui. Fece infatti discutere anche l’intervista a
Gino Strada nella puntata serale di ‘Propaganda Live’, che rimescolò le carte
in tavola rispetto alla retorica miracolistica della sanità lombarda.
Queste le sue
parole, che introdussero nuovi ingredienti al dibattito pubblico: «I morti
italiani sono il 25% dei totali. Non ci si può esimere dal fare una riflessione
su chi ha gestito la sanità lombarda negli ultimi vent’anni. Oggi cercano di
apparire come i salvatori; gente che ha devastato la sanità pubblica: altro che
modello Lombardia».
La Pasqua cadde
il 12 aprile: le chiese rimasero chiuse e Pasquetta non vide la consueta
diffusione di grigliate e di viaggi nelle località di villeggiatura. Certo ci
fu chi violò le regole, ma era comunque ben diversa la situazione dagli anni
precedenti: a distanza di due settimane, ci fu un leggero aumento del numero
dei contagiati in Liguria, ma non saprei dire se vi fosse stata una
correlazione con i cosiddetti “furbi” di Pasqua e Pasquetta. Il fenomeno fu
comunque contenuto.
Ad ogni modo,
riflettendoci bene, era strano pensare a quando l’epidemia avesse cominciato a
diffondersi in Italia, nel periodo di Carnevale. Il giorno di Pasqua era giunto
in modo quasi improvviso, benché fosse una data certa del calendario. Non era
tanto il fatto che non fosse percepita, quanto che la percezione era come di
straniamento, persino di diffidenza. Poteva essere già Pasqua? E che cosa era
successo nel frattempo? Quanta vita era rimasta in sospeso o era stata perduta?
Ma la vita andava avanti, anche in queste condizioni di
incertezza. Il 14, fu introdotta la possibilità per artigiani, micro e piccole
imprese di poter fare richieste alle banche per prestiti con la garanzia
statale fino a 25mila euro.
Il 16, il commissario straordinario Domenico Arcuri emise
un’ordinanza, con la quale stipulò un contratto di fornitura pro bono della App
di tracciamento dei contatti – poi nota come “Immuni” – con la società milanese
Bending Spoons.
Si discusse per settimane sui dettagli di questa app, che
avrebbe potuto potenzialmente violare la privacy dei cittadini. Gli
sviluppatori e le istituzioni assicurarono ai cittadini che i dati sarebbero
rimasti anonimi. Il funzionamento era semplice: l’app avrebbe segnalato il
fatto di essere stati vicini ad una persona risultata positiva al Coronavirus,
in modo tale da permettere agli operatori sanitari di tracciare con maggiore
facilità la potenziale rete di diffusione del virus. Ad ogni modo, nonostante i
tanti discorsi a favore o contro, l’interesse per il tema andò scemando, dal
momento che l’app non sarebbe arrivata in tempi brevi e che nel frattempo si
trovarono altri problemi di cui parlare.
Senza dubbio, uno dei più importanti fu il caso delle
residenze sanitarie assistenziali (RSA), dove si riscontrò un numero di decessi
eccessivo, e non solo in Italia (a quanto sosteneva in quei giorni uno studio
dell’International Long Term Care Policy Network, insieme alla London School of
Economics).
In Italia, sembrava che il problema fosse dovuto al fatto
che le RSA non fossero state in grado di separare i contagiati – provenienti
anche dagli ospedali in difficoltà – dai pazienti non infettati. Questo portò
ad una reazione a catena che fece crescere il numero dei morti, anche perché ad
essere interessati erano soprattutto persone anziane, quindi in una fascia
d’età a più alto tasso di mortalità.
A ciò si aggiunsero i tristi racconti dei familiari delle
vittime, costretti a non avere alcun contatto con i pazienti, spesso in
situazioni molto opache, dato che sembrava che alcune di queste strutture
stessero cercando di nascondere la gravità del problema e le eventuali
responsabilità di dirigenti e operatori. Ma ad aprile era ancora presto per
avere tutte le risposte ai molti dubbi su ciò che era accaduto in tali
strutture, per questo le indagini avrebbero seguito il loro corso nei mesi
successivi.
Il 21, il premier Conte tenne un’informativa al Senato e all
Camera sulle iniziative del governo per fronteggiare l’emergenza. L’informativa
anticipava un confronto previsto al Consiglio europeo del 23, in merito alle
misure economiche pensate dall’Eurogruppo.
