Petra e il Medio Oriente attraverso la biografia di David Roberts


D. Roberts, Una veduta del Cairo (1840)



Prima dei viaggi in Medio Oriente


David Roberts nacque il 24 ottobre 1796, a Stockbridge, presso Edimburgo. Era figlio di Christian Richie e di un calzolaio, John, e all’età di dieci anni incominciò un apprendistato settennale nella bottega di un imbianchino e decoratore, Gavin Beugo. Scozzese e di umili origini, il futuro di Roberts sembrava in qualche modo già segnato. Negli anni dell’apprendistato fece amicizia con il collega David Ramsay Hay e i due diventarono amici per il resto delle loro vite. Le giornate si svolgevano nelle case di ricchi borghesi, oppure di persone più umili interessate ad imitare i primi. La notte, però, Roberts la trascorreva sui libri di storia dell’arte e da autodidatta apprese i primi rudimenti della pittura e quelli che erano stati gli sviluppi dell’arte nel corso dei secoli. In mancanza di una guida esperta, dovette affidarsi alla propria sensibilità e alla capacità di osservazione.
Certamente gli stimoli non mancarono e con gli anni si fecero sempre più interessanti. Trasferitosi a Perth per svolgere la funzione di capomastro nella ristrutturazione di Scone Palace, nell’estate del 1815 Roberts eseguì il suo primo lavoro retribuito. La primavera successiva ritornò alla casa dei genitori: attento agli sviluppi dell’arte contemporanea, studiò in particolare le soluzioni del Romanticismo e negli ultimi anni di vita fu incuriosito anche dalla nascente esperienza impressionista.
Qualche tempo dopo, Roberts si dedicò ad un’attività molto in voga in quegli anni e intraprese la carriera di scenografo, dipingendo le scenografie per il circo di James Bannister a North College Street. Bannister rimase colpito dal giovane e nell’aprile del 1816 lo ingaggiò con uno stipendio settimanale di venticinque scellini, portandolo a viaggiare con il circo in una tournée inglese. In quel periodo raggiunse diversi luoghi, tra cui Carlisle, Newcastle, Hull e York, per poi fare ritorno ad Edimburgo al principio dell’anno seguente. Durante la tournée, Roberts non si occupò soltanto di scenografie, ma ricoprì anche ruoli minori nelle scenette dei clown. Aveva ancora venti anni; in poco tempo aveva percorso molta strada per quanto le sue umili origini avevano rischiato di tenerlo ancorato alla sua città natale. Curioso di natura e disposto a sperimentare il proprio universo sociale, Roberts proseguì su quella strada, in un crescendo di commissioni.
All’inizio del 1817, lavorò come assistente scenografo al Pantheon Theatre di Edimburgo, nel contesto di una collaborazione tra Bannister e un musicista italiano il cui cognome era Corri. L’esperienza del Pantheon non fu però delle migliori: andato incontro al fallimento finanziario, fu chiuso nel maggio dello stesso anno. Roberts fu costretto a ripiegare sull’house painting: lavorò nella villa di Abercairny, vicino a Perth, progettata da Gillespie Graham. Pur lavorando per tutta la giornata, riuscì a trovare il tempo per disegnare nei boschi intorno alla villa, al chiaro di luna. Non vi doveva essere nulla di romantico e melanconico, in stile Gleizes; Roberts si ritirava in solitudine, ma nei panni di un instancabile lavoratore, consapevole dei propri limiti e tuttavia in cerca di un riscatto. La sua figura al chiaro di luna, dunque, è serena e placida; il muscolo procero accenna appena al fremito interiore che lo percorre, ma nel suo operare rimane un ordine formale e una certa dose di meticolosità.
Dalla villa di Abercairny si spostò a quella di Condie, vicino a Bridge of Earn, nel Perthshire, dove realizzò una pittura simulata su finto legno e marmo. Tornato ad Edimburgo nel 1818, intraprese una breve collaborazione con il pittore decorativo John Jackson. Quel biennio dovette sembrare a Roberts un periodo di ristagno, nel quale rischiava di rimanere paralizzato. Decorò la Dunbar House di Lord Lauderdale (poi Lauderdale House) e la biblioteca del castello di Craigcrook, per Lord Jeffrey, che aveva da poco affittato la proprietà.
Nel frattempo riaprì il Pantheon Theatre e Roberts ottenne il lavoro grazie a Corri. Nella stagione invernale, lo scozzese si ritrovò a dipingere direttamente sul palco, ma dal momento che questo era occupato durante il giorno dalle prove e la sera dalle esibizioni, spesso si ritrovava a lavorare in piena notte, attività in cui peraltro era ormai esperto. Il direttore di scena, Mr. Monro, non poté non notare il suo impegno e in seguito all’ennesima chiusura del Pantheon, lo assunse come primo pittore di scena al Theatre Royal di Glasgow. Alla fine, l’impegno aveva dato i suoi frutti.
Nel 1819 si spostò nuovamente ad Edimburgo, dove divenne pittore di scena al Theatre Royal, e a ventitré anni scelse James Ballantine come suo apprendista, il quale raccolse i diari del maestro, utilizzati in questa breve biografia. Fu in quel periodo sereno che l’artista conobbe l’attrice scozzese Margaret McLachlan, della quale in città si diceva che fosse figlia illegittima di una giovane zingara delle Highlands e di un capo clan. Anche in questo caso non sembra si debba ravvisare nulla di romantico; fu un amore semplice e molto combattuto, ma nacque spensierato e senza troppe convulsioni. I due convogliarono a nozze nel 1820 e in breve tempo nacque l’unica figlia di Roberts, Christine (in onore alla madre).
Segno che quel periodo dovette essere molto positivo per l’artista, Roberts incominciò a realizzare per passione dipinti ad olio, con una frequenza e un rigore mai avuti in precedenza. Divenne amico dell’artista William Clarkson Stanfield, con il quale dipinse le scenografie al Theatre Royal; contemporaneamente crebbe il suo interesse per la pittura di paesaggi. Nel 1821 dipinse tre vedute delle abbazie di Melrose e Dryburgh, per la Fine Arts Institution di Edimburgo. Seguendo il suggerimento di Stanfield, inviò tre foto delle opere all’Exhibition of Works by Living Artists, tenutasi ad Edimburgo l’anno seguente.

Charles Louis-Baugniet, Ritratto di David Roberts

Per Roberts era arrivato il momento di fare un salto di qualità. Motivato a migliorare le proprie abilità artistiche, salpò da Leith con la moglie e la figlia di sei mesi e si trasferì a Londra, dove si occupò prima delle scenografie del Coburg Theatre e poi del Theatre Royal, in Drury Lane, per il quale creò diorami e panorami insieme a Stanfield. Londra era sicuramente un ambiente culturale più dinamico e suggestivo. Da ormai quattro decadi Philip James de Loutherbourg aveva introdotto l’Eidophusikon a Leicester Square, un precursore dei film che creava illusioni visive attraverso un sistema di specchi e pulegge. Nel 1787, invece, Robert Barker aveva inventato il Panorama: in un ambiente circolare si disponeva un dipinto, con appositi lucernari ad illuminare ad arte la scena, solitamente una veduta di luoghi remoti (Damasco, l’Artide, etc.), un episodio storico o religioso e molto altro.
In parallelo a questi stimoli culturali, la vita personale di Roberts subì un brusco colpo. Di questo periodo è una miniatura di lui e Margaret, donna dai delicati boccoli biondi, intenta a tenere tra le braccia la sorridente figlia di tre anni. In questo caso, tuttavia, si trattava di una risposta antitetica ad una realtà famigliare tutt’altro che felice: Margaret era alcolizzata, a tal punto che Roberts fu costretto a rimandarla in Scozia per farsi curare. La situazione doveva essere arrivata ad un limite tale per cui il sentimento era venuto meno e, segnato da questa esperienza, scrisse una lettera al vecchio amico David Ramsay Hay, affermando di essere grato a Dio per la partenza della moglie.
Il suo lavoro, ad ogni modo, non subì affatto una battuta d’arresto, segno della determinazione e della dedizione all’attività artistica. Nel 1824, espose un’altra veduta dell’abbazia di Dryburgh, presso la British Institution, e inviò due opere alla neonata Society of British Artists. Nell’autunno di quello stesso anno fece un breve salto oltre la Manica e visitò la Normandia, ponendo le basi del suo successo con una veduta della cattedrale di Rouen.
Nel frattempo, anche il lavoro teatrale diede i suoi frutti. Le commissioni di Covent Garden includevano i set per la prima londinese di Die Entführung aus dem Serail (Il ratto dal serraglio) di Mozart, nel 1827, in cui erano raffigurati la vittoria navale di Navarino e due panorami, eseguiti ancora una volta insieme a Stanfield.

