Petra e il Medio Oriente attraverso la biografia di David Roberts
D. Roberts, Una veduta del Cairo (1840) |
Prima dei viaggi in Medio Oriente
David Roberts nacque il 24 ottobre 1796,
a Stockbridge, presso Edimburgo. Era figlio di Christian Richie e di un
calzolaio, John, e all’età di dieci anni incominciò un apprendistato settennale
nella bottega di un imbianchino e decoratore, Gavin Beugo. Scozzese e di umili
origini, il futuro di Roberts sembrava in qualche modo già segnato. Negli anni
dell’apprendistato fece amicizia con il collega David Ramsay Hay e i due
diventarono amici per il resto delle loro vite. Le giornate si svolgevano nelle
case di ricchi borghesi, oppure di persone più umili interessate ad imitare i
primi. La notte, però, Roberts la trascorreva sui libri di storia dell’arte e
da autodidatta apprese i primi rudimenti della pittura e quelli che erano stati
gli sviluppi dell’arte nel corso dei secoli. In mancanza di una guida esperta,
dovette affidarsi alla propria sensibilità e alla capacità di osservazione.
Certamente gli stimoli non mancarono e
con gli anni si fecero sempre più interessanti. Trasferitosi a Perth per
svolgere la funzione di capomastro nella ristrutturazione di Scone Palace,
nell’estate del 1815 Roberts eseguì il suo primo lavoro retribuito. La
primavera successiva ritornò alla casa dei genitori: attento agli sviluppi
dell’arte contemporanea, studiò in particolare le soluzioni del Romanticismo e
negli ultimi anni di vita fu incuriosito anche dalla nascente esperienza
impressionista.
Qualche tempo dopo, Roberts si dedicò ad
un’attività molto in voga in quegli anni e intraprese la carriera di
scenografo, dipingendo le scenografie per il circo di James Bannister a North
College Street. Bannister rimase colpito dal giovane e nell’aprile del 1816 lo
ingaggiò con uno stipendio settimanale di venticinque scellini, portandolo a
viaggiare con il circo in una tournée inglese. In quel periodo raggiunse
diversi luoghi, tra cui Carlisle, Newcastle, Hull e York, per poi fare ritorno
ad Edimburgo al principio dell’anno seguente. Durante la tournée, Roberts non
si occupò soltanto di scenografie, ma ricoprì anche ruoli minori nelle scenette
dei clown. Aveva ancora venti anni; in poco tempo aveva percorso molta strada
per quanto le sue umili origini avevano rischiato di tenerlo ancorato alla sua
città natale. Curioso di natura e disposto a sperimentare il proprio universo
sociale, Roberts proseguì su quella strada, in un crescendo di commissioni.
All’inizio del 1817, lavorò come
assistente scenografo al Pantheon Theatre di Edimburgo, nel contesto di una
collaborazione tra Bannister e un musicista italiano il cui cognome era Corri.
L’esperienza del Pantheon non fu però delle migliori: andato incontro al
fallimento finanziario, fu chiuso nel maggio dello stesso anno. Roberts fu
costretto a ripiegare sull’house painting:
lavorò nella villa di Abercairny, vicino a Perth, progettata da Gillespie
Graham. Pur lavorando per tutta la giornata, riuscì a trovare il tempo per
disegnare nei boschi intorno alla villa, al chiaro di luna. Non vi doveva
essere nulla di romantico e melanconico, in stile Gleizes; Roberts si ritirava
in solitudine, ma nei panni di un instancabile lavoratore, consapevole dei
propri limiti e tuttavia in cerca di un riscatto. La sua figura al chiaro di
luna, dunque, è serena e placida; il muscolo procero accenna appena al fremito
interiore che lo percorre, ma nel suo operare rimane un ordine formale e una
certa dose di meticolosità.
Dalla villa di Abercairny si spostò a
quella di Condie, vicino a Bridge of Earn, nel Perthshire, dove realizzò una
pittura simulata su finto legno e marmo. Tornato ad Edimburgo nel 1818,
intraprese una breve collaborazione con il pittore decorativo John Jackson.
Quel biennio dovette sembrare a Roberts un periodo di ristagno, nel quale
rischiava di rimanere paralizzato. Decorò la Dunbar House di Lord Lauderdale
(poi Lauderdale House) e la biblioteca del castello di Craigcrook, per Lord
Jeffrey, che aveva da poco affittato la proprietà.
Nel frattempo riaprì il Pantheon Theatre
e Roberts ottenne il lavoro grazie a Corri. Nella stagione invernale, lo
scozzese si ritrovò a dipingere direttamente sul palco, ma dal momento che
questo era occupato durante il giorno dalle prove e la sera dalle esibizioni,
spesso si ritrovava a lavorare in piena notte, attività in cui peraltro era
ormai esperto. Il direttore di scena, Mr. Monro, non poté non notare il suo
impegno e in seguito all’ennesima chiusura del Pantheon, lo assunse come primo
pittore di scena al Theatre Royal di Glasgow. Alla fine, l’impegno aveva dato i
suoi frutti.
Nel 1819 si spostò nuovamente ad
Edimburgo, dove divenne pittore di scena al Theatre Royal, e a ventitré anni
scelse James Ballantine come suo apprendista, il quale raccolse i diari del
maestro, utilizzati in questa breve biografia. Fu in quel periodo sereno che
l’artista conobbe l’attrice scozzese Margaret McLachlan, della quale in città
si diceva che fosse figlia illegittima di una giovane zingara delle Highlands e
di un capo clan. Anche in questo caso non sembra si debba ravvisare nulla di
romantico; fu un amore semplice e molto combattuto, ma nacque spensierato e
senza troppe convulsioni. I due convogliarono a nozze nel 1820 e in breve tempo
nacque l’unica figlia di Roberts, Christine (in onore alla madre).
Segno che quel periodo dovette essere
molto positivo per l’artista, Roberts incominciò a realizzare per passione
dipinti ad olio, con una frequenza e un rigore mai avuti in precedenza. Divenne
amico dell’artista William Clarkson Stanfield, con il quale dipinse le
scenografie al Theatre Royal; contemporaneamente crebbe il suo interesse per la
pittura di paesaggi. Nel 1821 dipinse tre vedute delle abbazie di Melrose e
Dryburgh, per la Fine Arts Institution di Edimburgo. Seguendo il suggerimento
di Stanfield, inviò tre foto delle opere all’Exhibition of Works by Living Artists, tenutasi ad Edimburgo l’anno
seguente.
Charles Louis-Baugniet, Ritratto di David Roberts |
Per Roberts era arrivato il momento di
fare un salto di qualità. Motivato a migliorare le proprie abilità artistiche,
salpò da Leith con la moglie e la figlia di sei mesi e si trasferì a Londra,
dove si occupò prima delle scenografie del Coburg Theatre e poi del Theatre
Royal, in Drury Lane, per il quale creò diorami e panorami insieme a Stanfield.
Londra era sicuramente un ambiente culturale più dinamico e suggestivo. Da
ormai quattro decadi Philip James de Loutherbourg aveva introdotto
l’Eidophusikon a Leicester Square, un precursore dei film che creava illusioni
visive attraverso un sistema di specchi e pulegge. Nel 1787, invece, Robert
Barker aveva inventato il Panorama: in un ambiente circolare si disponeva un
dipinto, con appositi lucernari ad illuminare ad arte la scena, solitamente una
veduta di luoghi remoti (Damasco, l’Artide, etc.), un episodio storico o
religioso e molto altro.
In parallelo a questi stimoli culturali,
la vita personale di Roberts subì un brusco colpo. Di questo periodo è una
miniatura di lui e Margaret, donna dai delicati boccoli biondi, intenta a
tenere tra le braccia la sorridente figlia di tre anni. In questo caso,
tuttavia, si trattava di una risposta antitetica ad una realtà famigliare
tutt’altro che felice: Margaret era alcolizzata, a tal punto che Roberts fu
costretto a rimandarla in Scozia per farsi curare. La situazione doveva essere
arrivata ad un limite tale per cui il sentimento era venuto meno e, segnato da questa
esperienza, scrisse una lettera al vecchio amico David Ramsay Hay, affermando
di essere grato a Dio per la partenza della moglie.
Il suo lavoro, ad ogni modo, non subì
affatto una battuta d’arresto, segno della determinazione e della dedizione
all’attività artistica. Nel 1824, espose un’altra veduta dell’abbazia di
Dryburgh, presso la British Institution, e inviò due opere alla neonata Society
of British Artists. Nell’autunno di quello stesso anno fece un breve salto
oltre la Manica e visitò la Normandia, ponendo le basi del suo successo con una
veduta della cattedrale di Rouen.
Nel frattempo, anche il
lavoro teatrale diede i suoi frutti. Le commissioni di Covent Garden
includevano i set per la prima londinese di Die
Entführung aus dem Serail (Il ratto
dal serraglio) di Mozart, nel 1827, in cui erano raffigurati la vittoria
navale di Navarino e due panorami, eseguiti ancora una volta insieme a
Stanfield.