Fu annunciato un nuovo decreto da almeno cinquanta miliardi;
ricordò l’esplosione dei contagi nelle RSA di alcune aree del Paese; affermò
che l’app Immuni non sarebbe stata obbligatoria; spiegò la strategia del
governo riguardo all’emergenza sanitaria (distanziamento sociale, diffusione
delle mascherine, etc.). Conte si mostrò ancora critico nei confronti del MES,
ritenuto uno strumento valido per crisi diverse da quella attuale: Paesi come
la Spagna avevano mostrato interesse per un MES senza condizionalità, ma Conte
affermò di voler avere maggiori garanzie prima di poter eventualmente accedere
al fondo.
Ma che cosa dicevano i numeri di quei giorni? La quotidiana
conferenza stampa della Protezione Civile era stata sostituita dalla sola
diffusione del bollettino serale.
Al 22, il totale dei positivi ammontava a 107.699 persone:
la curva dei nuovi contagi continuava lentamente ad abbassarsi. Per offrire
un’idea, i nuovi casi del giorno erano 3.370; i guariti 2.943; le vittime 437
(per un totale di 25.085). Il dato positivo era che aumentavano i guariti e si
riduceva il numero dei ricoverati in terapia intensiva.
Per concludere, prima di citare il DPCM di fine aprile, vale
la pena affrontare alcuni aspetti della vita quotidiana nel cuore della Fase
Uno.
Un aspetto che forse risaltava era la generale disattenzione
delle persone. Chiusi in casa per gran parte della giornata (qualcuno anche per
intere settimane), al momento dell’uscita ci si sentiva spaesati. Mancavano
certe coordinate inconsce: le persone sui marciapiedi, i gruppi di ciclisti, le
auto, il solito camioncino della frutta che riforniva il negozio vicino casa, e
così via.
Ricordo che davanti casa mia passava la principale strada
del paese e che di quei tempi pochissimi si muovevano a piedi o in auto. Il
risultato: due vetture coinvolte in un incidente; forse un investito (era
difficile comprendere le dinamiche da lontano); due ambulanze e polizia sul
posto; vecchi curiosi magicamente comparsi da chissà quale mondo sotterraneo.
La disattenzione era tale che non si riusciva nemmeno a muoversi in sicurezza a
50 km/h, a strada quasi completamente deserta. E questo non era che un esempio.
Ci furono poi le persone che pur rimanendo in casa si
diedero ad attività inconsuete e forse mai fatte prima. C’erano persone che
pulivano i tetti, persino dei condomini; che facevano avanti e indietro sul
marciapiede di fronte casa come criceti, ignorandoti totalmente alla stregua di
un Talete qualsiasi; gente che lavava le auto, che non aveva comunque motivo di
utilizzare (p. es. nel caso dei pensionati). La casistica era pressoché
infinita e con picchi di disagio non indifferenti.
Le persone facevano cose insolite, e non sempre questo era
un male, soprattutto se significava respingere la monotonia abbracciata prima
della quarantena, quasi senza accorgersene.
Dopodiché ci furono anche fenomeni inquietanti. A metà
aprile presero a circolare video di delatori e di veri e propri odiatori seriali che avevano ormai fatto
il salto di qualità rispetto a marzo. L’aspetto peggiore era che anche alcuni
programmi televisivi cominciarono a cavalcare la gogna pubblica per chi trasgrediva
(anche solo presumibilmente) le regole.
Un caso su tutti: su un canale molto seguito fu mandato in
onda, in diretta, l’inseguimento da un elicottero di uno sconosciuto che faceva
due passi su una spiaggia, in totale solitudine. La persecuzione e la delazione
legittimate da certi programmi televisivi, insieme a quel pubblico frustrato e
in estasi per questo (da immaginarsi con la bava alla bocca e gli occhi
iniettati di sangue), furono uno dei momenti più raccapriccianti di
quell’aprile e di tutta la Fase Uno.
Avete presente il film The
Circle (2017)? C’è una scena in cui grazie alla tecnologia riescono ad
individuare qualunque persona nel mondo in tempo reale, con tanto di video in
diretta. Non intendo fare spoiler, ma il seguito di quella scena fa capire la
rabbia nel dover assistere a programmi del genere alla televisione. Nella vita
reale.