D. Roberts, La partenza degli Israeliti dall'Egitto (1829)

Alla fine degli anni Venti, Roberts aveva rappresentato diverse vedute, non solo inglesi e scozzesi, ma anche della Francia e dei Paesi Bassi (Amiens, Caen, Dieppe, Rouen, Anversa, Bruxelles, Gand). Alcuni dipinti ritraevano la stessa scena, sebbene con piccole variazioni. Dall’arrivo a Londra la sua tecnica si era sicuramente affinata e con la Partenza degli Israeliti dall’Egitto (1829) annunciò i tratti salienti del suo stile, destinati a svilupparsi negli anni seguenti (curiosamente Roberts non aveva ancora visitato quei luoghi, da lui ripresi in forma immaginaria attraverso le litografie giunte a Londra). Nel 1831, infine, fu eletto presidente della Society of British Artists.

D. Roberts, Vecchi edifici sul Darro, Granada (1834)

L’anno seguente viaggiò in Spagna e Tangeri. Tornò alla fine del 1833, con un voluminoso portfolio di disegni, schizzi e nudi. Da questi bozzetti trasse alcune opere molto popolari, tra cui Interior of Seville Cathedral (esposto alla British Institution nel 1834 e venduto per 300 sterline), alcune illustrazioni per il Landscape Annual del 1836 e i Picturesque Sketches in Spain (riprodotti in litografia nel 1837). Cresciuta la sua fama, a Londra conobbe altri artisti come Edward Thomas Daniell e John Linnell, frequentatori della Daniel House. Alla carriera di Roberts mancava solamente la conoscenza diretta dei monumenti orientali che desiderava riprodurre con cognizione di causa. Aveva inoltre sentito parlare della riscoperta di una misteriosa città, posta nelle gole tra il Sinai e l’antica Mesopotamia.


Il Medio Oriente. La riscoperta di Petra


Robert Scott Lauder, Ritratto di David Roberts vestito con abiti orientali (1840)


Cenni storici


Letteralmente nascosta nelle insenature dei monti Shara, Petra è situata in una remota valle a sud della Giordania. Duemila anni di sabbia, di Simùn e di intemperie hanno eroso la friabile arenaria, tanto che oggi la roccia appare morbida e ricca di venature.
Le prime tracce risalgono a 9000 anni fa, quando l’area era attraversata da cacciatori-raccoglitori e doveva essere molto più fertile di come appaia ai contemporanei. Lo sviluppo della regione scaturì dal crescente movimento di uomini e merci, che dovevano passare di lì per raggiungere la Mesopotamia dall’Egitto e viceversa. Anche la Bibbia cita la città, affermando che Reqem – re del regno di Edom – proibì il passaggio agli Israeliti in fuga dall’Egitto. In seguito, poco dopo il 1000 a.C., fu proprio il re israeliano Davide a sottomettere l’intero regno di Edom, controllandone il commercio, in particolare di rame. Salomone trasferì ingenti ricchezze dalla capitale edomita a Gerusalemme, ma a seguito della sua morte il regno israelita entrò in crisi, senza tuttavia che i successivi dominatori fossero in grado di sfruttare le potenzialità della città.
Fu così che dal 647 a.C. emergono le prime informazioni sui Nabatei, un popolo nomade proveniente dal deserto, che sfidò l’ultimo re assiro Assurbanipal e si stanziò nelle strette vie rocciose della regione. I Nabatei gestirono con accortezza il traffico carovaniero e imposero un pedaggio in cambio di un luogo sicuro per la sosta e le transazioni. Fu in quel periodo che Edom assunse il nome di Arabia Petrea. Più tardi, nel 312 a.C., Diodoro Siculo racconta che il greco Antigone, governatore seleucide della Siria, attaccò i Nabatei, desideroso di razziare le loro preziose merci, ma essi respinsero l’aggressione per due volte, per comprare infine la pace e ristabilire così i commerci.
Lungi dall’avere mire espansionistiche, quella popolazione un tempo nomade si aprì alla pace e al confronto con altre culture, non solo limitrofe. Proprio mentre la Siria seleucide e l’Egitto tolemaico erano occupati a spartirsi l’impero di Alessandro Magno, i Nabatei estesero il loro potere in maniera più silenziosa, fino a conquistare Damasco (80 a.C.). Il commercio si intensificò: oltre a rame, ferro e bitume del Mar Morto (utilizzato in Egitto per l’imbalsamazione), si aggiunsero le spezie della costa araba, la mirra, l’olio di balsamo e l’incenso (soprattutto per le cerimonie religiose ellenistiche). Dall’India provenivano il pepe, lo zenzero, lo zucchero e il cotone; dalla Cina – o meglio da Li-Kan – la seta, l’oro, l’argento, l’hennè e ancora l’incenso.
La città era talmente potente che quando Pompeo la attaccò nel 62 a.C., i Nabatei comprarono la pace per l’ennesima volta. L’età d’oro di Petra durò circa due secoli, dal I secolo a.C. al I secolo d.C.: Petra raggiunse i trentamila abitanti; Strabone parla di un re democratico, di ricchezza e cosmopolitismo, con Romani e altri stranieri lungo le vie cittadine. Il declino, inevitabile di fronte alla potenza romana, fu provocato dall’espansione del commercio via mare lungo le coste arabiche; oltretutto, i Romani spostarono l’asse commerciale verso l’Egitto e la Siria storica, ponendo le basi per la nascita di Palmira. L’ultimo re, Rabbel II, fu così costretto a negoziare con Roma e questa volta i Nabatei non poterono più contare sul loro prestigio: alla morte del sovrano (106 d.C.), la Nabatea divenne parte dell’Impero romano.
Petra attraversò un periodo di rinascenza: diventò la principale città della provincia d’Arabia; il teatro e la via colonnata subirono un rifacimento; imperatori come Adriano e – forse – Severo la visitarono. Nel 300, ad ogni modo, ricominciò il processo di declino, dovuto essenzialmente alla mancanza di manutenzione. Da un lato Palmira si trasformò nel principale snodo commerciale dell’area; dall’altro la rotta via mare per l’Egitto si era consolidata.
Con l’avvento del Cristianesimo, a Petra vi fu una commistione di elementi politeisti nabatei e di elementi legati alla nuova fede. Nel 363 un terremoto distrusse metà città, ma per altri due secoli sopravvisse al suo destino. Molti templi politeisti furono convertiti in chiese e altri edifici religiosi furono edificati, come la chiesa di Petra e la chiesa della Collina. All’arrivo dell’Islām, Petra era tuttavia quasi abbandonata: un ulteriore terremoto (749), costrinse anche i più temerari ad abbandonarla.
Altre voci della città si hanno nel XII secolo, quando i crociati costruirono in quell’area due avamposti, abbandonati di lì a un secolo. Nel 1276 il sultano mammalucco Baybars uscì dalla gola del Siq e fu forse l’ultima persona a visitare la città per più di cinquecento anni, esclusi ovviamente i beduini, che conservarono quel segreto e ripresero spesso i loro antichi culti mai dimenticati.
La svolta nella storia di Petra risale al 22 agosto 1812, quando l’esploratore svizzero Jean Louis Burckhardt entrò nel Siq vestito da perfetto arabo, accompagnato da una guida locale. Il racconto di quella “riscoperta” mette chiaramente in luce la vera e propria epopea di esploratori e ricercatori affascinati dall’ignoto, che dal Settecento alla prima metà del Novecento affrontarono pericoli oggi per lo più inconcepibili. Questi esploratori potevano essere indipendenti, ma solitamente erano legati ad una nazione europea; le motivazioni erano le più disparate, alcune volte assunsero connotati imperialisti e civilizzatori, altre volte furono la risposta – conscia o inconscia – al desiderio di conoscere una realtà alternativa a quella imperante in un’Europa dedicata anima e corpo al mito del progresso. Burckhardt fu con ogni probabilità il secondo genere di esploratore, tanto che lungi dal voler “civilizzare” i non europei, diventò a tutti gli effetti un mussulmano perfettamente integrato in Medio Oriente.
Burckhardt nacque a Losanna, in Svizzera, nel 1784. Nel 1806 divenne membro della londinese Association for Promoting the Discovery of the Interior Parts of Africa, che gli propose un viaggio per individuare le sorgenti del fiume Niger. Prima di fare ciò, Burckhardt volle approfondire la conoscenza del mondo arabo, in modo tale da ridurre il pericolo di essere ucciso e per non passare da spia del governo inglese. Imparò l’arabo e ad Aleppo vestì i panni di un commerciante mussulmano proveniente dall’India, mascherando il suo strano accento con il dialetto svizzero-tedesco fatto passare per una lingua indiana. Approfondì la conoscenza del Corano e oltre alla Terra Santa visitò La Mecca (cosa eccezionale per un europeo di allora) e l’Egitto, assumendo il nome di Sheikh Ibrahim ibn Abdallah. Morì di malattia nel 1817, di ritorno in Egitto dopo aver esplorato il Sinai, non prima di aver “riscoperto” i resti di Petra, di cui aveva misteriosamente sentito parlare. Per potersi avvicinare al sito utilizzò il pretesto di aver fatto voto di sacrificare una capra nel santuario del profeta Aronne, sul Jabal Haroun. Alto 1350 m, si pensa che il rilievo corrisponda al biblico Monte Cor, dove fu sepolto Aronne (Haroun), fratello di Mosè. Così in Nm 20, 26-27: «Spoglia Aronne delle sue vesti e falle indossare a suo figlio Eleazaro; in quel luogo Aronne sarà riunito ai suoi antenati e morirà. Mosè fece come il Signore aveva ordinato ed essi salirono sul monte Cor, in vista di tutta la comunità».
Burckhardt e la guida furono avvistati lungo la strada dalla tribù Liyathneh, che tentò di fermarli senza successo. I due riuscirono ad andare oltre nella direzione del santuario e, prima di raggiungerlo per il sacrificio, Burckhardt riuscì a scrivere degli appunti e a stendere dei semplici schizzi.
Entrato nel Siq vestito da perfetto arabo, con il materiale raccolto riuscì a destare l’interesse dell’Occidente: postumo uscì il suo Travels in Syria and the Holy Land. Nel 1818, Charles Irby e James Mangles, comandanti della British Royal Navy, trascorsero alcuni giorni in quel luogo. Nel 1826 fu la volta dell’archeologo e viaggiatore Léon de Laborde, mentre nel 1839 di David Roberts, i quali consegnarono all’Occidente immagini più sostanziose di Petra. Laborde ne trasse incisioni spesso fantasiose e idealizzanti, Roberts invece più accurate. La vera svolta per Roberts era venuta su pressione di Turner: abbandonata definitivamente la pittura di scena, il 31 agosto 1838 era partito alla volta dell’Egitto, poco dopo Owen Jones, alla ricerca di nuovo materiale. Numerosi furono i disegni, gli acquerelli e gli schizzi preparatori di quelle che sarebbero state le sue litografie più note.
Egli contribuì moltissimo alla conoscenza di Petra presso la società inglese e non solo e Burgon dovette ispirarsi anche a lui quando definì Petra “città rosata”, peraltro senza averla ancora visitata di persona. Nella seconda metà del secolo la città tornò ad essere visitata da stranieri, che da Gerusalemme raggiungevano la città montando cavalli e cammelli e coprendo una distanza superiore ai duecento kilometri. Una vera e propria avventura, considerando che il tragitto era in mano ai briganti e che le stesse grotte di Petra erano abitate dalla tribù Bdul, molto povera e a sua volta circondata da altre tribù nomadi come i Saidiyeen, gli Ammarin e Liyathneh.
Alla fine del secolo incominciarono i primi seri scavi archeologici; nel 1898 furono catalogati i monumenti; nel 1925 furono prodotte le prime mappe accurate.
Nel 1931, la compagnia di viaggi di Thomas Cook offrì ai turisti europei la sistemazione in tenda o in grotta, mentre il primo hotel (Rest House) arrivò solo negli anni Cinquanta. Negli anni Ottanta il governo convinse la tribù Bdul a trasferirsi a Umm Sayhoun, offrendo loro abitazioni e servizi, liberando in parte le grotte di Petra che essi abitavano da tempo immemorabile. Nel 1985 il sito divenne patrimonio dell’umanità dell’UNESCO e si susseguirono gli scavi archeologici. In seguito fu creato il Parco archeologico di Petra e nonostante gli scavi siano iniziati da più di un secolo, i fattori storici rendono il sito in gran parte ancora da scoprire.


