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Visualizzazione dei post da luglio, 2023

Guerra, tempo e umanità in Mattatoio n. 5

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  Copertina della prima edizione A Dresda, durante la seconda guerra mondiale, i prigionieri americani vennero condotti allo Schlachthot-Fünf, il Mattatoio n. 5 ( Slaughterhouse-Five , 1969) di Kurt Vonnegut. Un titolo alternativo dell’opera allude alla crociata dei fanciulli dell’epoca medievale, con giovani che finirono in schiavitù o che morirono di stenti in nome di una profezia truffaldina. Vonnegut paragona i soldati a uomini-bambini, gettati in qualcosa di più grande di loro – la guerra – tanto tragica da risultare inesprimibile, se non attraverso la maschera dell’ironia. Nel romanzo ci sono elementi autobiografici: a ventidue anni, l’Autore venne fatto prigioniero nella battaglia delle Ardenne e condotto proprio a Dresda. Era presente quando avvenne il bombardamento che rase al suolo la città nel febbraio 1945, provocando circa venticinquemila vittime civili. La voce del narratore – come dice egli stesso – può essere associata a quella dello scrittore. Il protagonista, B

Malpertuis. Divinità logorate dalla modernità

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Copertina dell'edizione 2022 dell'Agenzia Alcatraz Per cominciare, occorre porsi una domanda: chi era Jean Ray, autore definito il “Poe belga”? Jean Ray è uno degli pseudonimi di Raymundus Joannes de Kremer, scrittore fiammingo vissuto dal 1887 al 1964. Originario di Gand, non completò gli studi universitari e cominciò a lavorare nell’amministrazione del comune. Negli anni Venti, entrò nella redazione del Journal de Gand. Il primo racconto pubblicato, Les Contes du Whisky , risale al 1925. L’anno successivo, fu condannato a sei anni di carcere con l’accusa di appropriazione indebita: scontò due anni. In quel periodo, scrisse i racconti lunghi The Shadowy Street e The Mainz Psalter . Rilasciato nel 1929, lavorò senza sosta, anche per la nota rivista Weird Tales . Era poi appassionato dei testi di Arthur Conan Doyle , noto spiritista nella sua epoca, e venne così assunto da un editore belga per tradurre dall’olandese una serie di thriller polizieschi, che erano stati presentati c

The Shining come romanzo-confessione di King

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  Copertina della prima edizione Stephen King deve al suo terzo romanzo, The Shining (1977), il proprio consolidamento come scrittore, non solo horror. Il libro è noto per essere stato adattato da Stanley Kubrick in un film del 1980 e – fatto forse meno noto – in una trascurabile miniserie televisiva del 1997. La trama riprende l’archetipo del luogo isolato nella natura, difficile da raggiungere, dove accadono cose indicibili. Jack Torrance è uno scrittore ed ex insegnante, che ottiene un posto come custode fuori stagione dell’Overlook Hotel, situato nelle Montagne Rocciose del Colorado. Jack sta tentando di liberarsi dalla dipendenza dall’alcool e di recuperare un buon rapporto con il figlio Danny e con la moglie Wendy. I due lo accompagnano in questa avventura stagionale, in cui Jack rimane sempre più influenzato dalle forze soprannaturali che abitano l’hotel e che mirano a impossessarsi del figlio, dotato dello shining , l’aura, che si traduce in una serie di abilità psichiche.

Psycho, il romanzo di Bloch a torto trascurato

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Il problema del romanzo Psycho (1959) di Robert Bloch, considerabile un classico contemporaneo, è analogo a quello di Rosemary’s Baby di Ira Levin: c’è un prima e un dopo i film tratti dalle loro opere. A differenza di The Shining , dove libro e film viaggiano su binari paralleli staccatisi da un’unica fonte – il soggetto – con Bloch è più difficile una lettura che non porti a immaginare i personaggi e i luoghi attraverso il filtro di Hitchcock. Ed è un peccato, perché questo romanzo breve è una piccola perla, un equilibrio perfetto tra intreccio, ritmo incalzante e allusività.   Come in Rosemary’s Baby , anche qui si parla dell’orrore che si cela dentro persone all’apparenza comuni. Nell’opera di Levin, era la protagonista a provenire da una zona di provincia e – si lascia intendere – è la diabolica metropoli a trasformare quella “brava ragazza”. Ecco, Bloch ci dice che nemmeno nelle cittadine con pochi abitanti, dove si conoscono tutti e tutti si salutano al mattino, c’è po

Untitled. Un viandante nella città di K.

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  Ungherese di nascita, svizzera d’adozione, Ágota Kristóf aveva un padre insegnante di scuola elementare e una madre professoressa d’arte. A ventun anni, a seguito della rivoluzione anticomunista del 1956, lasciò il suo Paese e giunse, infine, nella città svizzera di Neuchâtel, dove si trasferì con la figlia di quattro mesi e con il marito, suo ex insegnante di storia al liceo. Dopo cinque anni difficili, scelse di lasciare il marito e il lavoro in una fabbrica di orologi. Studiò il francese e si diede alla scrittura in quella lingua. Kristóf aveva già scritto i primi testi in Ungheria, ma fu nel 1986 che si fece notare con Le grand cahier ( Il grande quaderno ), principio della Trilogie des jumeneaux (in Italia nota come Trilogia della città di K. ), che prosegue con La preuve ( La Prova , 1988) e Le troisième mensonge ( La terza menzogna , 1991). Il primo romanzo le è valso il premio europeo per la letteratura francese; nel 2001, in Svizzera, ha vinto il Gottfried Keller Awa