D. Roberts, La partenza degli Israeliti dall'Egitto (1829) |
Alla fine degli anni Venti, Roberts
aveva rappresentato diverse vedute, non solo inglesi e scozzesi, ma anche della
Francia e dei Paesi Bassi (Amiens, Caen, Dieppe, Rouen, Anversa, Bruxelles,
Gand). Alcuni dipinti ritraevano la stessa scena, sebbene con piccole
variazioni. Dall’arrivo a Londra la sua tecnica si era sicuramente affinata e
con la Partenza degli Israeliti
dall’Egitto (1829) annunciò i tratti salienti del suo stile, destinati a
svilupparsi negli anni seguenti (curiosamente Roberts non aveva ancora visitato
quei luoghi, da lui ripresi in forma immaginaria attraverso le litografie
giunte a Londra). Nel 1831, infine, fu eletto presidente della Society of
British Artists.
D. Roberts, Vecchi edifici sul Darro, Granada (1834) |
L’anno seguente viaggiò in Spagna e Tangeri.
Tornò alla fine del 1833, con un voluminoso portfolio di disegni, schizzi e
nudi. Da questi bozzetti trasse alcune opere molto popolari, tra cui Interior of Seville Cathedral (esposto
alla British Institution nel 1834 e venduto per 300 sterline), alcune
illustrazioni per il Landscape Annual
del 1836 e i Picturesque Sketches in
Spain (riprodotti in litografia nel 1837). Cresciuta la sua fama, a Londra
conobbe altri artisti come Edward Thomas Daniell e John Linnell, frequentatori
della Daniel House. Alla carriera di Roberts mancava solamente la conoscenza
diretta dei monumenti orientali che desiderava riprodurre con cognizione di
causa. Aveva inoltre sentito parlare della riscoperta di una misteriosa città,
posta nelle gole tra il Sinai e l’antica Mesopotamia.
Il Medio Oriente. La riscoperta di Petra
Robert Scott Lauder, Ritratto di David Roberts vestito con abiti orientali (1840) |
Cenni storici
Letteralmente nascosta nelle insenature
dei monti Shara, Petra è situata in una remota valle a sud della Giordania.
Duemila anni di sabbia, di Simùn e di intemperie hanno eroso la friabile
arenaria, tanto che oggi la roccia appare morbida e ricca di venature.
Le prime tracce risalgono a 9000 anni
fa, quando l’area era attraversata da cacciatori-raccoglitori e doveva essere
molto più fertile di come appaia ai contemporanei. Lo sviluppo della regione
scaturì dal crescente movimento di uomini e merci, che dovevano passare di lì
per raggiungere la Mesopotamia dall’Egitto e viceversa. Anche la Bibbia cita la
città, affermando che Reqem – re del regno di Edom – proibì il passaggio agli
Israeliti in fuga dall’Egitto. In seguito, poco dopo il 1000 a.C., fu proprio
il re israeliano Davide a sottomettere l’intero regno di Edom, controllandone
il commercio, in particolare di rame. Salomone trasferì ingenti ricchezze dalla
capitale edomita a Gerusalemme, ma a seguito della sua morte il regno israelita
entrò in crisi, senza tuttavia che i successivi dominatori fossero in grado di
sfruttare le potenzialità della città.
Fu così che dal 647 a.C. emergono le
prime informazioni sui Nabatei, un popolo nomade proveniente dal deserto, che
sfidò l’ultimo re assiro Assurbanipal e si stanziò nelle strette vie rocciose
della regione. I Nabatei gestirono con accortezza il traffico carovaniero e
imposero un pedaggio in cambio di un luogo sicuro per la sosta e le
transazioni. Fu in quel periodo che Edom assunse il nome di Arabia Petrea. Più
tardi, nel 312 a.C., Diodoro Siculo racconta che il greco Antigone, governatore
seleucide della Siria, attaccò i Nabatei, desideroso di razziare le loro
preziose merci, ma essi respinsero l’aggressione per due volte, per comprare
infine la pace e ristabilire così i commerci.
Lungi dall’avere mire espansionistiche,
quella popolazione un tempo nomade si aprì alla pace e al confronto con altre
culture, non solo limitrofe. Proprio mentre la Siria seleucide e l’Egitto
tolemaico erano occupati a spartirsi l’impero di Alessandro Magno, i Nabatei
estesero il loro potere in maniera più silenziosa, fino a conquistare Damasco
(80 a.C.). Il commercio si intensificò: oltre a rame, ferro e bitume del Mar
Morto (utilizzato in Egitto per l’imbalsamazione), si aggiunsero le spezie
della costa araba, la mirra, l’olio di balsamo e l’incenso (soprattutto per le
cerimonie religiose ellenistiche). Dall’India provenivano il pepe, lo zenzero,
lo zucchero e il cotone; dalla Cina – o meglio da Li-Kan – la seta, l’oro,
l’argento, l’hennè e ancora l’incenso.
La città era talmente potente che quando
Pompeo la attaccò nel 62 a.C., i Nabatei comprarono la pace per l’ennesima
volta. L’età d’oro di Petra durò circa due secoli, dal I secolo a.C. al I
secolo d.C.: Petra raggiunse i trentamila abitanti; Strabone parla di un re
democratico, di ricchezza e cosmopolitismo, con Romani e altri stranieri lungo
le vie cittadine. Il declino, inevitabile di fronte alla potenza romana, fu
provocato dall’espansione del commercio via mare lungo le coste arabiche;
oltretutto, i Romani spostarono l’asse commerciale verso l’Egitto e la Siria
storica, ponendo le basi per la nascita di Palmira. L’ultimo re, Rabbel II, fu
così costretto a negoziare con Roma e questa volta i Nabatei non poterono più
contare sul loro prestigio: alla morte del sovrano (106 d.C.), la Nabatea
divenne parte dell’Impero romano.
Petra attraversò un periodo di
rinascenza: diventò la principale città della provincia d’Arabia; il teatro e
la via colonnata subirono un rifacimento; imperatori come Adriano e – forse –
Severo la visitarono. Nel 300, ad ogni modo, ricominciò il processo di declino,
dovuto essenzialmente alla mancanza di manutenzione. Da un lato Palmira si
trasformò nel principale snodo commerciale dell’area; dall’altro la rotta via
mare per l’Egitto si era consolidata.
Con l’avvento del Cristianesimo, a Petra
vi fu una commistione di elementi politeisti nabatei e di elementi legati alla
nuova fede. Nel 363 un terremoto distrusse metà città, ma per altri due secoli sopravvisse
al suo destino. Molti templi politeisti furono convertiti in chiese e altri
edifici religiosi furono edificati, come la chiesa di Petra e la chiesa della
Collina. All’arrivo dell’Islām, Petra era tuttavia quasi abbandonata: un
ulteriore terremoto (749), costrinse anche i più temerari ad abbandonarla.
Altre voci della città si hanno nel XII
secolo, quando i crociati costruirono in quell’area due avamposti, abbandonati
di lì a un secolo. Nel 1276 il sultano mammalucco Baybars uscì dalla gola del Siq
e fu forse l’ultima persona a visitare la città per più di cinquecento anni,
esclusi ovviamente i beduini, che conservarono quel segreto e ripresero spesso
i loro antichi culti mai dimenticati.
La svolta nella storia di Petra risale
al 22 agosto 1812, quando l’esploratore svizzero Jean Louis Burckhardt entrò
nel Siq vestito da perfetto arabo, accompagnato da una guida locale. Il
racconto di quella “riscoperta” mette chiaramente in luce la vera e propria
epopea di esploratori e ricercatori affascinati dall’ignoto, che dal Settecento
alla prima metà del Novecento affrontarono pericoli oggi per lo più
inconcepibili. Questi esploratori potevano essere indipendenti, ma solitamente
erano legati ad una nazione europea; le motivazioni erano le più disparate, alcune
volte assunsero connotati imperialisti e civilizzatori, altre volte furono la
risposta – conscia o inconscia – al desiderio di conoscere una realtà
alternativa a quella imperante in un’Europa dedicata anima e corpo al mito del
progresso. Burckhardt fu con ogni probabilità il secondo genere di esploratore,
tanto che lungi dal voler “civilizzare” i non europei, diventò a tutti gli
effetti un mussulmano perfettamente integrato in Medio Oriente.