I luoghi caratteristici di Petra


Quando Roberts si trovò tra le rovine di Petra il sito mostrava ancora meno di quanto sia oggi possibile vedere e anche le parti più caratteristiche, come il tesoro, erano ricoperte da millenni di voci e di leggende. Ciò che rimaneva e rimane più impresso a prima vista sono le sfumature dell’arenaria, che sembrano non conoscere limite. Dall’ingresso del Siq (Bab as-Siq), seguendo il corso del Wadi Musa, si trovano sùbito le tre case degli dèi, rocce tra i sei e gli otto metri, rappresentanti alcune divinità nabatee (i Nabatei approdarono ad un sincretismo che univa elementi della cultura araba e mediterranea). Secondo gli abitanti locali mussulmani sarebbero opera di jinn e rappresenterebbero inoltre i contenitori (sahrij) dell’energia divina, che si sprigiona nei corsi d’acqua. Proseguendo si scorge l’ingresso della tomba dell’obelisco, segnato appunto da quattro obelischi piramidali, catalizzatori dell’energia divina: la grotta contiene diverse tombe e al piano inferiore la stanza del triclinio, in cui si tenevano banchetti per onorare i defunti.

Giunti alla diga si scende lungo la cresta per raggiungere il più scenografico monumento naturale di Petra, il Siq (“la gola”), principale accesso alla città, che fino all’ultimo rimane celata. Da novembre a marzo le acque invadono prepotentemente la gola e il Wadi Musa scorrerebbe copioso in assenza della diga. L’ingresso della gola prevedeva un arco ornamentale, crollato però nel 1896. I turisti di oggi si alternano a piedi, a cavallo o su un cammello; alcuni avventurieri scalano le pareti, seguendo precari passaggi corrosi dal tempo, forse ignari dei pericoli più comuni di quasi due secoli prima; infine, non mancano gli asini, “taxi con l’aria condizionata” secondo l’espressione più diffusa, che tuttavia con il loro passaggio mettono a rischio alcuni luoghi, come l’antica scalinata che conduce al “monastero”. In modo analogo a Pompei e agli altri siti del genere, il vero problema della conservazione è sopraggiunto con la riscoperta e il conseguente afflusso di turisti, curiosi e avventurieri spesso disinteressati al valore storico del sito.

Tornando al Siq, lungo la via si accavallano le tracce di pavimentazione romana, i resti delle tubature nabatee in terracotta e un canale laterale per l’acqua, del tutto simile ai canali costruiti dai beduini nelle oasi, per raggiungere in modo capillare il territorio.

