L’artigiano e la macchina. Supplemento al discorso sull’etica e il meccanicismo


Nanni di Banco, Quattro Santi Coronati (1415)



La quotidiana presenza di questo dualismo


L’artigiano non è una macchina. La macchina non ha i bisogni e i desideri di un essere vivente, c’è soltanto perché la si è progettata e voluta.
Abbiamo precedentemente descritto (v. quiEtica e meccanicismo) il fatto che computer, macchine e, più in generale, la tecnologia stessa mai potranno prendere il nostro posto, lontane come sono da ogni aspirazione o necessità di affermarsi come individui, al contrario di noi esseri umani, alla perenne ricerca di ciò di cui manchiamo e spesso in conflitto l’un l’altro.
Per assurdo, persino gli animali sono esseri perfetti a tal riguardo, in quanto macchine organiche che rispondono agli istinti e si occupano solo di raggiungere ciò che serve alla loro sopravvivenza. L’uomo, invece, che ha il vantaggio della ragione e della coscienza, trasforma spesso questo vantaggio in uno strumento di infelicità e con esso si protende verso l’auto-annientamento piuttosto che verso una vita migliore. Singolare è a tal proposito il fatto che il computer stesso, nel momento in cui si scriva questa parola senza il trattino, autoannientamento, non la riconosca nella sua memoria.


Artigiano e operaio. Due facce della stessa medaglia


Facciamo un esempio che riguarda la “razionalizzazione” della nostra esistenza e, più precisamente, il suo impatto sul nostro modo di lavorare. In questo àmbito i processi di modernizzazione hanno comportato prima grandi concentrazioni di forza-lavoro (fase fordista) e poi nella fase della robotica e della computerizzazione, lo snellimento delle strutture produttive e la riduzione complessiva del numero di operai addetti alla produzione manifatturiera. Con una costante: il lavoro umano ridotto sempre più a gesti ripetitivi, svuotati di ogni creatività, e tale da richiedere un passivo adattamento al sistema produttivo. Il lavoratore qui si trasforma in una protesi della macchina. La crisi del fordismo, poi, ha solo in parte rivalutato alcune tipologie di lavoro che richiamano le forme preindustriali dell’artigianato (ma che forse andrebbero più correttamente classificate come “piccola impresa”) di cui in particolare è ricco il tessuto produttivo del nostro Paese.

Ma ciò che a noi interessa sottolineare sono le caratteristiche psicologiche che si accompagnano a questo genere di attività e che permettono di considerarle umanamente più accettabili. Senza idealizzazioni, peraltro. Se ci mettessimo nei panni di un falegname e ci facessimo guidare solamente dalla razionalità economica e dal calcolo ci accontenteremmo di lavorare per «una fabbrica di mobili in serie in fondo alla strada» (1) senza sobbarcarci il peso di gestire la bottega del falegname che lotta per sopravvivere.
Ma è vero anche che se fossimo – come siamo – esseri umani passionali, da falegnami in crisi ci proporremo di inventare qualcosa per vendere più mobili; e mai avremmo la tentazione di abbandonare quella nostra passione di vita, quell’arte, per lavorare in una fabbrica in cui l’individualità viene meno e in cui il prodotto non esprime alcuna iniziativa personale. Infatti «l’artigiano è la figura rappresentativa di una specifica condizione umana: quella del mettere un impegno personale nelle cose che si fanno» (1).

Mentre l’operaio della fabbrica è tentato di attribuire la colpa a qualcun altro di un suo errore e non trae nessun vantaggio da esso, l’artigiano sperimenta e si evolve nella sua arte, grazie alla dedizione con cui si applica. L'operaio, in questo senso, appare invece come una figura sottomessa, che ha ceduto la sua libertà di azione in cambio di un modesto guadagno. Si sfruttano dunque i suoi bisogni in cambio della libertà.
Inoltre, l’artigiano non è un semplice esecutore; ha una sua specifica personalità: «gli artigiani si sono sentiti disprezzati; insegniamo loro a far migliore stima di se stessi: è questo l’unico mezzo per ottenere le loro opere più perfette» (2). Essi infatti possono persino decidere (la volontà!) di smettere di lavorare quando questo diventa insostenibile.
Ma che si tratti di una bottega oppure del lavoro in fabbrica, la fame è uguale per tutti, per quanto essa si esprima in due forme: nella bottega – o comunque in una qualsiasi piccola attività artigianale – c’è una dura lotta contro il tempo (per reggere la concorrenza, per accontentare i clienti) e la necessità di darsi da fare sempre più e sempre meglio, mentre nella fabbrica c’è un malcontento che diviene giorno dopo giorno odio vero e proprio, e le nevrosi causate da gesti meccanici, da orari delimitati minuziosamente, e da un continuo pensiero: “Sto zitto piuttosto che essere licenziato”, prima o dopo escono allo scoperto con impeto.

Questi due modi di reagire, a loro volta, sono il frutto chiaro di due realtà differenti: l’artigiano, che ha davanti a sé la dimensione e la prospettiva del futuro ed è impegnato a realizzare i propri obiettivi adattandosi alla situazione e ai suoi mutamenti; l’operaio, che in quanto tale non conosce un’evoluzione perché non è creatore del suo prodotto, ma è soltanto la piccola parte di un ingranaggio privo dell’ars inveniendi del primo.
Una gran parte dell’alienazione di cui oggi soffriamo dipende dal modo – dequalificato, demotivato – con cui svolgiamo il nostro lavoro. Un lavoro che non ci rappresenta e che ci estranea da noi stessi. C’è da chiedersi: è proprio destino che il lavoro in fabbrica debba avere questi caratteri spersonalizzanti? Ma torniamo alla realtà, che ancora permane, del lavoro in fabbrica. Un lavoro che agli albori della rivoluzione industriale appariva già come alienante:

Le arti meccaniche consistenti in operazioni manuali e asservite ad una specie di routine furono abbandonate a uomini relegati dai pregiudizi nelle classi inferiori. Le libere operazioni dell’intelletto toccarono invece a coloro che si sentirono più dotati in ciò da natura. (3)

Riferendoci ad oggi, queste presunte classi inferiori possono essere rappresentate dagli immigrati, che per lo più lavorano proprio nella fabbrica o nell’agricoltura. Come è facile comprendere con minimo di apertura mentale, questi immigrati hanno molti più progetti di quanto si possa immaginare e valori forse più accesi dei nostri.
“Io lavoro per poter studiare un giorno” dice un ragazzo, che ha circa ventitré anni e non gli importa di quanto tempo gli occorrerà per laurearsi, non sa neppure se ce la farà, ma ci tiene a studiare per principio. “Io lavoro qui in Italia e sono mantenuto dai miei genitori in India per poter continuare a lavorare qui" dice il suo amico a fianco con questa assurda, ma reale constatazione.
Sicché da queste parole una nuova anima sembra manifestarsi dimostrando come si possa non essere sottomessi e anzi essere più forti della realtà della fabbrica. Lo stesso ragazzo sostiene “che quel lavoro ritmico fa impazzire e alcuni non ce la fanno proprio”, ma lui e il suo amico lavorano per il loro futuro e si sentono autori del proprio avvenire, a differenza di tante persone ormai spente nella loro essenza di esseri umani che gridano ai muri grigi di una fabbrica che non gli dà ascolto, perché sono solo macchine arrugginite che stridono il loro tempo.


Fonti


1. L’uomo artigiano di Richard Sennett
2. Voce “Arte” di Denis Diderot
3. Discorso preliminare dell’Encyclopédie di J. B. D’Alembert

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