Etica e meccanicismo


Vittorio Piscopo, Ingranaggi (1989)



Il limite del meccanicismo


Non leggiamo e scriviamo poesie perché è carino, noi leggiamo e scriviamo poesie perché siamo membri della razza umana. E la razza umana è piena di passione. Medicina, legge, economia, ingegneria, sono nobili professioni, necessarie al nostro sostentamento… ma la poesia, la bellezza, il romanticismo, l’amore, sono queste le cose che ci tengono in vita.

Questa è una delle frasi forse più importanti del celebre film L’attimo fuggente, dal quale emerge fin da subito la chiara ed evidente differenza tra la necessità umana di sostentamento e la necessità di esprimere la propria essenza di uomo, l’umanità appunto. Questa differenza è doverosa ancor oggi, dove il mondo delle tecnologie e delle scienze ha riproposto – forse in modo inconscio, trascinato dai tempi che cambiano repentinamente – una visione dell’uomo che debba ricondursi al galileismo morale, cioè, sinteticamente, all’adattamento delle scienze umane in termini matematici. Già Cartesio aveva tentato ciò con la sua “morale provvisoria”, che si rivelò sì razionale, ma non scientifica. Il problema era che l’unità metodologica cartesiana poteva essere utile a conoscere e capire gli aspetti meccanici del mondo, uomo compreso (con il suo corpo costituito di sistemi e apparati), ma non si adattava affatto a quella parte imprevedibile dell’essere umano, che Cartesio osserva p. es. – quale uomo dei suoi tempi – nella donna.
Per lui infatti la donna ha meno ingegno; è differente dall’uomo per natura; possiede una ragione, ma questa è più soggetta alle passioni; e ancora, la donna è concreta, mentre l’uomo è più astratto e scientifico. In questa analisi del carattere, che in realtà può esser vera per singoli individui uomo o donna che siano, in Cartesio vige ancora un pregiudizio radicato nei secoli e che si protrae fino ad oggi, non cogliendo invece la funzione essenziale della donna, che è concreta ma in senso letterale e positivo, “cum cresco” per l’appunto.

Questo esempio è utile anche a capire meglio la funzione della biologia, che da Darwin in poi avrà la funzione di contrappeso scientifico nella natura. Si scopre allora che il razionalismo cartesiano ha un limite, e seguire con ostinazione una visione unidirezionale del mondo ci porterebbe per assurdo ad un mondo orwelliano, in cui tutto si riduce all’essenziale, lo stesso rapporto tra uomo e donna viene ricondotto alla mera procreazione e i sentimenti vengono aboliti, tutti tranne uno, l’odio, ossia l’unico sentimento che non ha bisogno di alcuna ragione. In questo mondo tutti sono vincolati dagli orari, tutti sono costantemente osservati nelle proprie case da un occhio onnisciente, non esiste il cosmopolitismo, tantomeno l’individualismo.
Ma uniformare non è la soluzione. La differenza di costumi e di pensiero è la vera naturalezza, quello che è da cancellare è il pregiudizio in sé; non aggirarlo con una nuova moda, o peggio una nuova tendenza di pensiero unidirezionale che non affronta vis-à-vis la questione. Segue da sé che le differenze sono e devono essere soggettive (di specie), e non di genere.
L’esistenza stessa di questa eterogeneità è un fatto evidente dell’impossibilità di ricondurre l’uomo ad una macchina. Non a caso Maurizio Ferraris, in un suo recente articolo intitolato Perché quelle “anime nere” non ci soppianteranno mai afferma:

Dubito che le macchine possano mai soppiantarci. Non ne hanno ragione: non hanno ansia, né responsabilità, non hanno fretta e non si annoiano, […] ossia non hanno tutto il sistema di bisogni e dipendenze che caratterizzano l’essere umano.

La scienza è infatti figlia dell’uomo, non “sottomette niente”, né tantomeno può “deresponsabilizzarci”: oggi viviamo in una società che ci offre tanti mezzi, ma quali sono i fini (consapevoli che i fini sono umani, non delle macchine)? Oggi abbiamo molte tecnologie, ma spesso ci distolgono dal senso della vita; stordendoci, esse causano piuttosto uno stato di allucinazione e alienazione, che non un qualcosa di concreto. Perciò dovremmo domandarci se effettivamente ogni tecnologia e ogni possibilità di azione offerta dalla scienza si traducano in una necessità vitale per noi uomini.