Compagne imprescindibili, le numerose nicchie votive, alcune con frontone in stile greco, accompagnano il passante. Dalle forme arrotondate e morbide della gola si passa improvvisamente alle linee geometriche del cosiddetto “tesoro” (al-Khazneh), sebbene il tempo abbia smussato anche queste costruzioni artificiali. Il monumento è scavato nella parete rocciosa e il suo stato di conservazione ottimo dipende dalla ridotta azione erosiva del vento e della pioggia. Il tesoro fu costruito nel I secolo a.C., forse con il favore di re Aretas III Filelleno, che inviò a Petra i maggiori architetti del Mediterraneo. La luce del mattino, tra le nove e le undici, illumina in modo diretto, mentre quella del pomeriggio, tra le diciassette e le diciotto, crea il caratteristico riflesso rosato delle pareti rocciose.
L’interno del tesoro non è altro che una sala a pianta quadrata su cui si affacciano stanze più piccole: non si conosce la sua funzione, ma il bacile incastonato sulla soglia sembra suggerire una funzione rituale. Il nome deriva dalla definizione data dai beduini, di Khaznet al-Faraoun, ovvero “tesoro del faraone”: essi credevano infatti che il faraone, signore della magia nera, avesse fatto costruire quell’edificio per depositarvi il suo tesoro, dal momento che era rallentato da esso nel suo inseguimento degli Israeliti.
Superato il tesoro si prosegue per il sentiero noto come Siq esterno, dove si trovano diverse tombe, tra cui una decorata con un motivo a gradoni ascendenti di origine assira, ma anche una facciata in puro stile classico, la tomba di Unayshu, scolpita su un pinnacolo scosceso che sembra non conoscere la gravità. Il Siq esterno sfocia verso la strada delle facciate, le più antiche decorate con motivi senza cornice.
Sùbito dopo segue il teatro di matrice classica, risalente al I secolo d.C., nonostante la città non fosse ancora annessa all’Impero romano, a dimostrazione dei fitti legami tra i due mondi. Il teatro poteva ospitare 8500 spettatori; la struttura è quasi interamente scavata nel fianco della montagna; gli strani buchi alle spalle dell’auditorium erano le cellette di alcune sepolture eliminate per fare spazio alla parete di fondo. A poche centinaia di metri dal teatro, lungo la parete est, si giunge alle tombe reali, come quella di Unayshu, prima solo intravista di profilo.
Proseguendo in direzione nord, si raggiunge la tomba dell’urna, con un cortile colonnato sorretto da più ordini di arcate: nel 477 si svolse una cerimonia di dedicazione per trasformare la sepoltura in una chiesa. La tomba della seta è invece così chiamata per le sfumature della pietra screziata, con toni dal rosa al blu. La tomba corinzia inganna con il suo nome attribuitole da un visitatore del XIX secolo, dal momento che è del periodo nabateo. La tomba del palazzo è una commistione di stili sulla facciata e il secondo ordine presenta un intercolumnio irregolare rispetto all’ortodossia architettonica del piano terra. La tomba di Sesto Fiorentino si trova ad ovest rispetto alla tomba del palazzo: il nome deriva dal governatore della provincia romana d’Arabia, che nel 130 d.C. fu seppellito a Petra secondo le sue volontà. La facciata presenta un aggraziato frontone semicircolare, uno dei più interessanti a livello decorativo. Poco più a nord si trova infine la tomba carminio, striata di mille colori e occultata da un albero.
Girato l’angolo dopo il teatro, lungo la via colonnata, si raggiunge il centro dell’antica Petra, in cui emerge un ninfeo, dove un verdeggiante pistacchio cresce rigoglioso sulle rovine di età romana, nel luogo in cui sembra confluissero le tubature in terracotta, quando l’acqua gorgheggiava arrivando da lontano e rinfrescava l’arida piazza. Il mito non esisteva, perché era vivo e dinamico negli uomini e nelle donne di allora. Questo era il luogo in cui le figlie di Zeus ed Eurinome diffondevano la loro bellezza; Aglaia con il suo splendore, Eufrosine con la sua pace e Talìa con l’abbondanza. Intorno a loro le danzatrici, coronate di fiori e con i capelli legati senza troppa cura; tra le loro mani i cembali e i flauti per l’udito, mentre per la vista una coreografia di veli, così leggeri da rendere la forma femminile tanto morbida che nei piedi nudi sembrava voler spiccare il volo. E percorrendo la via colonnata dal ninfeo verso ovest, un’ulteriore fila di colonne delimitava l’area del mercato, mentre la fantasia fa apparire dalla sabbia un vortice di amorini, come fuggiti alle gabbie del tempo, ma sconsolati nel vedere intorno a sé solo i fasti perduti di un antico splendore.
Dietro il ninfeo si scorge la chiesa di Petra, costruita nel V secolo: una basilica a tre navate, con tre absidi sul lato est e tre ingressi sul lato ovest. Distrutta prima da un incendio e poi dai terremoti, sopravvivono ancora oggi alcuni interessanti mosaici pavimentali, che uniti ai 152 rotoli di papiro scoperti sul luogo nel 1993 potranno svelare molte informazioni sulla presenza bizantina. I mosaici della navata sud rappresentano le personificazioni delle stagioni, con diversi uccelli e pesci; i mosaici della navata nord mostrano popoli primitivi e animali esotici, tra cui una giraffa-cammello. A ovest, il battistero conserva un fonte battesimale a croce, incorniciato da quattro colonne di calcare. Alle spalle della chiesa, in salita, la cappella blu del V secolo prende il nome dalle colonne in granito egizio, recuperate da altri edifici precedenti, come per la chiesa stessa. Dopo una breve salita si trova la chiesa della Collina, risalente alla fine del IV secolo e priva di decorazioni.
Il tempio dei leoni alati domina l’ingresso del temenos a ovest della chiesa di Petra e risale al I secolo d.C.: il nome deriva dai capitelli con figure di leone ed è forse dedicato ad al-Uzza.
Sui pendii a sud della via colonnata si trova invece l’area nota come terrazza del giardino, della seconda parte del I secolo d.C., che prevedeva ampi spazi verdi a scopo ornamentale, oltre ad una grande piscina con al centro un’isola sormontata da un piccolo padiglione rettangolare.
Vicino alla terrazza, il “grande tempio” dello stesso periodo sembra sia stato un edificio adibito alle celebrazioni pubbliche; l’architettura dell’intero edificio è complessa e su più livelli, con diversi ordini di colonne e particolarità come i capitelli a testa di elefante indiano, a testimonianza dello splendore durante l’età d’oro.
L’estremità ovest della via colonnata è delimitata dalle rovine della porta del temenos, che introduce ad un cortile, un tempo spazio sacro, poi luogo di sosta dei cammelli. In quest’area si trova anche il Qasr al-Bint al-Faraoun (“palazzo della figlia del faraone”), un tempio nabateo a pianta quadrata costruito alla fine del I secolo d.C. L’enorme arco serviva ad alleggerire il basso architrave orizzontale della porta che introduceva alla cella, illuminata da alte finestre. La parte posteriore del sancta sanctorum è divisa in tre stanze separate (adyta) e quella centrale conteneva forse la statua sacra di Dushara.
Il monastero (Ad-Dayr, o Al-Deir) si distingue alla vista per la sua maestosa facciata scavata nella roccia, raggiungibile dopo una lunga scalinata, lungo la quale si trovano diversi luoghi di interesse, come il triclinio del leone, un piccolo santuario in stile classico nascosto tra i cespugli, con leoni scolpiti e due teste di Medusa alle estremità del fregio sopra la porta. La facciata del monastero è immensa, ma non decorata: il nome deriva dalle croci ritrovate al suo interno, ma si tratta forse di un tempio dedicato al re nabateo Obodas I, deificato alla sua morte nel I secolo a.C.
Tornando al teatro e alla strada delle facciate si può prendere il sentiero dell’altura del Sacrificio. In cima alla scalinata si ergono due obelischi di oltre sei metri, ricavati sbalzando il terreno intorno e livellandolo: sono noti come Zibb/Amud Attuf (“fallo/colonna della misericordia”), con analogia (inconsapevole?) ai Lingam indiani. Nelle vicinanze, l’altura dei Sacrifici presenta un altare posto sopra quattro scalini, con un bacile sul lato e una cavità dove un tempo doveva esserci una statua. Non si conosce il genere di sacrifici praticato, ma dal momento che altrove si sacrificavano giovani proprio alla dea al-Uzza, non è escluso che anche a Petra in tempi antichi si praticasse il sacrificio umano.
Si può scendere dall’altura sul versante orientale, attraverso il Wadi Farasa. Lungo il tragitto si trovano antiche fontane, triclini, tombe e la collina di Zantur, con i resti di una villa di un mercante nabateo. Il sentiero del Wadi Farasa si conclude presso l’Amud/Zibb Faraoun (“colonna/fallo del faraone”), in cui convergono diverse strade.
Meritano ancora menzione le grotte di Al-Habis, a lato del Qasr al-Bint, nelle cui vicinanze si trova una tomba incompiuta, che evidenzia il modo di operare dei muratori nabatei, i quali costruivano dall’alto verso il basso.
Sempre da Qasr al-Bint è possibile seguire la faticosa salita sulla via per Umm al-Biyara, deviando per il tragitto che porta al monumento del serpente, un enorme masso scolpito sulla forma del rettile. Poco prima di arrivarci si incontra una casa degli dèi a guardia di grotte e tombe, ancora abitate dai Bdul. Il serpente attorcigliato a guardia del luogo sembra un vivo monito, che riecheggia la massima di Cicerone sul rispetto per le anime dei defunti: Deorum manium iura sancta sunto (“Siano rispettati i diritti dei Mani”).
Infine, il Jabal Haroun (monte di Aronne) è oggi il luogo più sacro di Petra, venerato da mussulmani, cristiani ed ebrei, quale ultima dimora terrena di Aronne. Il piccolo santuario è munito di una cupola bianca ed è un rifacimento operato dal sultano mammalucco Qalawun, nel 1459.
A Petra esistevano forse quartieri riservati ai locali, distribuiti presso le principali arterie cittadine, dove poter gestire in modo ordinato il traffico commerciale. Bir Mathkur, nel Wadi Araba, era il sobborgo che si occupava dei traffici con Gaza; Siq al-Barid, a nord, di quelli con Palestina e Siria; al-Khan gestiva i traffici da est, attraverso l’Arabia interna; a Sabra, a sud, confluivano le carovane in arrivo dal Mar Rosso e dall’Hegiaz.