Questa quarantena ebbe un effetto stravolgente anche
nell’animo profondo delle persone. Molti erano rimasti attivi, avevano svolto
attività e si erano portati avanti in qualcosa; molti invece erano rimasti
totalmente fermi, o quasi, paralizzati da questa situazione di incertezza.
Questi ultimi si trovavano in una sorta di realtà parallela,
cristallizzata a mesi fa, e avvertivano un senso di spaesamento che non sarebbe
stato facile da recuperare. Il termine giapponese hikikomori cominciò a diffondersi più di prima anche in Italia, ad
indicare quelle persone che si erano ritirate dalla vita sociale. Non sempre
però era una scelta consapevole; molto spesso la quarantena non fece che acuire
fenomeni di auto-isolamento precedenti all’avvento del virus e, in qualche
modo, ora giustificati.
Si comprese a poco a poco che il mantra dell’“andrà tutto
bene” poteva funzionare le prime settimane, quelle della speranza e dell’attesa,
del vaccino in pochi mesi, dell’app Immuni in poche settimane, dell’estate che
avrebbe cancellato il virus dalla faccia della Terra.
Ma ora sapevamo che quasi nulla sarebbe andato bene, a tutti
i livelli, dal lavoro ad una nuova Grande Depressione, dai mutati rapporti
sociali al nostro personale sentimento verso la vita e verso noi stessi.
Non sarebbe andato tutto bene, ma forse poteva essere meglio
così. Perché se fosse andato tutto bene non avremmo avuto motivo di cambiare
nulla. Invece, ci veniva consegnata (non si sa da chi o da che cosa) la
possibilità di apportare cambiamenti e forse persino di cambiare radicalmente
una società cristallizzata da oltre un secolo.
Non era più il tempo della speranza e dell’attesa, ma del
disincanto: guardare in faccia la realtà, che era un abisso, nella sua nudità,
era un’occasione che non ci capitava da lungo tempo. Che cosa ne avremmo saputo
fare?
E così il 26 si arrivò all’ennesimo DPCM, con il quale il
premier Conte annunciò l’inizio della Fase Due, a partire dal 4 maggio.
Le prime riaperture avrebbero interessato – tra gli altri –
le imprese di costruzioni, le industrie manifatturiere, automobilistica e
tessile. Fu permessa anche la riapertura al commercio all’ingrosso funzionale.
Il lavoro agile (detto impropriamente “smart working”)
sarebbe proseguito, unitamente all’assunzione di protocolli di sicurezza
anti-contagio; fu raccomandato alla PA di promuovere la fruizione dei periodi
di congedo ordinario e delle ferie.
In merito alla mobilità, ritornò la possibilità di movimento
tra comuni, ma all’interno della stessa regione e solo per motivi di lavoro, di
salute o di comprovata necessità. Furono autorizzati anche gli spostamenti per
incontrare i congiunti, pur vietando gli assembramenti e utilizzando i dispositivi
di protezione individuale.
Come per le speranze del 9 aprile, anche quelle del 4 maggio
furono in parte deluse. Le riaperture erano minori delle previsioni e p. es.
continuavano a rimanere chiusi bar e ristoranti (salvo per il servizio a
domicilio), i parrucchieri e via discorrendo. Inoltre, rimanevano forti
incertezze sugli spostamenti: il termine “congiunti” era quanto mai vago e non
si sapeva ancora se sarebbe stata necessaria una nuova autocertificazione.
Mentre moltissimi italiani si trasformarono in esegeti del
DPCM, tra la fine di aprile e i primi di maggio scoppiarono le prime
significative proteste. Il 28, a Torino, mille negozi e ristoranti riaprirono
per una protesta simbolica, chiedendo di poter ripartire. Si trattò di un flash mob che si estese anche al resto
del Piemonte e, in quegli stessi giorni, coinvolse altre regioni tra cui la
Sicilia e la Lombardia (in particolare i ristoratori di Milano).
Il crescente malcontento e le prime forme di
protesta da Nord a Sud erano la dimostrazione – non scientifica ma
antropologicamente reale – che no, la salute veniva dopo altri importanti
fattori, come la libertà di poter realizzare una vita degna di chiamarsi tale,
anche – se necessario – correndo rischi per la vita stessa. Certo, in modo
responsabile.
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