Burckhardt nacque a Losanna, in
Svizzera, nel 1784. Nel 1806 divenne membro della londinese Association for
Promoting the Discovery of the Interior Parts of Africa, che gli propose un
viaggio per individuare le sorgenti del fiume Niger. Prima di fare ciò,
Burckhardt volle approfondire la conoscenza del mondo arabo, in modo tale da
ridurre il pericolo di essere ucciso e per non passare da spia del governo
inglese. Imparò l’arabo e ad Aleppo vestì i panni di un commerciante mussulmano
proveniente dall’India, mascherando il suo strano accento con il dialetto
svizzero-tedesco fatto passare per una lingua indiana. Approfondì la conoscenza
del Corano e oltre alla Terra Santa visitò La Mecca (cosa eccezionale per un
europeo di allora) e l’Egitto, assumendo il nome di Sheikh Ibrahim ibn
Abdallah. Morì di malattia nel 1817, di ritorno in Egitto dopo aver esplorato
il Sinai, non prima di aver “riscoperto” i resti di Petra, di cui aveva
misteriosamente sentito parlare. Per potersi avvicinare al sito utilizzò il
pretesto di aver fatto voto di sacrificare una capra nel santuario del profeta
Aronne, sul Jabal Haroun. Alto 1350 m, si pensa che il rilievo corrisponda al
biblico Monte Cor, dove fu sepolto Aronne (Haroun), fratello di Mosè. Così in
Nm 20, 26-27: «Spoglia Aronne delle sue vesti e falle indossare a suo figlio
Eleazaro; in quel luogo Aronne sarà riunito ai suoi antenati e morirà. Mosè
fece come il Signore aveva ordinato ed essi salirono sul monte Cor, in vista di
tutta la comunità».
Burckhardt e la guida furono avvistati
lungo la strada dalla tribù Liyathneh, che tentò di fermarli senza successo. I
due riuscirono ad andare oltre nella direzione del santuario e, prima di
raggiungerlo per il sacrificio, Burckhardt riuscì a scrivere degli appunti e a
stendere dei semplici schizzi.
Entrato nel Siq vestito da perfetto
arabo, con il materiale raccolto riuscì a destare l’interesse dell’Occidente:
postumo uscì il suo Travels in Syria and
the Holy Land. Nel 1818, Charles Irby e James Mangles, comandanti della
British Royal Navy, trascorsero alcuni giorni in quel luogo. Nel 1826 fu la volta
dell’archeologo e viaggiatore Léon de Laborde, mentre nel 1839 di David
Roberts, i quali consegnarono all’Occidente immagini più sostanziose di Petra.
Laborde ne trasse incisioni spesso fantasiose e idealizzanti, Roberts invece
più accurate. La vera svolta per Roberts era venuta su pressione di Turner:
abbandonata definitivamente la pittura di scena, il 31 agosto 1838 era partito
alla volta dell’Egitto, poco dopo Owen Jones, alla ricerca di nuovo materiale.
Numerosi furono i disegni, gli acquerelli e gli schizzi preparatori di quelle
che sarebbero state le sue litografie più note.
Egli contribuì moltissimo alla
conoscenza di Petra presso la società inglese e non solo e Burgon dovette
ispirarsi anche a lui quando definì Petra “città rosata”, peraltro senza averla
ancora visitata di persona. Nella seconda metà del secolo la città tornò ad
essere visitata da stranieri, che da Gerusalemme raggiungevano la città
montando cavalli e cammelli e coprendo una distanza superiore ai duecento
kilometri. Una vera e propria avventura, considerando che il tragitto era in
mano ai briganti e che le stesse grotte di Petra erano abitate dalla tribù
Bdul, molto povera e a sua volta circondata da altre tribù nomadi come i
Saidiyeen, gli Ammarin e Liyathneh.
Alla fine del secolo incominciarono i
primi seri scavi archeologici; nel 1898 furono catalogati i monumenti; nel 1925
furono prodotte le prime mappe accurate.
Nel 1931, la compagnia di
viaggi di Thomas Cook offrì ai turisti europei la sistemazione in tenda o in
grotta, mentre il primo hotel (Rest House) arrivò solo negli anni Cinquanta.
Negli anni Ottanta il governo convinse la tribù Bdul a trasferirsi a Umm
Sayhoun, offrendo loro abitazioni e servizi, liberando in parte le grotte di
Petra che essi abitavano da tempo immemorabile. Nel 1985 il sito divenne
patrimonio dell’umanità dell’UNESCO e si susseguirono gli scavi archeologici.
In seguito fu creato il Parco archeologico di Petra e nonostante gli scavi
siano iniziati da più di un secolo, i fattori storici rendono il sito in gran
parte ancora da scoprire.
I luoghi caratteristici di Petra
Quando Roberts si trovò tra le rovine di
Petra il sito mostrava ancora meno di quanto sia oggi possibile vedere e anche
le parti più caratteristiche, come il tesoro, erano ricoperte da millenni di
voci e di leggende. Ciò che rimaneva e rimane più impresso a prima vista sono
le sfumature dell’arenaria, che sembrano non conoscere limite. Dall’ingresso
del Siq (Bab as-Siq), seguendo il corso del Wadi Musa, si trovano sùbito le tre
case degli dèi, rocce tra i sei e gli otto metri, rappresentanti alcune divinità
nabatee (i Nabatei approdarono ad un sincretismo che univa elementi della
cultura araba e mediterranea). Secondo gli abitanti locali mussulmani sarebbero
opera di jinn e rappresenterebbero
inoltre i contenitori (sahrij)
dell’energia divina, che si sprigiona nei corsi d’acqua. Proseguendo si scorge
l’ingresso della tomba dell’obelisco, segnato appunto da quattro obelischi
piramidali, catalizzatori dell’energia divina: la grotta contiene diverse tombe
e al piano inferiore la stanza del triclinio, in cui si tenevano banchetti per
onorare i defunti.
Giunti alla diga si scende lungo la
cresta per raggiungere il più scenografico monumento naturale di Petra, il Siq
(“la gola”), principale accesso alla città, che fino all’ultimo rimane celata.
Da novembre a marzo le acque invadono prepotentemente la gola e il Wadi Musa
scorrerebbe copioso in assenza della diga. L’ingresso della gola prevedeva un
arco ornamentale, crollato però nel 1896. I turisti di oggi si alternano a
piedi, a cavallo o su un cammello; alcuni avventurieri scalano le pareti,
seguendo precari passaggi corrosi dal tempo, forse ignari dei pericoli più
comuni di quasi due secoli prima; infine, non mancano gli asini, “taxi con
l’aria condizionata” secondo l’espressione più diffusa, che tuttavia con il loro
passaggio mettono a rischio alcuni luoghi, come l’antica scalinata che conduce
al “monastero”. In modo analogo a Pompei e agli altri siti del genere, il vero
problema della conservazione è sopraggiunto con la riscoperta e il conseguente
afflusso di turisti, curiosi e avventurieri spesso disinteressati al valore
storico del sito.
Tornando al Siq, lungo la via si
accavallano le tracce di pavimentazione romana, i resti delle tubature nabatee
in terracotta e un canale laterale per l’acqua, del tutto simile ai canali
costruiti dai beduini nelle oasi, per raggiungere in modo capillare il
territorio.
Compagne imprescindibili, le numerose
nicchie votive, alcune con frontone in stile greco, accompagnano il passante.
Dalle forme arrotondate e morbide della gola si passa improvvisamente alle
linee geometriche del cosiddetto “tesoro” (al-Khazneh),
sebbene il tempo abbia smussato anche queste costruzioni artificiali. Il
monumento è scavato nella parete rocciosa e il suo stato di conservazione
ottimo dipende dalla ridotta azione erosiva del vento e della pioggia. Il
tesoro fu costruito nel I secolo a.C., forse con il favore di re Aretas III
Filelleno, che inviò a Petra i maggiori architetti del Mediterraneo. La luce
del mattino, tra le nove e le undici, illumina in modo diretto, mentre quella
del pomeriggio, tra le diciassette e le diciotto, crea il caratteristico
riflesso rosato delle pareti rocciose.
L’interno del tesoro non è altro che una
sala a pianta quadrata su cui si affacciano stanze più piccole: non si conosce
la sua funzione, ma il bacile incastonato sulla soglia sembra suggerire una
funzione rituale. Il nome deriva dalla definizione data dai beduini, di Khaznet al-Faraoun, ovvero “tesoro del
faraone”: essi credevano infatti che il faraone, signore della magia nera,
avesse fatto costruire quell’edificio per depositarvi il suo tesoro, dal
momento che era rallentato da esso nel suo inseguimento degli Israeliti.
Superato il tesoro si prosegue per il
sentiero noto come Siq esterno, dove si trovano diverse tombe, tra cui una
decorata con un motivo a gradoni ascendenti di origine assira, ma anche una
facciata in puro stile classico, la tomba di Unayshu, scolpita su un pinnacolo
scosceso che sembra non conoscere la gravità. Il Siq esterno sfocia verso la
strada delle facciate, le più antiche decorate con motivi senza cornice.
Sùbito dopo segue il teatro di matrice
classica, risalente al I secolo d.C., nonostante la città non fosse ancora
annessa all’Impero romano, a dimostrazione dei fitti legami tra i due mondi. Il
teatro poteva ospitare 8500 spettatori; la struttura è quasi interamente
scavata nel fianco della montagna; gli strani buchi alle spalle dell’auditorium
erano le cellette di alcune sepolture eliminate per fare spazio alla parete di
fondo. A poche centinaia di metri dal teatro, lungo la parete est, si giunge alle
tombe reali, come quella di Unayshu, prima solo intravista di profilo.