Attraverso lo sguardo di Roberts


D. Roberts. Fotografia del 1844 di Hill & Adamson

Quando si parla di Petra si descrivono quasi sempre le architetture, i suggestivi giochi di luce naturali e le leggende annesse ai monumenti, tuttavia si conosce ancora pochissimo della sua storia e della effettiva funzione di ogni singolo edificio. Se poco si conosce oggi, al tempo di David Roberts la città era un mistero ancora più grande e la suggestione aveva il gusto dell’inesplorato, dell’ignoto, che è altra cosa rispetto alla scoperta del dato storico in sé, che ha certamente valore, ma in una maniera che di necessità è meno sentimentale della prima.
Per potere almeno in parte ammirare quella Petra, le guide consigliano di osservare il tesoro prima delle otto del mattino, cioè nel momento precedente all’arrivo delle comitive. Anche la diversa stagione offre varianti non di poco conto; così a maggio i wadi diventano un tappeto di fiori rosa di oleandro e tra la fauna si scorgono lucertole, serpenti e scorpioni. La visita notturna del tesoro propone ulteriori prospettive, con una serie di candele a segnare il tragitto: benché si tratti di un’invenzione recente, l’impatto è molto suggestivo e personale. Forse proprio in mancanza di un dato storico consolidato, fu proprio l’immaginazione ad incorniciare la sensibilità di Roberts per il dato umano. Troviamo così carovane senza carico in un’assolata giornata, immaginandoci i beduini riparati nelle umide caverne circostanti; due amici che si salutano con brevissimi cenni della mano, coprendo col silenzio la strada attraverso il wadi intero. O ancora incontriamo commercianti sullo sfondo di un paesaggio dai colori saturi, mentre disputano su qualcosa che presto dimenticheranno.
A distanza, Roberts era vestito da arabo, proprio come Burckhardt vent’anni prima, sebbene a seguito di minori peripezie. Viaggiò con una carovana di venti cammelli e scortato da guardie del corpo locali. Petra era la meta per eccellenza, ma il soggiorno fu più breve del previsto a causa dei conflitti tra le tribù locali.

D. Roberts, Approach to Petra.
An Ancient Watchtower Commanding the Valley of El Ghor (1839)

Negli acquerelli di Roberts non mancano solo i notturni, ma anche il giorno è incerto e il cielo sabbioso sembra indicare un’unica soluzione. In certi casi i rilievi più distanti si mescolano al cielo, mentre quelli più vicini conservano di norma un sottile contorno frastagliato. Un’altra costante è data delle rade nuvole giallognole, che tendono a confondersi con il resto dell’atmosfera e solo occasionalmente fanno trasparire un cenno di grigio a sottolineare una qualche perturbazione.
Un acquerello del 5 febbraio 1839, realizzato durante il tragitto verso Petra, reca la seguente scritta: Approach to Petra. An Ancient Watchtower Commanding the Valley of El Ghor. Ghor è arabo per “valle” ed è proprio in una depressione del terreno che emerge una antica torre di guardia, slanciata in una diagonale che accompagna l’occhio da destra a sinistra, per poi aprirsi su quel cielo simile alla sabbia. Ai piedi del rilievo che sorregge l’edificio, un gruppo nutrito di uomini e cammelli sembra pronto ad accamparsi. Le tende sono poste nelle zone d’ombra, mentre in lontananza un manipolo di uomini sui cammelli sembra occupato a svagarsi, con lunghe lance e fucili posti in verticale. La preponderante presenza di toni chiari è fortemente contrastata dalle ombre del rilievo centrale, che ai suoi piedi si conclude in uno spazio nero fumo. Nell’insieme vi è qualcosa di edulcorato; il rosso dei cappelli e il blu acceso di due giacche donano un pizzico di vivacità, che scompare presto nell’imponenza di una natura indomabile. Le piogge e la sabbia continuano in silenzio a lavorare la pietra e sulla roccia si scorgono cespugli e erbacce, pronte a frantumare il traguardo raggiunto dall’uomo con quella torre ormai rudere.

David Roberts, Petra Seen By South

Ai primi di marzo di quel 1839, Roberts raggiungeva le rovine di Petra e proseguì con il proprio lavoro. In una veduta da sud, la presenza di erbe e arbusti è ancora più evidente, con tronchi nodosi che si divincolano in una massa confusa di rami e sembrano in procinto di precipitare dalle antiche pareti. Da quel punto l’occhio scorre verso destra e incontra quattro uomini mediorientali. La coppia centrale sta discutendo a proposito di qualche problema e nella differenza degli abiti sembra di intuire che l’uomo dalla giacca blu, forse una guardia, si stia preoccupando con una probabile guida beduina in merito al percorso da seguire. Il collo arcuato in avanti, l’arma sulla mano sinistra e la posa aggressiva ne mettono in luce i modi poco ortodossi; d’altra parte, a entrambi i lati, gli altri due astanti ascoltano con notevole disinteresse e l’uomo a sinistra rimane appoggiato sui resti di una colonna scanalata, come indolenzito. Davanti a loro si presenta un corso d’acqua e sull’altra sponda altri quattro uomini quasi inglobati nel paesaggio. L’osservatore segue la linea serpentinata del fiumiciattolo, fino a perdersi con esso nelle gole sullo sfondo. Il sole è basso e il rilievo di sinistra lo nasconde in parte, ma è in fondo a destra che la luce definisce le scanalature della roccia, che sfuma a poco a poco nel cielo con notevole morbidezza.
Nella seconda metà del Settecento vi era stata una sorta di riscoperta della Svizzera, vista fino ad allora come un luogo impervio e pericoloso; negli stessi anni era nato l’alpinismo e le vedute estreme si erano susseguite spingendosi anche al gusto per il macabro e per la cronaca (come per i due dipinti di Gustave Doré sulla prima scalata del Monte Cervino, che vedeva la morte di quattro alpinisti). E se per la Svizzera si formò un “itinerario” pittorico che passava dalla vallata di Lauterbrunnen al ghiacciaio del Grindewald, a Petra accadde lo stesso fenomeno, per cui alcuni rilievi diventarono caratteristici e ci si concentrò in particolare sulla strada del Siq, su al-Khazneh e su al-Deir. Ma anziché acuire la spettacolarità con tagli diagonali, in generale le pareti rocciose presentano una linearità in verticale, che si frantuma di continuo nelle rientranze e nelle insenature scavate dall’uomo per ricavarne finestre e arcate. Roberts sembra dialogare alla pari con il paesaggio, che nel suo diario descrive con delicata e persino “sintetica” partecipazione emotiva.

Peter Birmann, Ponte del diavolo (1824)

Egli rappresentò anche l’ingresso del Siq, dove a quel tempo un arco trionfale accoglieva i viaggiatori. La cornice è volutamente approssimativa e il tratto si definisce nel mettere a fuoco due elementi distanti, gli uomini in basso leggermente a sinistra e l’arco in alto, connessi da un sentiero a forma di squadra, buio e indefinito. Dal grado di deterioramento della struttura e dalla mancanza di decorazioni, quell’arco trionfale richiama per stilizzazione un ponte posto tra due imponenti pareti rocciose. Per ricordare ancora una volta il parallelo svizzero, un altro soggetto ricorrente fu la rappresentazione dei ponti del diavolo, come quello disegnato da Turner nel 1804, in cui la forza della natura e i contrasti severi rendono giustizia al nome della struttura, ripresa nel 1824 anche da Peter Birmann con toni più calmi e sospesi.

D. Roberts, L’inizio del Siq (1839) 

Al contrario, l’arco trionfale rappresentato da Roberts, pur condividendo il tema di fondo, si discosta da entrambe i dipinti per fare emergere ancora una volta la calma e lo scorcio luminoso. Non mancano increspature sentimentali, ma sono controllate da contorni ben marcati. L’unica esplicita concessione risiede nell’uomo di spalle che sembra soccorrere il compagno, appena più basso, porgendogli la mano o una brocca d’acqua. In qualche modo, anche quella di Roberts fu un’idealizzazione del mondo “primitivo” dei beduini, che pure non mancavano di rendere quella zona pericolosa a causa dei loro continui conflitti. Eppure i suoi acquerelli non nascosero la realtà, la descrissero nelle pieghe della roccia, nei monumenti e nei gesti dei suoi compagni di viaggio. Interpretarono quella realtà alla luce di un modo di vivere non perfetto, ma decisamente più umile e dimesso di quello occidentale, le cui coordinate esistenziali erano continuamente rimesse in discussione.

Ponte degli Immortali, Huangshan. Fotografia di Heloisa Werner

L’inizio del Siq era per l’europeo di allora un passaggio catartico, un’introduzione ai misteri che l’uomo moderno sembrava aver dimenticato. Fu l’accesso ad una realtà spirituale ancora presente, in un cammino che dalle gole di Petra si sarebbe potuto spingere ancora più ad Oriente, fino ai cinesi monti Huangshan, dove da più di cinquecento anni si innesta il “ponte degli Immortali”, il più alto del mondo, che apre la strada a quei viaggiatori desiderosi di vedere il sole sorgere da una posizione privilegiata, pronto ad illuminare le gole del Siq e quelle svizzere della Schöllenen. Uno dei percorsi per raggiungere il ponte è stato nominato “Porta Celeste a Sud” e il nome non è che un richiamo al segreto celato dietro quel velo che solo la volontà di conoscere e la determinazione possono squarciare.