Si ritorna quindi al testo di partenza; il progresso della scienza è necessario al nostro sostentamento e alla nostra ricerca come specie umana, ma l’evoluzione culturale – che è propria dell’uomo – non sempre si svolge secondo le leggi fisiche o biologiche che rendono possibile la vita umana stessa, e questo non perché siamo “macchine malate/guaste”, ma perché noi siamo padroni della tecnica, che è quel sapere che ci fornisce i mezzi idonei al raggiungimento degli scopi che noi stessi abbiamo progettato o architettato secondo la nostra volontà.


L’etica e il bisogno di significato


Nel processo di rifondazione della logica scientifica, Cartesio ha profondamente rinnovato le regole aristoteliche del discorso logico, secondo cui illogos è valido in ogni caso e non presenta contraddizioni. Oggi tuttavia, la logica aristotelica sembra tornare in una forma nuova: molti pretendono che il proprio logos sia giusto secondo il principio della “libertà di parola” (che è un principio da intendere più nel concreto-quotidiano che nella sua portata storico-sociale), senza intendere che la “sacra” garanzia di potersi esprimere debba essere la base con cui poter esprimere qualcosa che almeno sia coerente. Purtroppo la realtà di oggi è confusionale: esistono infinite opinioni (δόξα) e ben poche verità dal punto di vista etico-sociale. Anzi, secondo Zagrebelsky, giurista e presidente emerito della Corte Costituzionale, non esistono dei criteri universali in grado di dirci cosa sia giusto, ma esistono dei criteri universali per individuare ciò che è ingiusto (riferimento tratto dall’articolo de ‘La Repubblica’ Il difficile compito di fare giustizia, del 02.12.2005).

È vero che le regole di comportamento sono imposte dalla necessità di regolare e rendere possibili i rapporti sociali, ma esse sono per lo più regole eteronome, cioè esterne alla volontà delle singole persone, per quanto in esse ci si possa riconoscere, almeno formalmente. Nel concreto, invece, dobbiamo raffrontarci con il relativismo etico. Il problema però non è affatto rivolto alla legittimità di esprimere delle opinioni personali, quanto piuttosto sulla loro coscienza universale, che è ciò che manca dal momento in cui ognuno vuole “dire ciò che pensa e fare ciò che vuole” indipendentemente (e qui si ritorna all’alienazione sopra citata causata in larga parte dall’uso sbagliato delle tecnologie).
La stessa vocazione al consumismo, il bisogno di evadere dalla realtà, la fuga dalle responsabilità e, cosa maggiore, il disaffetto alla tensione morale nascono dal fatto che non è vero che siano venuti meno o si siano modificati i valori tradizionali, ma che semmai è illusoria la pretesa di sostituirli con altri, con pseudo valori.
In un altro articolo un po’ datato, firmato Giorgio Brusin e intitolato Il bisogno di significato, viene citato Victor Frankl, eminente psicoanalista viennese, il quale sostiene che le nevrosi, depressioni e angosce sono causate dall’insoddisfatto “bisogno di significato”. Frankl afferma in questo articolo:

La nostra società permissiva reprime solo e soltanto questo bisogno. Un tempo era tabù parlare di sesso, oggi è quasi tabù parlare del significato della vita.

E ancora, Frankl sostiene che l’uomo non sia il mero prodotto di condizioni sociali, o persino genetiche, l’uomo ha infatti la 
«libertà di prendere le distanze, di sollevarsi al di sopra di ciò che lo condiziona”. Ha insomma una propria volontà e un suo margine d’azione».


Conclusioni


1. Appurato all’inizio che il meccanicismo cartesiano abbia dei limiti, come confermato dal successivo sviluppo della biologia e dalla diversità stessa insita negli uomini (v. il cosmopolitismo), è utile quindi distinguere ciò che è necessario per il nostro sostentamento da ciò che ci tiene in vita e non ci lascia per natura diventare delle fredde macchine senza un fine.
2. Dal primo punto si apre proprio il problema di trovare un fine alle nostre azioni e di non farci distrarre dalla tecnologia; da qui prendere coscienza delle proprie opinioni ed esprimerle con coerenza e all’interno di una necessità per quanto possibile universale.
3. Altra riflessione conclusiva è che l’arte appresa non ha senso, qualora di essa non si renda partecipi gli altri: questo può essere un fine, con il quale offrire un proprio contributo all’umanità.


Nota: per un approfondimento di questo articolo, sul blog si trova anche il post L'artigiano e la meccanica. Supplemento al discorso sull'etica e il meccanicismo (qui).

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