Proseguendo in direzione nord, si
raggiunge la tomba dell’urna, con un cortile colonnato sorretto da più ordini
di arcate: nel 477 si svolse una cerimonia di dedicazione per trasformare la
sepoltura in una chiesa. La tomba della seta è invece così chiamata per le
sfumature della pietra screziata, con toni dal rosa al blu. La tomba corinzia
inganna con il suo nome attribuitole da un visitatore del XIX secolo, dal
momento che è del periodo nabateo. La tomba del palazzo è una commistione di
stili sulla facciata e il secondo ordine presenta un intercolumnio irregolare
rispetto all’ortodossia architettonica del piano terra. La tomba di Sesto Fiorentino
si trova ad ovest rispetto alla tomba del palazzo: il nome deriva dal
governatore della provincia romana d’Arabia, che nel 130 d.C. fu seppellito a
Petra secondo le sue volontà. La facciata presenta un aggraziato frontone
semicircolare, uno dei più interessanti a livello decorativo. Poco più a nord
si trova infine la tomba carminio, striata di mille colori e occultata da un
albero.
Girato l’angolo dopo il teatro, lungo la
via colonnata, si raggiunge il centro dell’antica Petra, in cui emerge un ninfeo,
dove un verdeggiante pistacchio cresce rigoglioso sulle rovine di età romana,
nel luogo in cui sembra confluissero le tubature in terracotta, quando l’acqua
gorgheggiava arrivando da lontano e rinfrescava l’arida piazza. Il mito non
esisteva, perché era vivo e dinamico negli uomini e nelle donne di allora. Questo
era il luogo in cui le figlie di Zeus ed Eurinome diffondevano la loro
bellezza; Aglaia con il suo splendore, Eufrosine con la sua pace e Talìa con
l’abbondanza. Intorno a loro le danzatrici, coronate di fiori e con i capelli
legati senza troppa cura; tra le loro mani i cembali e i flauti per l’udito,
mentre per la vista una coreografia di veli, così leggeri da rendere la forma
femminile tanto morbida che nei piedi nudi sembrava voler spiccare il volo. E
percorrendo la via colonnata dal ninfeo verso ovest, un’ulteriore fila di
colonne delimitava l’area del mercato, mentre la fantasia fa apparire dalla
sabbia un vortice di amorini, come fuggiti alle gabbie del tempo, ma sconsolati
nel vedere intorno a sé solo i fasti perduti di un antico splendore.
Dietro il ninfeo si scorge la chiesa di
Petra, costruita nel V secolo: una basilica a tre navate, con tre absidi sul
lato est e tre ingressi sul lato ovest. Distrutta prima da un incendio e poi
dai terremoti, sopravvivono ancora oggi alcuni interessanti mosaici
pavimentali, che uniti ai 152 rotoli di papiro scoperti sul luogo nel 1993
potranno svelare molte informazioni sulla presenza bizantina. I mosaici della
navata sud rappresentano le personificazioni delle stagioni, con diversi
uccelli e pesci; i mosaici della navata nord mostrano popoli primitivi e
animali esotici, tra cui una giraffa-cammello. A ovest, il battistero conserva un
fonte battesimale a croce, incorniciato da quattro colonne di calcare. Alle
spalle della chiesa, in salita, la cappella blu del V secolo prende il nome
dalle colonne in granito egizio, recuperate da altri edifici precedenti, come
per la chiesa stessa. Dopo una breve salita si trova la chiesa della Collina,
risalente alla fine del IV secolo e priva di decorazioni.
Il tempio dei leoni alati domina
l’ingresso del temenos a ovest della chiesa di Petra e risale al I secolo d.C.:
il nome deriva dai capitelli con figure di leone ed è forse dedicato ad
al-Uzza.
Sui pendii a sud della via colonnata si
trova invece l’area nota come terrazza del giardino, della seconda parte del I
secolo d.C., che prevedeva ampi spazi verdi a scopo ornamentale, oltre ad una
grande piscina con al centro un’isola sormontata da un piccolo padiglione
rettangolare.
Vicino alla terrazza, il “grande tempio”
dello stesso periodo sembra sia stato un edificio adibito alle celebrazioni
pubbliche; l’architettura dell’intero edificio è complessa e su più livelli,
con diversi ordini di colonne e particolarità come i capitelli a testa di
elefante indiano, a testimonianza dello splendore durante l’età d’oro.
L’estremità ovest della via colonnata è
delimitata dalle rovine della porta del temenos, che introduce ad un cortile,
un tempo spazio sacro, poi luogo di sosta dei cammelli. In quest’area si trova
anche il Qasr al-Bint al-Faraoun
(“palazzo della figlia del faraone”), un tempio nabateo a pianta quadrata costruito
alla fine del I secolo d.C. L’enorme arco serviva ad alleggerire il basso
architrave orizzontale della porta che introduceva alla cella, illuminata da
alte finestre. La parte posteriore del sancta sanctorum è divisa in tre stanze
separate (adyta) e quella centrale
conteneva forse la statua sacra di Dushara.
Il monastero (Ad-Dayr, o Al-Deir) si distingue
alla vista per la sua maestosa facciata scavata nella roccia, raggiungibile
dopo una lunga scalinata, lungo la quale si trovano diversi luoghi di interesse,
come il triclinio del leone, un piccolo santuario in stile classico nascosto
tra i cespugli, con leoni scolpiti e due teste di Medusa alle estremità del
fregio sopra la porta. La facciata del monastero è immensa, ma non decorata: il
nome deriva dalle croci ritrovate al suo interno, ma si tratta forse di un
tempio dedicato al re nabateo Obodas I, deificato alla sua morte nel I secolo
a.C.
Tornando al teatro e alla strada delle
facciate si può prendere il sentiero dell’altura del Sacrificio. In cima alla
scalinata si ergono due obelischi di oltre sei metri, ricavati sbalzando il
terreno intorno e livellandolo: sono noti come Zibb/Amud Attuf (“fallo/colonna
della misericordia”), con analogia (inconsapevole?) ai Lingam indiani. Nelle
vicinanze, l’altura dei Sacrifici presenta un altare posto sopra quattro
scalini, con un bacile sul lato e una cavità dove un tempo doveva esserci una
statua. Non si conosce il genere di sacrifici praticato, ma dal momento che
altrove si sacrificavano giovani proprio alla dea al-Uzza, non è escluso che
anche a Petra in tempi antichi si praticasse il sacrificio umano.
Si può scendere dall’altura sul versante
orientale, attraverso il Wadi Farasa. Lungo il tragitto si trovano antiche
fontane, triclini, tombe e la collina di Zantur, con i resti di una villa di un
mercante nabateo. Il sentiero del Wadi Farasa si conclude presso l’Amud/Zibb
Faraoun (“colonna/fallo del faraone”), in cui convergono diverse strade.
Meritano ancora menzione le grotte di
Al-Habis, a lato del Qasr al-Bint, nelle cui vicinanze si trova una tomba
incompiuta, che evidenzia il modo di operare dei muratori nabatei, i quali
costruivano dall’alto verso il basso.
Sempre da Qasr al-Bint è possibile
seguire la faticosa salita sulla via per Umm al-Biyara, deviando per il
tragitto che porta al monumento del serpente, un enorme masso scolpito sulla
forma del rettile. Poco prima di arrivarci si incontra una casa degli dèi a
guardia di grotte e tombe, ancora abitate dai Bdul. Il serpente attorcigliato a
guardia del luogo sembra un vivo monito, che riecheggia la massima di Cicerone
sul rispetto per le anime dei defunti: Deorum
manium iura sancta sunto (“Siano rispettati i diritti dei Mani”).
Infine, il Jabal Haroun (monte di
Aronne) è oggi il luogo più sacro di Petra, venerato da mussulmani, cristiani
ed ebrei, quale ultima dimora terrena di Aronne. Il piccolo santuario è munito
di una cupola bianca ed è un rifacimento operato dal sultano mammalucco
Qalawun, nel 1459.
A Petra esistevano forse quartieri riservati
ai locali, distribuiti presso le principali arterie cittadine, dove poter
gestire in modo ordinato il traffico commerciale. Bir Mathkur, nel Wadi Araba,
era il sobborgo che si occupava dei traffici con Gaza; Siq al-Barid, a nord, di
quelli con Palestina e Siria; al-Khan gestiva i traffici da est, attraverso
l’Arabia interna; a Sabra, a sud, confluivano le carovane in arrivo dal Mar
Rosso e dall’Hegiaz.
Attraverso lo sguardo di Roberts
D. Roberts. Fotografia del 1844 di Hill & Adamson |
Quando si parla di Petra si descrivono
quasi sempre le architetture, i suggestivi giochi di luce naturali e le
leggende annesse ai monumenti, tuttavia si conosce ancora pochissimo della sua
storia e della effettiva funzione di ogni singolo edificio. Se poco si conosce
oggi, al tempo di David Roberts la città era un mistero ancora più grande e la
suggestione aveva il gusto dell’inesplorato, dell’ignoto, che è altra cosa
rispetto alla scoperta del dato storico in sé, che ha certamente valore, ma in
una maniera che di necessità è meno sentimentale della prima.