Frederic Edwin Church, El Khasne Petra (1874)

Attraversato il Siq, infatti, Roberts si ritrovò di fronte al tesoro del Faraone. Era il 7 marzo quando disegnò due vedute, una frontale, l’altra parziale, con uno scorcio di profilo del colonnato. Le sculture della facciata appaiono in parte distrutte a causa della follia iconoclasta e l’imponenza delle figure in basso a destra non hanno più la forza di imporsi sulle sottostanti figure umane, concentrate sui propri affari e armate di lunghi fucili. In cima ai frontoni che incorniciano un capitello corinzio sormontato da una doppia sfera, si intuiscono le forme di due grandi aquile, simbolo di Dushara, la principale divinità nabatea, assimilabile a Giove. La figura centrale, scolpita sul tholos circolare sotto l’urna, sarebbe al-Uzza, equivalente dell’Iside egizia: il petto è nudo e il busto si muove con leggera sinuosità verso destra; dal bacino scende una toga che si allarga fino al gomito sinistro, come ad avvolgere la cornucopia. Nelle nicchie laterali, invece, sono presenti due vittorie alate, in una posa solenne, smorzata soltanto dalla posizione aperta delle braccia, che suggeriscono potenza e dinamismo. Altre quattro figure non ancora identificate sono presenti tra le coppie di colonne corinzie; armate di ascia nelle mani destre che si alzano sopra le teste, nella sinistra reggono un libro aperto, mentre le vesti si agitano ai lati delle figure suggerendo la gravità del pericolo. Gli uomini posti in basso, invece, sarebbero i Dioscuri, ma il cattivo stato di conservazione rende difficile l’identificazione. Due gruppi di tre colonne sembrano reggere la struttura, ma in realtà non sostengono alcun peso, poiché l’intera architettura è una sorta di enorme incisione nella roccia. Siamo infatti abituati a vedere tutte e sei le colonne, ma come si nota dalle opere di Roberts, durante la sua visita la terza colonna da sinistra era distrutta e solo in seguito fu sostituita con una in mattoni e stucco. Il frontone, infine, presenta ricche decorazioni animalesche e arabeschi, mentre ai lati due belve feroci sono poste a guardia del complesso.

D. Roberts, Partial View of al-Khazneh

Nel suo Essai sur l’art, Boullée sostenne che l’architetto derivi la sua arte dalla Natura, di cui si serve per esprimersi. Sotto il velo apparente di quella Natura esisterebbe una struttura ordinata e regolare e il Bello risiederebbe nella nostra capacità interiore di organizzarla e di renderla armonica. Coloro che realizzarono al-Khazneh ebbero certamente una vista nitida di quella parete rocciosa e seppero trovare il metallo prezioso imprigionato nella nuda pietra.

D. Roberts, al-Khazneh, Seen From the Siq 

Il 7 marzo Roberts non si fermò al tesoro e in quel giorno e in quello seguente realizzò alcune vedute delle tombe reali. Per Boullée gli edifici potevano essere paragonati alle stagioni: architetture dal carattere autunnale come i teatri risultavano pittoresche; altre invernali, come i cimiteri, avevano proporzioni basse e sprofondate. Egli sostenne di aver inventato l’“architettura delle ombre”: una superficie piana, senza decorazioni, la cui materia assorbiva la luce e tutto l’effetto notturno era dato da giochi di ombre sempre più scure. Di fronte a questa descrizione, le tombe reali di Petra appaiono distanti anni luce e lungi dal perdersi nel terreno si ergono in verticale con il consueto sostegno dei rilievi circostanti. È qui che Roberts mette in evidenza alcune sfumature rosate nelle architetture, mentre la sottile erbetta che ricopre le rocce assume un colore giallognolo delicato ma consistente. Le tombe reali hanno dinanzi uno spazio aperto, non sono affatto nascoste o recintate da muri che separino di netto i vivi dai morti. Nelle strade di Petra, infatti, l’architettura invernale è presente tanto quanto quella estiva; la vita pubblica e privata e gli scambi commerciali e culturali si svolgevano alla luce del sole e gli antenati potevano assistere ad ogni cosa ed essere sempre presenti in ogni evento della comunità. Così ben si adattano le parole di Ugo Foscolo nel Dei sepolcri:

A egregie cose il forte animo accendono
l’urne de’ forti, o Pindemonte; e bella
e santa fanno al peregrin la terra
che le ricetta.

 D. Roberts, The Royal Tombs

Principale luogo di culto dei Nabatei, Qasr al-Bint al-Pharaun in origine era alto più di venti metri, con scalinate in marmo e imponenti colonne. Oggi rimane ben poco di quella grandezza e la rappresentazione di Roberts lo dimostra. Il sole fatica a penetrare nella valle e metà della veduta è in controluce. Le numerose rovine sono in lontananza, appesantite dal tempo, e le figure umane in primo piano mostrano totale disinteresse per quei resti, che conservano l’ignaro affetto delle cose domestiche alle quali siamo abituati. Qui la storia, recente e remota, si abbandona al dialogo quotidiano e non rimane altro che la bellezza selvaggia, la potenza di una natura dominante con la quale è necessario scendere a patti. Se oltreoceano i pittori della scuola del fiume Hudson traevano ispirazione da un’analoga natura selvaggia e artisti come Frederic Remington contribuirono a creare la mitizzazione dell’epopea del Far West, a Petra Roberts offrì altrettante suggestioni, che ispirarono come nelle Americhe la letteratura e in seguito anche il cinema (si pensi per esempio al Graal conservato nel tesoro di Petra in Indiana Jones e l’ultima crociata, diretto da Steven Spielberg).

D. Roberts, The Place Tomb and the Other Royal Tombs

Datata sempre 8 marzo, la facciata di al-Deir ricorda per certi versi quella del tesoro. Disposto su due piani, il cosiddetto “monastero” si distingue però per l’assenza di decorazioni e di un imponente frontone. Ciò nonostante, la ricchezza di elementi architettonici si impone di per sé e in questo caso il piccolo tholos centrale del piano superiore fa da appoggio ad una struttura elaborata che si staglia nel cielo. La prospettiva scelta da Roberts pone l’osservatore “in sicurezza”, su un’altura, in modo tale che non vi sia quella sensazione di fragilità umana dinanzi alla Natura e alle opere degli antichi. Al contrario, ancora una volta, cinque uomini sulla destra parlano tra di loro in totale tranquillità, in netto contrasto con le figure umane in lontananza, poste ai piedi dell’edificio sacro. D’altra parte quei minuscoli personaggi fanno da specchio agli edifici presenti sullo sfondo a destra, laddove si apre la vallata. Entrambi, uomini e monumenti, appaiono grandi e insignificanti a seconda del punto di vista dell’osservatore.

D. Roberts, al-Deir

Forse con quell’ultima faticosa salita David Roberts portò a termine il suo breve viaggio a Petra. A sera, dopo aver osservato così a lungo le rovine e le persone che le attraversavano, fu forse invitato in una tenda da quegli stessi beduini che lo avevano accompagnato. Entrando vide subito un enorme piatto al centro dell’ambiente; alla base del riso sottile, sopra la carne di agnello ricoperta dal brodo, da una ricca manciata di uva sultanina e dallo yogurt ricavato dal jameed. Divenuto soggetto a sua volta, prese il mansaf con le mani e gustò la sincera ospitalità beduina. Questa volta, al chiaro di luna.

La luna brillava di uno splendore che è possibile vedere solo nei paesi dell’est, e le montagne sembravano più solenni e misteriose rispetto al giorno, tanto che mi costò un certo sforzo dell’immaginazione pensare di trasferirle nella mia cara terra; ma questa illusione fu rapidamente dissipata dalle figure distese degli Arabi dormienti.
[Tratto dal diario di viaggio di Roberts, in data domenica 3 marzo 1839]

D. Roberts, The Acropolis and Qasr al-Bint al-Pharaun

Il viaggio di David Roberts non si fermò peraltro alla sola Petra. Ricevuto il 16 maggio 1839 dall’ufficiale rivoluzionario Muhammad Ali Pasha, alle soglie della seconda guerra egizio-ottomana (1839-41), tornò a Londra poco tempo dopo. Nel suo tour mediorientale, oltre all’Egitto e alla Giordania, Roberts visitò la Nubia, il Sinai, la Terra Santa e il Libano. Al suo ritorno, l’artista Robert Scott Lauder ne fece un ritratto in abiti mediorientali; in Scozia fu accolto con calore e fu ospite d’onore in una cena del 19 ottobre 1842, alla quale presiedette Lord Cockburn, scrittore ed ex procuratore generale di Scozia. Roberts aveva raggiunto il culmine del proprio successo.
In questa fase (1842-49), lavorò con l’incisore belga Louis Haghe, per produrre le tavole riccamente illustrate degli Sketches in the Holy Land and Syria, 1842–1849 e di Egypt & Nubia, basandosi sugli acquerelli del pittore. L’esposizione delle litografie fu accompagnata da un grande successo di critica.

