Manifesto per il ripristino della distinzione tra autore e fruitore
Ivan Stepanovich Ivanov-Sakachev, A Student of Art History (1972) |
Questo post sarà
particolarmente breve rispetto alla lunghezza media dei miei articoli, ma spero
– in poche righe – di portare l’attenzione su alcuni aspetti centrali nel
rapporto tra autore, lettore e opera letteraria.
Qual è la
questione? Le seguenti considerazioni muovono dal fatto che spesso ci si
ritrovi a leggere i commenti dei fan di una determinata saga o di un certo
autore e che questi vertano su come l’autore “avrebbe dovuto scrivere” una
certa parte del suo libro.
Questa tendenza
a voler dire che cosa uno scrittore dovrebbe fare per rendere la sua opera
migliore si può definire con l’espressione “dittatura del lettore”, oppure – in
termini meno aggressivi e più consumistici – “il cliente ha sempre ragione”.
Ma il fatto è
proprio questo: il lettore che pretende di sapere che cosa sarebbe meglio per
un’opera che non ha creato non è un consumatore. Non possiede l’opera per il
fatto stesso di averla acquistata; non ha alcuna autorità specifica per poter
interpretare arbitrariamente le intenzioni altrui, adeguandole alle proprie
aspettative sovrane. Ma soprattutto non è un cliente da dover accontentare.
Analizziamo un altro
aspetto simile: molti lettori hanno la tendenza a dire “che per l’impatto che
una certa opera ha avuto nell’immaginario collettivo, non sia possibile che l’autore
agisca su di essa (in possibili sequel o riedizioni) senza tenere conto del
pubblico”. Ma, ancora una volta, il lettore non solo non è un cliente, ma unendosi
ad altri lettori non costituisce un pubblico. La lettura è un fenomeno quanto
mai soggettivo, anche quando questa si esprime in forme condivise.
Forse ciò sembrerà
più chiaro facendo l’esempio della poesia. Nel corso del Novecento, una
caratteristica comune a praticamente tutti i grandi poeti è di non essere stati
in grado di mantenersi con la sola produzione poetica. Spesso furono anche
romanzieri, traduttori, giornalisti, bibliotecari, registi (in Italia, p. es.
Pavese, Pasolini, etc.); altri svolsero addirittura mestieri
tecnico-scientifici (sempre in Italia, p. es. Gadda e Levi).
Perché dunque
scrissero poesie, se questo non solo non li faceva guadagnare abbastanza, ma al
principio poteva essere per loro anche un costo (per l’autoproduzione)? Perché
non si rivolgevano a un pubblico e nemmeno a un cliente. Scrivevano per loro
stessi e, nel caso dei grandissimi autori, all’umanità, intesa in modo diverso
da caso a caso: quell’entità sfuggente e astratta a cui ognuno di noi sente di
far parte o dalla quale desidera prendere le distanze.
E, sempre nel
Novecento, ritroviamo scrittori che, una volta ottenuto il successo, fecero di
tutto per starne alla larga, per evitare il pubblico che tanto li osannava.
Pensiamo almeno a Jack Kerouac, a J. D. Salinger, a Philip Larkin. Uno potrebbe
anche obiettare che questi autori rientrano in una particolare grande categoria
post-bellica che li caratterizza per questa volontà di fuga dalla società
borghese-consumistica.
In realtà, però,
anche altri scrittori più recenti si distinguono per un certo grado di distacco
dal grande pubblico, persino nell’era dei social. Pensiamo p. es. a Stephen
King: il maestro dell’horror è molto attivo su Twitter e scrive soprattutto di
arte in senso esteso e di politica; tutti hanno bene o male un’idea di che cosa
pensi riguardo a certi argomenti, tuttavia le sue interviste sono abbastanza
rare e al contempo significative. Quando si tratta di parlare della sua arte, King si prende il proprio
tempo e solo in seguito espone le proprie idee.