Per potere almeno in parte ammirare quella Petra, le guide consigliano di
osservare il tesoro prima delle otto del mattino, cioè nel momento precedente
all’arrivo delle comitive. Anche la diversa stagione offre varianti non di poco
conto; così a maggio i wadi diventano un tappeto di fiori rosa di oleandro e
tra la fauna si scorgono lucertole, serpenti e scorpioni. La visita notturna
del tesoro propone ulteriori prospettive, con una serie di candele a segnare il
tragitto: benché si tratti di un’invenzione recente, l’impatto è molto
suggestivo e personale. Forse proprio in mancanza di un dato storico
consolidato, fu proprio l’immaginazione ad incorniciare la sensibilità di
Roberts per il dato umano. Troviamo così carovane senza carico in un’assolata
giornata, immaginandoci i beduini riparati nelle umide caverne circostanti; due
amici che si salutano con brevissimi cenni della mano, coprendo col silenzio la
strada attraverso il wadi intero. O ancora incontriamo commercianti sullo
sfondo di un paesaggio dai colori saturi, mentre disputano su qualcosa che
presto dimenticheranno.
A distanza, Roberts era vestito da
arabo, proprio come Burckhardt vent’anni prima, sebbene a seguito di minori
peripezie. Viaggiò con una carovana di venti cammelli e scortato da guardie del
corpo locali. Petra era la meta per eccellenza, ma il soggiorno fu più breve
del previsto a causa dei conflitti tra le tribù locali.
D. Roberts, Approach to Petra. An Ancient Watchtower Commanding the Valley of El Ghor (1839) |
Negli acquerelli di Roberts non mancano
solo i notturni, ma anche il giorno è incerto e il cielo sabbioso sembra
indicare un’unica soluzione. In certi casi i rilievi più distanti si mescolano
al cielo, mentre quelli più vicini conservano di norma un sottile contorno
frastagliato. Un’altra costante è data delle rade nuvole giallognole, che
tendono a confondersi con il resto dell’atmosfera e solo occasionalmente fanno
trasparire un cenno di grigio a sottolineare una qualche perturbazione.
Un acquerello del 5 febbraio 1839, realizzato
durante il tragitto verso Petra, reca la seguente scritta: Approach to Petra. An Ancient Watchtower Commanding the Valley of El
Ghor. Ghor è arabo per “valle” ed è proprio in una depressione del terreno
che emerge una antica torre di guardia, slanciata in una diagonale che
accompagna l’occhio da destra a sinistra, per poi aprirsi su quel cielo simile
alla sabbia. Ai piedi del rilievo che sorregge l’edificio, un gruppo nutrito di
uomini e cammelli sembra pronto ad accamparsi. Le tende sono poste nelle zone
d’ombra, mentre in lontananza un manipolo di uomini sui cammelli sembra occupato
a svagarsi, con lunghe lance e fucili posti in verticale. La preponderante
presenza di toni chiari è fortemente contrastata dalle ombre del rilievo
centrale, che ai suoi piedi si conclude in uno spazio nero fumo. Nell’insieme
vi è qualcosa di edulcorato; il rosso dei cappelli e il blu acceso di due
giacche donano un pizzico di vivacità, che scompare presto nell’imponenza di
una natura indomabile. Le piogge e la sabbia continuano in silenzio a lavorare
la pietra e sulla roccia si scorgono cespugli e erbacce, pronte a frantumare il
traguardo raggiunto dall’uomo con quella torre ormai rudere.
David Roberts, Petra Seen By South |
Ai primi di marzo di quel 1839, Roberts
raggiungeva le rovine di Petra e proseguì con il proprio lavoro. In una veduta
da sud, la presenza di erbe e arbusti è ancora più evidente, con tronchi nodosi
che si divincolano in una massa confusa di rami e sembrano in procinto di
precipitare dalle antiche pareti. Da quel punto l’occhio scorre verso destra e
incontra quattro uomini mediorientali. La coppia centrale sta discutendo a
proposito di qualche problema e nella differenza degli abiti sembra di intuire
che l’uomo dalla giacca blu, forse una guardia, si stia preoccupando con una
probabile guida beduina in merito al percorso da seguire. Il collo arcuato in
avanti, l’arma sulla mano sinistra e la posa aggressiva ne mettono in luce i
modi poco ortodossi; d’altra parte, a entrambi i lati, gli altri due astanti
ascoltano con notevole disinteresse e l’uomo a sinistra rimane appoggiato sui
resti di una colonna scanalata, come indolenzito. Davanti a loro si presenta un
corso d’acqua e sull’altra sponda altri quattro uomini quasi inglobati nel
paesaggio. L’osservatore segue la linea serpentinata del fiumiciattolo, fino a
perdersi con esso nelle gole sullo sfondo. Il sole è basso e il rilievo di
sinistra lo nasconde in parte, ma è in fondo a destra che la luce definisce le
scanalature della roccia, che sfuma a poco a poco nel cielo con notevole
morbidezza.
Nella seconda metà del Settecento vi era
stata una sorta di riscoperta della Svizzera, vista fino ad allora come un
luogo impervio e pericoloso; negli stessi anni era nato l’alpinismo e le vedute
estreme si erano susseguite spingendosi anche al gusto per il macabro e per la
cronaca (come per i due dipinti di Gustave Doré sulla prima scalata del Monte
Cervino, che vedeva la morte di quattro alpinisti). E se per la Svizzera si
formò un “itinerario” pittorico che passava dalla vallata di Lauterbrunnen al
ghiacciaio del Grindewald, a Petra accadde lo stesso fenomeno, per cui alcuni
rilievi diventarono caratteristici e ci si concentrò in particolare sulla
strada del Siq, su al-Khazneh e su al-Deir. Ma anziché acuire la spettacolarità
con tagli diagonali, in generale le pareti rocciose presentano una linearità in
verticale, che si frantuma di continuo nelle rientranze e nelle insenature
scavate dall’uomo per ricavarne finestre e arcate. Roberts sembra dialogare
alla pari con il paesaggio, che nel suo diario descrive con delicata e persino
“sintetica” partecipazione emotiva.
Peter Birmann, Ponte del diavolo (1824) |
Egli rappresentò anche l’ingresso del
Siq, dove a quel tempo un arco trionfale accoglieva i viaggiatori. La cornice è
volutamente approssimativa e il tratto si definisce nel mettere a fuoco due elementi
distanti, gli uomini in basso leggermente a sinistra e l’arco in alto, connessi
da un sentiero a forma di squadra, buio e indefinito. Dal grado di
deterioramento della struttura e dalla mancanza di decorazioni, quell’arco
trionfale richiama per stilizzazione un ponte posto tra due imponenti pareti
rocciose. Per ricordare ancora una volta il parallelo svizzero, un altro
soggetto ricorrente fu la rappresentazione dei ponti del diavolo, come quello
disegnato da Turner nel 1804, in cui la forza della natura e i contrasti severi
rendono giustizia al nome della struttura, ripresa nel 1824 anche da Peter
Birmann con toni più calmi e sospesi.
D. Roberts, L’inizio del Siq (1839) |
Al contrario, l’arco trionfale
rappresentato da Roberts, pur condividendo il tema di fondo, si discosta da
entrambe i dipinti per fare emergere ancora una volta la calma e lo scorcio
luminoso. Non mancano increspature sentimentali, ma sono controllate da
contorni ben marcati. L’unica esplicita concessione risiede nell’uomo di spalle
che sembra soccorrere il compagno, appena più basso, porgendogli la mano o una
brocca d’acqua. In qualche modo, anche quella di Roberts fu un’idealizzazione
del mondo “primitivo” dei beduini, che pure non mancavano di rendere quella
zona pericolosa a causa dei loro continui conflitti. Eppure i suoi acquerelli
non nascosero la realtà, la descrissero nelle pieghe della roccia, nei
monumenti e nei gesti dei suoi compagni di viaggio. Interpretarono quella
realtà alla luce di un modo di vivere non perfetto, ma decisamente più umile e
dimesso di quello occidentale, le cui coordinate esistenziali erano
continuamente rimesse in discussione.
Ponte degli Immortali, Huangshan. Fotografia di Heloisa Werner |
L’inizio del Siq era per l’europeo di
allora un passaggio catartico, un’introduzione ai misteri che l’uomo moderno
sembrava aver dimenticato. Fu l’accesso ad una realtà spirituale ancora
presente, in un cammino che dalle gole di Petra si sarebbe potuto spingere
ancora più ad Oriente, fino ai cinesi monti Huangshan, dove da più di
cinquecento anni si innesta il “ponte degli Immortali”, il più alto del mondo,
che apre la strada a quei viaggiatori desiderosi di vedere il sole sorgere da
una posizione privilegiata, pronto ad illuminare le gole del Siq e quelle svizzere
della Schöllenen. Uno dei percorsi per raggiungere il ponte è stato nominato
“Porta Celeste a Sud” e il nome non è che un richiamo al segreto celato dietro
quel velo che solo la volontà di conoscere e la determinazione possono
squarciare.