D. Roberts, Il tempio di Dendera (1841)

Con una certa dose di “imprenditorialità” americana, finanziò il lavoro attraverso abbonamenti anticipati che sollecitò in prima persona. Roberts colse nel segno: lo scenario mediorientale, spesso più idealizzato che reale, era allora di moda in Occidente, ma di rado gli artisti britannici lo avevano affrontato con la giusta incisività. Roberts arrivò ad avere ben quattrocento impegni di abbonamento, vantando anche l’interessamento della regina Vittoria (la sua serie completa fa ancora parte della Royal Collection). Oltretutto, Roberts riuscì a pubblicare i volumi poco prima che le fotografie di quei siti mediorientali fossero disponibili. In fin dei conti, quale sorta di pioniere a Petra, questo successo fu un meritato riconoscimento.

D. Roberts, Isola di Graia, Golfo di Akabah (Arabia Petraea, 1839)


Il ritorno e gli ultimi anni


D. Roberts, Il Palazzo Ducale di Venezia, visto dal bacino di San Marco (1853)

I viaggi, ad ogni modo, non erano ancora conclusi. È curioso notare come prima di visitare l’Italia, Roberts optò innanzitutto per il Medio Oriente, a differenza di altri artisti come lo scozzese Robert Adam, che dall’Italia si spostò a Spalato, dove rimase affascinato dal palazzo di Diocleziano, oppure come l’antiquario Robert Wood, che pubblicò Ruins of Palmyra e Ruins of Baalbec. Questi ultimi erano luoghi in cui le tracce della presenza romana si mescolavano ad un altro gusto, che non era affatto ibrido, bensì originale. Fu così che solo nel 1851 e nel 1853 Roberts si recò in Italia, dove dipinse il Palazzo Ducale di Venezia (acquistato da Lord Londesborough), gli Interni della Basilica di San Pietro a Roma nel Natale del 1853 e Roma dalla chiesa di Sant’Onofrio al Gianicolo (donato alla Royal Scottish Academy). Il suo ultimo volume di illustrazioni, Italy, Classical, Historical and Picturesque, fu pubblicato nel 1859.

D. Roberts, L'inaugurazione della Great Exhibition. 1 maggio 1851 (1854)

Per ordine della regina Vittoria, eseguì una foto dell’apertura della Great Exhibition (1851) e in seguito dipinse sempre per lei L’inaugurazione della Great Exhibition: 1 maggio 1851, esibita nel 1853 alla Royal Academy e in cui compare sulla sinistra la statua equestre della sovrana. Eletto infatti associato della Royal Academy (1839), ne era divenuto membro a pieno titolo nel 1841. Nel 1858 gli furono inoltre consegnate le chiavi della città (Freedom of the City) di Edimburgo.

D. Roberts, Edimburgo vista da Calton Hill (1858)



Negli ultimi anni si concentrò sulle vedute di Londra e del Tamigi. Ne aveva eseguite sei ed era al lavoro su una veduta di St Paul’s Cathedral, vista da Ludgate Hill, quando morì improvvisamente per un ictus. Collassò su Berners Street, nel pomeriggio del 25 novembre 1864, e morì quella sera stessa nella sua abitazione, all’età di sessant’otto anni. Da semplice imbianchino, Roberts si era imposto con la propria determinazione. Produsse opere apprezzabili in un contesto ormai codificato, ma la sua esperienza di vita e la sua produzione artistica rimangono un esempio significativo di quanto l’impegno personale e le occasioni offerte dall’ambiente sociale di riferimento possano, per così dire, trasformare una pietra grezza in materiale utile alla costruzione. Figlio di un calzolaio, imbianchino senza alcuna formazione accademica, Roberts raggiunse obiettivi eccezionali, passando dalla tournée con il circo in giovinezza ad un tour mediorientale che gli valse una notevole visibilità.