C’è dunque un
personaggio pubblico, che potremmo dire corrisponda allo scrittore-uomo-comune,
e c’è poi l’artista. E quest’ultimo non ha molta voglia di essere costantemente
sottoposto alle luci dei riflettori. Questo perché i lettori, soprattutto i fan
più accaniti, quelli che spendono soldi per ogni singola pubblicazione o gadget,
sono anche i più intransigenti (d’altra parte il termine “fan” non rimanda ad
altro che a “fanatico”). Il loro investimento di tempo, sentimenti e risorse è
talmente elevato che un’opera di fantasia costituisce per loro una realtà
spesso alla pari o più attrattiva di quella in cui vivono quotidianamente.
Costruiscono una
rete di certezze intorno ai personaggi, ben oltre quello che l’autore ha
scritto o ha lasciato anche solo intendere. Costruiscono corrispondenze nei
testi nelle quali si identificano, avvicinandosi nei comportamenti agli
estremisti religiosi, convinti di possedere l’unica chiave interpretativa
possibile, l’unica verità. Quegli estremisti che sarebbero capaci di dire a
Gesù: “Ma tu non ci avevi mai detto di vivere nella povertà, abbandonando ogni
bene”. E che nella versione del lettore rivolto all’autore si traduce in: “Tu non
hai il diritto di trattare i tuoi personaggi come ti pare e piace”; oppure “Non
hai capito davvero la profondità del personaggio che hai creato”.
Si potrebbe
continuare con simili assurdità, ma ho anticipato che sarei stato breve e –
spero – incisivo con queste parole. Per cui è il caso di fissare almeno alcuni
punti chiave.
Ogni libro più o
meno noto, persino ogni classico della letteratura ha elementi illogici per
cui, in loro assenza, la storia si potrebbe chiudere in poche righe. Penso ai
romanzi di J. R. R. Tolkien, di J. K. Rowling, etc. Questa illogicità è
inevitabile, perché esiste in funzione della storia e del suo messaggio più
profondo. Un’opera letteraria generalmente si pone un grande (in)conscio
interrogativo: “Che cosa sarebbe se…?”. E da qui elabora un discorso, che si evolve
in una storia.
Spesso leggiamo
un libro o guardiamo un film o una serie tv pensando che se i personaggi
avessero fatto in un certo modo tutto si sarebbe risolto prima. Poi però, per
scrupolo, mi chiedo anche quanto le nostre vite seguano effettivamente una
logica così rigida e razionale. E mi rispondo da solo.
Per questo,
vorrei fissare tre punti fondamentali, una sorta di piccolo manifesto per il
ripristino della distinzione tra autore e fruitore, quest’ultimo inteso come
opposto al concetto di consumatore. Tutto ciò quale invito a smetterla di
comportarci come pretenziosi arroganti consumatori a cui tutto è dovuto, per
tornare a godere dell’arte in generale così come l’artista ha voluto mostrarla
all’umanità che idealmente si figura.
1. L’artista non
vi deve il suo successo. Se avete comprato un’opera, lo avete fatto per le
qualità che avete riconosciuto a quell’artista. Il successo è il risultato
della bravura; il vostro acquisto è una conseguenza di quella bravura.
2. Un artista
percorre un cammino di ricerca che di solito dura una vita intera. È possibile
che prenda strade che non ci convincano o che non condividiamo. Due però sono
le certezze: possiamo smettere di seguirlo; nessuno ci priverà delle edizioni
già pubblicate di quelle opere, che anzi costituiranno un vantaggio per l’artista
stesso, per approfondirne lo studio e la ricerca.
3. Film, arte,
letteratura: l’artista crea un’opera, che può essere modificata, persino
distrutta. Solo questi può farlo e ne ha tutti i diritti: non stiamo parlando
di miti o leggende patrimonio dell’umanità, ma di un prodotto con copyright (a livello giuridico) e di una
soggettiva espressione di spirito (a livello esistenziale e artistico), al di là del fatto che questa possa avere un valore universale comunemente riconosciuto.
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