Frederic Edwin Church, El Khasne Petra (1874) |
Attraversato il Siq, infatti, Roberts si
ritrovò di fronte al tesoro del Faraone. Era il 7 marzo quando disegnò due
vedute, una frontale, l’altra parziale, con uno scorcio di profilo del
colonnato. Le sculture della facciata appaiono in parte distrutte a causa della
follia iconoclasta e l’imponenza delle figure in basso a destra non hanno più
la forza di imporsi sulle sottostanti figure umane, concentrate sui propri
affari e armate di lunghi fucili. In cima ai frontoni che incorniciano un
capitello corinzio sormontato da una doppia sfera, si intuiscono le forme di
due grandi aquile, simbolo di Dushara, la principale divinità nabatea,
assimilabile a Giove. La figura centrale, scolpita sul tholos circolare sotto
l’urna, sarebbe al-Uzza, equivalente dell’Iside egizia: il petto è nudo e il
busto si muove con leggera sinuosità verso destra; dal bacino scende una toga
che si allarga fino al gomito sinistro, come ad avvolgere la cornucopia. Nelle
nicchie laterali, invece, sono presenti due vittorie alate, in una posa
solenne, smorzata soltanto dalla posizione aperta delle braccia, che suggeriscono
potenza e dinamismo. Altre quattro figure non ancora identificate sono presenti
tra le coppie di colonne corinzie; armate di ascia nelle mani destre che si
alzano sopra le teste, nella sinistra reggono un libro aperto, mentre le vesti
si agitano ai lati delle figure suggerendo la gravità del pericolo. Gli uomini posti
in basso, invece, sarebbero i Dioscuri, ma il cattivo stato di conservazione
rende difficile l’identificazione. Due gruppi di tre colonne sembrano reggere
la struttura, ma in realtà non sostengono alcun peso, poiché l’intera
architettura è una sorta di enorme incisione nella roccia. Siamo infatti
abituati a vedere tutte e sei le colonne, ma come si nota dalle opere di
Roberts, durante la sua visita la terza colonna da sinistra era distrutta e
solo in seguito fu sostituita con una in mattoni e stucco. Il frontone, infine,
presenta ricche decorazioni animalesche e arabeschi, mentre ai lati due belve
feroci sono poste a guardia del complesso.
D. Roberts, Partial View of al-Khazneh |
Nel suo Essai sur l’art, Boullée sostenne che l’architetto derivi la sua
arte dalla Natura, di cui si serve per esprimersi. Sotto il velo apparente di
quella Natura esisterebbe una struttura ordinata e regolare e il Bello
risiederebbe nella nostra capacità interiore di organizzarla e di renderla
armonica. Coloro che realizzarono al-Khazneh ebbero certamente una vista nitida
di quella parete rocciosa e seppero trovare il metallo prezioso imprigionato
nella nuda pietra.
D. Roberts, al-Khazneh, Seen From the Siq |
Il 7 marzo Roberts non si fermò al
tesoro e in quel giorno e in quello seguente realizzò alcune vedute delle tombe
reali. Per Boullée gli edifici potevano essere paragonati alle stagioni:
architetture dal carattere autunnale come i teatri risultavano pittoresche;
altre invernali, come i cimiteri, avevano proporzioni basse e sprofondate. Egli
sostenne di aver inventato l’“architettura delle ombre”: una superficie piana,
senza decorazioni, la cui materia assorbiva la luce e tutto l’effetto notturno
era dato da giochi di ombre sempre più scure. Di fronte a questa descrizione,
le tombe reali di Petra appaiono distanti anni luce e lungi dal perdersi nel
terreno si ergono in verticale con il consueto sostegno dei rilievi
circostanti. È qui che Roberts mette in evidenza alcune sfumature rosate nelle
architetture, mentre la sottile erbetta che ricopre le rocce assume un colore
giallognolo delicato ma consistente. Le tombe reali hanno dinanzi uno spazio
aperto, non sono affatto nascoste o recintate da muri che separino di netto i
vivi dai morti. Nelle strade di Petra, infatti, l’architettura invernale è
presente tanto quanto quella estiva; la vita pubblica e privata e gli scambi
commerciali e culturali si svolgevano alla luce del sole e gli antenati
potevano assistere ad ogni cosa ed essere sempre presenti in ogni evento della
comunità. Così ben si adattano le parole di Ugo Foscolo nel Dei sepolcri:
A egregie cose il forte animo accendono
l’urne de’ forti, o Pindemonte; e bella
e santa fanno al peregrin la terra
che le ricetta.
D. Roberts, The Royal Tombs |
Principale luogo di culto dei Nabatei,
Qasr al-Bint al-Pharaun in origine era alto più di venti metri, con scalinate
in marmo e imponenti colonne. Oggi rimane ben poco di quella grandezza e la
rappresentazione di Roberts lo dimostra. Il sole fatica a penetrare nella valle
e metà della veduta è in controluce. Le numerose rovine sono in lontananza,
appesantite dal tempo, e le figure umane in primo piano mostrano totale
disinteresse per quei resti, che conservano l’ignaro affetto delle cose
domestiche alle quali siamo abituati. Qui la storia, recente e remota, si
abbandona al dialogo quotidiano e non rimane altro che la bellezza selvaggia,
la potenza di una natura dominante con la quale è necessario scendere a patti.
Se oltreoceano i pittori della scuola del fiume Hudson traevano ispirazione da
un’analoga natura selvaggia e artisti come Frederic Remington contribuirono a
creare la mitizzazione dell’epopea del Far West, a Petra Roberts offrì
altrettante suggestioni, che ispirarono come nelle Americhe la letteratura e in
seguito anche il cinema (si pensi per esempio al Graal conservato nel tesoro di
Petra in Indiana Jones e l’ultima
crociata, diretto da Steven Spielberg).
D. Roberts, The Place Tomb and the Other Royal Tombs |
Datata sempre 8 marzo, la facciata di
al-Deir ricorda per certi versi quella del tesoro. Disposto su due piani, il
cosiddetto “monastero” si distingue però per l’assenza di decorazioni e di un
imponente frontone. Ciò nonostante, la ricchezza di elementi architettonici si
impone di per sé e in questo caso il piccolo tholos centrale del piano superiore
fa da appoggio ad una struttura elaborata che si staglia nel cielo. La
prospettiva scelta da Roberts pone l’osservatore “in sicurezza”, su un’altura,
in modo tale che non vi sia quella sensazione di fragilità umana dinanzi alla
Natura e alle opere degli antichi. Al contrario, ancora una volta, cinque
uomini sulla destra parlano tra di loro in totale tranquillità, in netto
contrasto con le figure umane in lontananza, poste ai piedi dell’edificio
sacro. D’altra parte quei minuscoli personaggi fanno da specchio agli edifici
presenti sullo sfondo a destra, laddove si apre la vallata. Entrambi, uomini e
monumenti, appaiono grandi e insignificanti a seconda del punto di vista
dell’osservatore.
D. Roberts, al-Deir |
Forse con quell’ultima faticosa salita
David Roberts portò a termine il suo breve viaggio a Petra. A sera, dopo aver
osservato così a lungo le rovine e le persone che le attraversavano, fu forse invitato
in una tenda da quegli stessi beduini che lo avevano accompagnato. Entrando
vide subito un enorme piatto al centro dell’ambiente; alla base del riso
sottile, sopra la carne di agnello ricoperta dal brodo, da una ricca manciata
di uva sultanina e dallo yogurt ricavato dal jameed. Divenuto soggetto a sua
volta, prese il mansaf con le mani e gustò la sincera ospitalità beduina.
Questa volta, al chiaro di luna.
La luna brillava di uno splendore che è
possibile vedere solo nei paesi dell’est, e le montagne sembravano più solenni
e misteriose rispetto al giorno, tanto che mi costò un certo sforzo
dell’immaginazione pensare di trasferirle nella mia cara terra; ma questa
illusione fu rapidamente dissipata dalle figure distese degli Arabi dormienti.
[Tratto dal diario di viaggio
di Roberts, in data domenica 3 marzo 1839]
D. Roberts, The Acropolis and Qasr al-Bint al-Pharaun |
Il viaggio di David Roberts non si fermò
peraltro alla sola Petra. Ricevuto il 16 maggio 1839 dall’ufficiale
rivoluzionario Muhammad Ali Pasha, alle soglie della seconda guerra
egizio-ottomana (1839-41), tornò a Londra poco tempo dopo. Nel suo tour mediorientale,
oltre all’Egitto e alla Giordania, Roberts visitò la Nubia, il Sinai, la Terra
Santa e il Libano. Al suo ritorno, l’artista Robert Scott Lauder ne fece un
ritratto in abiti mediorientali; in Scozia fu accolto con calore e fu ospite
d’onore in una cena del 19 ottobre 1842, alla quale presiedette Lord Cockburn,
scrittore ed ex procuratore generale di Scozia. Roberts aveva raggiunto il
culmine del proprio successo.