D. Roberts, Il Palazzo di Westminster da Millbank (1861)

Se molti artisti, intorno alla prima metà dell’Ottocento, scelsero di allontanarsi dal “modello mediterraneo” (rappresentato dalla Grecia arcaica) per un primitivo ricercato prima di tutto nei Paesi nordici, David Roberts dalle colline scozzesi scese fino alle dune dei deserti egiziani e giordani, per ricercare quello stimolo visivo che solo la vista diretta, unita alle emozioni del momento, può far scaturire. Egli fu un artista venuto dal “popolo”, nel significato più generale e apolitico del termine, e a quella grande massa si rivolse in modo spontaneo, senza eccessi e con una serena e cosciente spontaneità, che lo fece notare dall’aristocrazia.
I soggetti e le ambientazioni orientali erano ormai di moda e destinate ancora ad una lunga fortuna; Roberts si ispirò a quel filone orientalista, ma con un certo contegno formale e un interesse quasi esclusivo per il puro dato ambientale.
Altri artisti, in quel periodo, furono infatti più interessati alla figura umana o alla pittura storica o pseudo-storica. I Re Magi furono uno dei primi soggetti ad essere rappresentati nell’arte occidentale con caratteristiche mediorientali, sebbene non sempre storicamente o geograficamente fedeli. Al contrario, le altre scene bibliche presentavano figure e contesti sempre più standardizzati, ben lontani da una seria ricostruzione “filologica”. In questo scenario vi furono comunque delle eccezioni, consolidatesi tra il Settecento e l’Ottocento, in concomitanza con la riscoperta archeologica e la mutata sensibilità, tanto illuministica quanto romantica. Furono infatti ritratti anche soggetti contemporanei provenienti dal mondo orientale, con una frequenza e una cura per il dettaglio “storico” nuove rispetto ai precedenti rinascimentali (è il caso del ritratto equestre di Théodore Chassériau, intitolato Ali-Ben-Hamet, califfo di Costantinopoli e comandante di Haractas, seguito dalla scorta). E Jean-Étienne Liotard, che aveva visitato Istanbul e disegnato diverse scene di interni domestici turchi, rimase affascinato da quella cultura a tal punto che continuò a vestirsi da mediorientale anche in Europa per diverso tempo, come peraltro fecero altri gruppi collegati al filone “primitivista”. Ricordiamo un caso eclatante come quello di Périé de Senovert, un allievo di David che si vestiva alla greca per le strade di Parigi; un personaggio eccentrico, per lo più deriso dai parigini.
Da parte sua, lo scozzese Gavin Hamilton cercò una soluzione al “problema” dell’abito moderno, considerato non eroico e poco elegante, utilizzando i costumi antichi nella pittura storica di ambientazione mediorientale. Il suo James Dawkins e Robert Wood scoprono le rovine di Palmira (1758) elevò il turismo all’eroico, con i due viaggiatori che indossano delle toghe, aprendo la strada alla vera e propria epopea del Middle East, che anticipò quella americana del Far West.
Se a Roma i viaggiatori si facevano ritrarre vicini ai monumenti e ai luoghi di interesse mondani, chi raggiungeva il Medio Oriente non era da meno. Liberatisi dalle costrizioni sociali del proprio Paese, questi viaggiatori si fecero ritrarre con abiti esotici in ambienti spesso poco indicati per persone considerate “rispettabili”. Il ricordo si sposta senza dubbio su figure come Lord Byron, ma persino su Madame de Pompadour, che curiosamente non aveva mai lasciato l’Europa. Proprio Lord Byron rivestì un ruolo di primo piano nell’affascinare le menti occidentali più libertine o anche solo più libertarie, che nella “fuga dalla realtà” videro un antidoto ideologico alla monarchia assoluta. Ciò nonostante, l’interesse per l’Oriente fu trasversale e interessò tanto le aristocrazie quanto la borghesia.
In questo quadro – come è noto – l’occupazione napoleonica dell’Egitto accentuò l’interesse pubblico per l’Egittologia. Celebri i dipinti di Bonaparte che visita i lebbrosi di Giaffa (1804), La battaglia di Abukir (1806) e Napoleone alla battaglia delle Piramidi (1810). Nello stesso periodo, tra il 1809 e il 1828, il governo francese pubblicò inoltre i venti volumi illustrati de La descrizione dell’Egitto. Per Eugène Delacroix, uno dei primi grandi successi fu un’opera a tema orientale, Il massacro di Scio (1824), dipinto prima di visitare la Grecia e il Medio Oriente, le cui tinte chiare divengono sempre più una costante per quel genere di ambientazione e che lo stesso Roberts utilizzò ampiamente. E pochi anni prima, Théodore Géricault ampliò gli orizzonti con La zattera della Medusa, un fatto di cronaca extraeuropeo che richiamava non solo un filone sensazionalista (con opere come Watson e lo squalo di J. S. Copley), ma appunto anche il fascino per i luoghi lontani e per le cronache di viaggio.
A quel tempo, peraltro, anche la più vicina Grecia conservava un fascino orientale, sebbene si trovasse in un momento storico in cui cercava di affrancarsi proprio dalla dominazione ottomana. Delacroix dipinse così La Grecia spirante sulle rovine dei Missolungi (1827), commemorando un assedio dell’anno precedente, nonché La morte di Sardanapalo, ispirata da Lord Byron. Il fascino per l’Oriente si incentrava su una mistura di sessualità, violenza, lascivia unita ai tipici luoghi esotici. Delacroix fu interprete di questo fenomeno: visitò l’Algeria e il Marocco, la prima conquistata da poco dai francesi, il secondo nel contesto di una missione diplomatica. Egli non si limitò a rappresentare uno stile di vita fine a se stesso, ma lo idealizzò mescolando tratti dei costumi romani con tratti della cultura araba e nordafricana (Donne di Algeri nei loro appartamenti).
Nello stesso filone, Il bagno turco di Ingres segnò forse l’apice della sensualità e quasi un sigillo alla rappresentazione ideale del Vicino Oriente. Il suo pupillo, Chassériau, ebbe altrettanto successo con il nudo Il bagno di Esther (1841), dipinto ancora prima di visitare il Medio Oriente. Ma ad ogni modo, al di là del dato esotico, sensuale e ricco di colori, queste opere conservavano un innato orizzonte stereotipato.
L’interesse inglese per i territori ottomani fu altrettanto intenso, pur distinguendosi nella forma. Il pittore di genere Sir David Wilkie aveva cinquantacinque anni quando nel 1840 viaggiò ad Istanbul e Gerusalemme, morendo nei pressi di Gibilterra durante il viaggio di ritorno. Il suo intento, di matrice protestante, era di analizzare l’iconografia sacra cristiana nel contesto di origine di quel credo per averne una visione meno codificata.
Il preraffaellita William Holman Hunt e David Roberts ebbero motivazioni molto simili e le loro opere esprimono un interesse realistico per l’ambiente rappresentato, pur con una certa enfasi nel focus di luce e nella teatralità prospettica. Tra i soggetti biblici di Hunt troviamo Il capro espiatorio (1854-6), L’ombra della morte (1873) e Il miracolo del Fuoco Sacro (1892-99), quest’ultima una satira alla William Hogarth che colpiva gli ortodossi.
Hunt si dedicò anche a scene più dimesse. In Una scena di strada al Cairo. Il corteggiamento del lanternaio (1854-61), l’artista rappresentò un momento di vita quotidiana, con l’intrusione di un occidentale sulla scena e un minore interesse per la ricostruzione dei particolari, in nome del pittoresco. Diverso l’approccio di John Frederick Lewis, che visse al Cairo per diversi anni e dipinse con forte realismo le scene di genere mediorientali. La cura con cui rappresentò l’architettura e gli arredamenti islamici segnò l’inizio di un nuovo standard di realismo, che non mancò di influenzare artisti come Gérôme, nei suoi ultimi lavori.
Altri artisti si concentrarono più spesso sulla pittura di paesaggi, con particolare attenzione ai deserti: tra di loro troviamo Richard Dadd, Edward Lear e appunto David Roberts. Quest’ultimo, peraltro, non escluse la figura umana e gli attribuì anzi una specifica funzione. A Petra non comparivano più gli eroi e le statue delle divinità avevano i volti sfigurati, o erano ancora sepolte oppure annientate dal tempo. In quelle gole non si trovavano eroi, ma solidi mercanti, sopravvissuti ai millenni e che agli occhi di Roberts apparvero come sovrani incontrastati a ridosso di quei troni di pietra ormai troppo grandi anche per loro, che ne erano gli eredi ideali.
Le sue raccolte di disegni includevano il termine sketches, a designare dei veri e propri racconti narrati per episodi, per scene, con beduini intenti a misurarsi tra di loro nella semplicità dei gesti. In questa teatralità, frutto del gusto dell’epoca ma anche del passato lavorativo di Roberts, si inseriva anche il termine picturesque, riferito a qualcosa di caratteristico e rappresentato in maniera espressiva, talvolta con colori saturi, altre con toni delicati e impalpabili. Forte di una tradizione inglese di questo genere, Roberts preferì quei colori tenui e fu in grado di renderli pungenti nel contrasto di luci e ombre, particolarmente naturale e sottile nelle rappresentazioni di Petra.
Se nel Neoclassicismo l’espressione delle figure tendeva ad essere il più possibile posata, cogliendo l’attimo precedente o successivo allo scatenarsi delle passioni, in quella stessa corrente artistica vi fu sempre una dialettica tra lo “spirito” sublimato e la passione incipiente, che spesso sfociò in un annullamento della seconda. Un pensatore “neoclassico” come Goethe affermò che l’ideale è ciò che si vede con l’immaginazione e che l’arte classica si possa definire la forma più elevata di naturalismo. Ma che cosa accade se l’immaginazione ci mostra un conflitto, anziché una sua soluzione di livello “superiore”? La risposta sembra essere proprio in quella dialettica tra spirito e ragione, nella quale si inserisce la passione, elemento destabilizzante di quell’armonia. Goethe riprese un’immagine efficace quando descrisse Morte e Sonno come fratelli gemelli che spesso si confondono. Questa era una parte della bellezza degli antichi; non più scheletri o clessidre, ma urne composte e verticali; serpenti avvolti nelle proprie spire sulle tombe di Petra, là dove dormono gli antichi e coloro che ne conservano il ricordo. Roberts ebbe appunto il pregio di far notare il dialogo tra l’architettura naturale e quella umana e – non meno importante – tra quel sistema uomo-natura e l’essere umano comune, fosse esso un beduino del luogo o un viaggiatore occidentale in cerca di risposte.
D’altra parte già Diderot aveva colto questa esigenza, affermando che l’arte dovrebbe unire entusiasmo e riflessione, un binomio che riprende quello citato dello spirito (l’etimologia di entusiasmo rimanda al concetto di “pieno di un dio”) e della ragione (la riflessione è un’analisi della mente, che è pensiero, quindi misura), sebbene il primo termine fosse spesso mascherato da molti illuministi che vedevano nell’irrazionale qualcosa di pericoloso. Da cui le caratteristiche proprie del Neoclassicismo e del Romanticismo, risposte speculari alle questioni del presente e rifiuto di una materialità il cui emblema – la macchina – stava sconvolgendo il tessuto di un intero sistema. In entrambe le esperienze artistiche, la mitica età dell’oro si rivelò però per quello che era: un mito, ma non nel suo valore di racconto “pedagogico” o “psicologico”, bensì nella forma di uno strumento con cui organizzare il presente e volgerlo al futuro con coscienza del tempo (ragione, misura) e dell’infinito (spirito, immanenza).
Infine, ciò che ancora emerge in artisti come Roberts è proprio la tendenza a rispondere ai sintomi del proprio tempo prendendo come modello quella realtà che meno conoscono storicamente, scientificamente, e che quindi permette una realizzazione di più ampio respiro artistico, che esca dalle maglie del tempo e si renda eterea, se non propriamente eterna. Dove con etereo si intende qualcosa di pertinente al cielo, di limpida bellezza e diafana certezza, anziché quei fasti grossolani di una narcosi eterea destinata a sopprimere ogni sensibilità. E dalla presunta ragione, o dalla passione incontrollata, generare chimere.


Bibliografia


° Ballantine J., The Life of David Roberts R. A. Compiled from Robert’s journals and other sources with etchings and pen-and-ink sketches by the artist, A & C Black, Edinburgh, 1866
° Bourbon F., Petra. Guida archeologica a Petra: storia, civiltà, monumenti, Magnus, Giordania, 2014
° Clammer P., Walker J., Giordania, EDT, Torino, 2015
° Greenway P., Ham A., Giordania, EDT, Torino, 2003
° Honour H., Neoclassicismo, Einaudi, Torino, 1968
° Pinelli A., Il Neoclassicismo nell’arte del Settecento, Carocci, Roma, 2005
Id., Primitivismi nell’arte dell’Ottocento, Carocci, Roma, 2005
° Praz M., Gusto neoclassico, Rizzoli, Milano, 1974
° Teller M., Giordania, Feltrinelli, Milano, 2013
° Touring Club Italiano, Giordania. Amman, Petra, Jarash, Aqaba, i castelli del deserto e il Mar Morto, Touring Club Italiano, Milano, 1994

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