In questa fase (1842-49), lavorò con l’incisore
belga Louis Haghe, per produrre le tavole riccamente illustrate degli Sketches in the Holy Land and Syria, 1842–1849 e di Egypt & Nubia, basandosi sugli acquerelli del pittore. L’esposizione
delle litografie fu accompagnata da un grande successo di critica.
D. Roberts, Il tempio di Dendera (1841) |
Con una certa dose di “imprenditorialità”
americana, finanziò il lavoro attraverso abbonamenti anticipati che sollecitò
in prima persona. Roberts colse nel segno: lo scenario mediorientale, spesso
più idealizzato che reale, era allora di moda in Occidente, ma di rado gli
artisti britannici lo avevano affrontato con la giusta incisività. Roberts
arrivò ad avere ben quattrocento impegni di abbonamento, vantando anche
l’interessamento della regina Vittoria (la sua serie completa fa ancora parte
della Royal Collection). Oltretutto, Roberts riuscì a pubblicare i volumi poco
prima che le fotografie di quei siti mediorientali fossero disponibili. In fin
dei conti, quale sorta di pioniere a Petra, questo successo fu un meritato
riconoscimento.
D. Roberts, Isola di Graia, Golfo di Akabah (Arabia Petraea, 1839) |
Il ritorno e gli ultimi anni
D. Roberts, Il Palazzo Ducale di Venezia, visto dal bacino di San Marco (1853) |
I viaggi, ad ogni modo, non erano ancora
conclusi. È curioso notare come prima di visitare l’Italia, Roberts optò
innanzitutto per il Medio Oriente, a differenza di altri artisti come lo
scozzese Robert Adam, che dall’Italia si spostò a Spalato, dove rimase
affascinato dal palazzo di Diocleziano, oppure come l’antiquario Robert Wood,
che pubblicò Ruins of Palmyra e Ruins of Baalbec. Questi ultimi erano
luoghi in cui le tracce della presenza romana si mescolavano ad un altro gusto,
che non era affatto ibrido, bensì originale. Fu così che solo nel 1851 e nel
1853 Roberts si recò in Italia, dove dipinse il Palazzo Ducale di Venezia (acquistato da Lord Londesborough), gli Interni della Basilica di San Pietro a Roma
nel Natale del 1853 e Roma dalla
chiesa di Sant’Onofrio al Gianicolo (donato alla Royal Scottish Academy). Il
suo ultimo volume di illustrazioni, Italy,
Classical, Historical and Picturesque, fu pubblicato nel 1859.
D. Roberts, L'inaugurazione della Great Exhibition. 1 maggio 1851 (1854) |
Per ordine della regina
Vittoria, eseguì una foto dell’apertura della Great Exhibition (1851) e in
seguito dipinse sempre per lei L’inaugurazione
della Great Exhibition: 1 maggio 1851, esibita nel 1853 alla Royal Academy
e in cui compare sulla sinistra la statua equestre della sovrana. Eletto
infatti associato della Royal Academy (1839), ne era divenuto membro a pieno
titolo nel 1841. Nel 1858 gli furono inoltre consegnate le chiavi della città (Freedom of the City) di Edimburgo.
D. Roberts, Edimburgo vista da Calton Hill (1858) |
Negli ultimi anni si concentrò sulle
vedute di Londra e del Tamigi. Ne aveva eseguite sei ed era al lavoro su una
veduta di St Paul’s Cathedral, vista
da Ludgate Hill, quando morì improvvisamente per un ictus. Collassò su Berners
Street, nel pomeriggio del 25 novembre 1864, e morì quella sera stessa nella
sua abitazione, all’età di sessant’otto anni. Da semplice imbianchino, Roberts
si era imposto con la propria determinazione. Produsse opere apprezzabili in un
contesto ormai codificato, ma la sua esperienza di vita e la sua produzione
artistica rimangono un esempio significativo di quanto l’impegno personale e le
occasioni offerte dall’ambiente sociale di riferimento possano, per così dire, trasformare
una pietra grezza in materiale utile alla costruzione. Figlio di un calzolaio,
imbianchino senza alcuna formazione accademica, Roberts raggiunse obiettivi
eccezionali, passando dalla tournée con il circo in giovinezza ad un tour
mediorientale che gli valse una notevole visibilità.
D. Roberts, Il Palazzo di Westminster da Millbank (1861) |
Se molti artisti, intorno alla prima
metà dell’Ottocento, scelsero di allontanarsi dal “modello mediterraneo”
(rappresentato dalla Grecia arcaica) per un primitivo ricercato prima di tutto
nei Paesi nordici, David Roberts dalle colline scozzesi scese fino alle dune
dei deserti egiziani e giordani, per ricercare quello stimolo visivo che solo
la vista diretta, unita alle emozioni del momento, può far scaturire. Egli fu
un artista venuto dal “popolo”, nel significato più generale e apolitico del
termine, e a quella grande massa si rivolse in modo spontaneo, senza eccessi e
con una serena e cosciente spontaneità, che lo fece notare dall’aristocrazia.
I soggetti e le ambientazioni orientali
erano ormai di moda e destinate ancora ad una lunga fortuna; Roberts si ispirò
a quel filone orientalista, ma con un certo contegno formale e un interesse
quasi esclusivo per il puro dato ambientale.
Altri artisti, in quel periodo, furono
infatti più interessati alla figura umana o alla pittura storica o
pseudo-storica. I Re Magi furono uno dei primi soggetti ad essere rappresentati
nell’arte occidentale con caratteristiche mediorientali, sebbene non sempre
storicamente o geograficamente fedeli. Al contrario, le altre scene bibliche
presentavano figure e contesti sempre più standardizzati, ben lontani da una
seria ricostruzione “filologica”. In questo scenario vi furono comunque delle
eccezioni, consolidatesi tra il Settecento e l’Ottocento, in concomitanza con
la riscoperta archeologica e la mutata sensibilità, tanto illuministica quanto
romantica. Furono infatti ritratti anche soggetti contemporanei provenienti dal
mondo orientale, con una frequenza e una cura per il dettaglio “storico” nuove
rispetto ai precedenti rinascimentali (è il caso del ritratto equestre di
Théodore Chassériau, intitolato Ali-Ben-Hamet,
califfo di Costantinopoli e comandante di
Haractas, seguito dalla scorta). E Jean-Étienne Liotard, che aveva visitato
Istanbul e disegnato diverse scene di interni domestici turchi, rimase
affascinato da quella cultura a tal punto che continuò a vestirsi da
mediorientale anche in Europa per diverso tempo, come peraltro fecero altri
gruppi collegati al filone “primitivista”. Ricordiamo un caso eclatante come
quello di Périé de Senovert, un allievo di David che si vestiva alla greca per
le strade di Parigi; un personaggio eccentrico, per lo più deriso dai parigini.
Da parte sua, lo scozzese Gavin Hamilton
cercò una soluzione al “problema” dell’abito moderno, considerato non eroico e
poco elegante, utilizzando i costumi antichi nella pittura storica di
ambientazione mediorientale. Il suo James
Dawkins e Robert Wood scoprono le rovine di Palmira (1758) elevò il turismo
all’eroico, con i due viaggiatori che indossano delle toghe, aprendo la strada
alla vera e propria epopea del Middle East, che anticipò quella americana del
Far West.
Se a Roma i viaggiatori si facevano
ritrarre vicini ai monumenti e ai luoghi di interesse mondani, chi raggiungeva
il Medio Oriente non era da meno. Liberatisi dalle costrizioni sociali del
proprio Paese, questi viaggiatori si fecero ritrarre con abiti esotici in
ambienti spesso poco indicati per persone considerate “rispettabili”. Il
ricordo si sposta senza dubbio su figure come Lord Byron, ma persino su Madame
de Pompadour, che curiosamente non aveva mai lasciato l’Europa. Proprio Lord
Byron rivestì un ruolo di primo piano nell’affascinare le menti occidentali più
libertine o anche solo più libertarie, che nella “fuga dalla realtà” videro un
antidoto ideologico alla monarchia assoluta. Ciò nonostante, l’interesse per
l’Oriente fu trasversale e interessò tanto le aristocrazie quanto la borghesia.
In questo quadro – come è noto – l’occupazione
napoleonica dell’Egitto accentuò l’interesse pubblico per l’Egittologia.
Celebri i dipinti di Bonaparte che visita
i lebbrosi di Giaffa (1804), La
battaglia di Abukir (1806) e Napoleone
alla battaglia delle Piramidi (1810). Nello stesso periodo, tra il 1809 e
il 1828, il governo francese pubblicò inoltre i venti volumi illustrati de La descrizione dell’Egitto. Per Eugène
Delacroix, uno dei primi grandi successi fu un’opera a tema orientale, Il massacro di Scio (1824), dipinto
prima di visitare la Grecia e il Medio Oriente, le cui tinte chiare divengono
sempre più una costante per quel genere di ambientazione e che lo stesso
Roberts utilizzò ampiamente. E pochi anni prima, Théodore Géricault ampliò gli
orizzonti con La zattera della Medusa,
un fatto di cronaca extraeuropeo che richiamava non solo un filone sensazionalista
(con opere come Watson e lo squalo di
J. S. Copley), ma appunto anche il fascino per i luoghi lontani e per le
cronache di viaggio.
A quel tempo, peraltro, anche la più
vicina Grecia conservava un fascino orientale, sebbene si trovasse in un
momento storico in cui cercava di affrancarsi proprio dalla dominazione
ottomana. Delacroix dipinse così La
Grecia spirante sulle rovine dei Missolungi (1827), commemorando un assedio
dell’anno precedente, nonché La morte di
Sardanapalo, ispirata da Lord Byron. Il fascino per l’Oriente si incentrava
su una mistura di sessualità, violenza, lascivia unita ai tipici luoghi
esotici. Delacroix fu interprete di questo fenomeno: visitò l’Algeria e il
Marocco, la prima conquistata da poco dai francesi, il secondo nel contesto di
una missione diplomatica. Egli non si limitò a rappresentare uno stile di vita
fine a se stesso, ma lo idealizzò mescolando tratti dei costumi romani con
tratti della cultura araba e nordafricana (Donne
di Algeri nei loro appartamenti).
Nello stesso filone, Il bagno turco di Ingres segnò forse
l’apice della sensualità e quasi un sigillo alla rappresentazione ideale del Vicino
Oriente. Il suo pupillo, Chassériau, ebbe altrettanto successo con il nudo Il bagno di Esther (1841), dipinto
ancora prima di visitare il Medio Oriente. Ma ad ogni modo, al di là del dato
esotico, sensuale e ricco di colori, queste opere conservavano un innato
orizzonte stereotipato.
L’interesse inglese per i territori
ottomani fu altrettanto intenso, pur distinguendosi nella forma. Il pittore di
genere Sir David Wilkie aveva cinquantacinque anni quando nel 1840 viaggiò ad
Istanbul e Gerusalemme, morendo nei pressi di Gibilterra durante il viaggio di
ritorno. Il suo intento, di matrice protestante, era di analizzare
l’iconografia sacra cristiana nel contesto di origine di quel credo per averne
una visione meno codificata.
Il preraffaellita William Holman Hunt e
David Roberts ebbero motivazioni molto simili e le loro opere esprimono un
interesse realistico per l’ambiente rappresentato, pur con una certa enfasi nel
focus di luce e nella teatralità prospettica. Tra i soggetti biblici di Hunt troviamo
Il capro espiatorio (1854-6), L’ombra della morte (1873) e Il miracolo del Fuoco Sacro (1892-99),
quest’ultima una satira alla William Hogarth che colpiva gli ortodossi.
Hunt si dedicò anche a scene più
dimesse. In Una scena di strada al Cairo.
Il corteggiamento del lanternaio (1854-61), l’artista rappresentò un
momento di vita quotidiana, con l’intrusione di un occidentale sulla scena e un
minore interesse per la ricostruzione dei particolari, in nome del pittoresco.
Diverso l’approccio di John Frederick Lewis, che visse al Cairo per diversi
anni e dipinse con forte realismo le scene di genere mediorientali. La cura con
cui rappresentò l’architettura e gli arredamenti islamici segnò l’inizio di un
nuovo standard di realismo, che non mancò di influenzare artisti come Gérôme,
nei suoi ultimi lavori.
Altri artisti si concentrarono più
spesso sulla pittura di paesaggi, con particolare attenzione ai deserti: tra di
loro troviamo Richard Dadd, Edward Lear e appunto David Roberts. Quest’ultimo, peraltro,
non escluse la figura umana e gli attribuì anzi una specifica funzione. A Petra
non comparivano più gli eroi e le statue delle divinità avevano i volti
sfigurati, o erano ancora sepolte oppure annientate dal tempo. In quelle gole
non si trovavano eroi, ma solidi mercanti, sopravvissuti ai millenni e che agli
occhi di Roberts apparvero come sovrani incontrastati a ridosso di quei troni
di pietra ormai troppo grandi anche per loro, che ne erano gli eredi ideali.
Le sue raccolte di disegni includevano
il termine sketches, a designare dei
veri e propri racconti narrati per episodi, per scene, con beduini intenti a
misurarsi tra di loro nella semplicità dei gesti. In questa teatralità, frutto
del gusto dell’epoca ma anche del passato lavorativo di Roberts, si inseriva
anche il termine picturesque,
riferito a qualcosa di caratteristico e rappresentato in maniera espressiva,
talvolta con colori saturi, altre con toni delicati e impalpabili. Forte di una
tradizione inglese di questo genere, Roberts preferì quei colori tenui e fu in
grado di renderli pungenti nel contrasto di luci e ombre, particolarmente
naturale e sottile nelle rappresentazioni di Petra.
Se nel Neoclassicismo l’espressione
delle figure tendeva ad essere il più possibile posata, cogliendo l’attimo
precedente o successivo allo scatenarsi delle passioni, in quella stessa
corrente artistica vi fu sempre una dialettica tra lo “spirito” sublimato e la
passione incipiente, che spesso sfociò in un annullamento della seconda. Un
pensatore “neoclassico” come Goethe affermò che l’ideale è ciò che si vede con
l’immaginazione e che l’arte classica si possa definire la forma più elevata di
naturalismo. Ma che cosa accade se l’immaginazione ci mostra un conflitto,
anziché una sua soluzione di livello “superiore”? La risposta sembra essere
proprio in quella dialettica tra spirito e ragione, nella quale si inserisce la
passione, elemento destabilizzante di quell’armonia. Goethe riprese un’immagine
efficace quando descrisse Morte e Sonno come fratelli gemelli che spesso si
confondono. Questa era una parte della bellezza degli antichi; non più
scheletri o clessidre, ma urne composte e verticali; serpenti avvolti nelle proprie
spire sulle tombe di Petra, là dove dormono gli antichi e coloro che ne
conservano il ricordo. Roberts ebbe appunto il pregio di far notare il dialogo
tra l’architettura naturale e quella umana e – non meno importante – tra quel
sistema uomo-natura e l’essere umano comune, fosse esso un beduino del luogo o
un viaggiatore occidentale in cerca di risposte.
D’altra parte già Diderot aveva colto
questa esigenza, affermando che l’arte dovrebbe unire entusiasmo e riflessione,
un binomio che riprende quello citato dello spirito (l’etimologia di entusiasmo
rimanda al concetto di “pieno di un dio”) e della ragione (la riflessione è
un’analisi della mente, che è pensiero, quindi misura), sebbene il primo termine
fosse spesso mascherato da molti illuministi che vedevano nell’irrazionale
qualcosa di pericoloso. Da cui le caratteristiche proprie del Neoclassicismo e
del Romanticismo, risposte speculari alle questioni del presente e rifiuto di
una materialità il cui emblema – la macchina – stava sconvolgendo il tessuto di
un intero sistema. In entrambe le esperienze artistiche, la mitica età dell’oro
si rivelò però per quello che era: un mito, ma non nel suo valore di racconto
“pedagogico” o “psicologico”, bensì nella forma di uno strumento con cui
organizzare il presente e volgerlo al futuro con coscienza del tempo (ragione,
misura) e dell’infinito (spirito, immanenza).
Infine, ciò che ancora emerge
in artisti come Roberts è proprio la tendenza a rispondere ai sintomi del
proprio tempo prendendo come modello quella realtà che meno conoscono
storicamente, scientificamente, e che
quindi permette una realizzazione di più ampio respiro artistico, che esca
dalle maglie del tempo e si renda eterea, se non propriamente eterna. Dove con
etereo si intende qualcosa di pertinente al cielo, di limpida bellezza e
diafana certezza, anziché quei fasti grossolani di una narcosi eterea destinata
a sopprimere ogni sensibilità. E dalla presunta ragione, o dalla passione incontrollata,
generare chimere.
Bibliografia
° Ballantine J., The Life of David Roberts R. A. Compiled from Robert’s journals and
other sources with etchings and pen-and-ink sketches by the artist, A &
C Black, Edinburgh, 1866
° Bourbon F., Petra. Guida archeologica a Petra: storia, civiltà, monumenti,
Magnus, Giordania, 2014
° Clammer P., Walker J., Giordania, EDT, Torino, 2015
° Greenway P., Ham A., Giordania, EDT, Torino, 2003
° Pinelli A., Il Neoclassicismo nell’arte del Settecento, Carocci, Roma, 2005
Id., Primitivismi
nell’arte dell’Ottocento, Carocci, Roma, 2005
° Praz M., Gusto neoclassico, Rizzoli, Milano, 1974
° Teller M., Giordania, Feltrinelli, Milano, 2013
° Touring Club Italiano, Giordania. Amman, Petra, Jarash, Aqaba, i
castelli del deserto e il Mar Morto, Touring Club Italiano, Milano, 1994
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