Notre-Dame de Paris. Simbolismo e libero pensiero

 

Victor Hugo, I due castelli (1850)

Ho scelto di parlare di Victor Hugo attraverso la lente di una delle sue più grandi opere, Notre-Dame de Paris. Ne è uscito un testo ricco, che è così suddiviso: il primo capitolo è una breve introduzione alla complessa struttura del romanzo. Il secondo indaga la natura dei personaggi, sia quelli principali, che quelli secondari o inconsueti, come la folla parigina e la cattedrale stessa. Essi rappresentano soprattutto archetipi: sono la traduzione in forma narrativa di un’idea che lo scrittore intendeva esprimere.

Il terzo capitolo si concentra sulla sbalorditiva capacità descrittiva di Hugo. Infine, il quarto mostra come il libero pensiero dello scrittore si manifesti nell’opera.

 

L’etereogeneità dei contenuti

 

Victor Hugo, Castello (data incerta)
 

Notre-Dame de Paris si può considerare un romanzo “totale”: spazia dalla narrativa alla saggistica, dal testo teatrale alla poesia, dalla guida turistica al trattato alchemico. È un romanzo completo, esso stesso un’architettura. E va accettato così, nella sua articolazione, che lo rende talvolta più arduo da leggere, come in quei passaggi che ricordano il capitolo sulla cetologia nel Moby Dick di Hermann Melville.

Nel 1957, sul Bulletin de la Guilde du Livre di Losanna, Roland Barthes scrisse che «il miglior lettore di Hugo è colui che non si preoccupa troppo di discernere, nel libro, il volgare dal commovente, la puerilità dalla scaltrezza, l’arcaismo dall’avanguardia. Come cattedrale o come romanzo, bisogna prendere Notre-Dame in blocco […].»

 

Personaggi e archetipi

 

Victor Hugo, L'impiccato (1854)

Hugo ha una grande capacità mitopoietica, mescolata a un acume simbolista che fa dei suoi personaggi degli archetipi.

A contare non sono soltanto i personaggi principali, ma anche quelli secondari o che non dovrebbero essere tali, come la cattedrale stessa o la popolazione di Parigi. Un esempio calzante di questa attenzione al contorno si trova in uno dei primi capitoli, quando, nella folla distratta, un signore continua a seguire la declamazione di Pierre Gringoire. Questi non viene soltanto snobbato dalla massa, ma quello spettatore, come in una beffa, diventa testimone del suo fallimento.

L’episodio mi porta a uno dei simboli centrali del romanzo, la cultura, in particolare quella poetica, che viene disprezzata dal popolo, interessato a cose frivole e di pancia, come l’individuazione del “Papa dei folli” in colui che fosse in grado di mostrare l’espressione facciale più orrenda.

 

Pierre Gringoire

 

La biografia di Gringoire è raccontata in un ampio dialogo dal diretto interessato: figlio dell’appaltatore delle tasse di Gonesse, impiccato dai borgognoni, e da una madre sventrata dai piccardi durante l’assedio di Parigi, il giovane Pierre divenne orfano a sei anni. Condusse una vita di strada, incapace in qualsiasi lavoro, dal soldato al bevitore, dal frate al carpentiere: capì, col tempo, di essere versato nell’insegnamento e nello studio. Lo dice con ironia: «e rendendomi conto di essere un buono a nulla, divenni, con mia piena volontà, poeta e compositore di ritmi. È un mestiere che è sempre possibile intraprendere quando si è vagabondi, ed è sempre stato meglio che rubare, come invece mi consigliavano taluni giovinastri amici miei.» Conobbe infine Claude Frollo, il quale gli insegnò il latino a suon di Cicerone e dei testi sacri cristiani.

Divenuto studioso della scolastica, della poetica e dell’ermetica, viene scelto per rappresentare un’opera cristiana al popolo di Parigi, come scopriamo nelle prime pagine. Gringoire mette in scena la frustrazione dell’intellettuale, che da un lato se la crede un po’ troppo, dall’altro non ha tutti i torti. Egli è un personaggio buono di cuore, ma che non è ancora pronto a gestire un eventuale successo letterario, che lo renderebbe spocchioso e altezzoso. Il suo destino, per sua fortuna, prevede tribolazioni e il pericolo di morire assassinato alla Corte dei Miracoli, coacervo di reietti e di criminali. Salvato da Esmeralda e divenutone marito, non riesce a godere di quell’amore insperato. Lungi dall’incattivirsi di fronte a tante sconfitte, Gringoire accetta la sua sorte e scopre infine la felicità in mezzo a quelle persone che aveva guardato dall’alto in basso.

 

Quasimodo

 

Vengo così a Quasimodo. Di lui abbiamo prima una descrizione fisica molto dettagliata. Hugo gli attribuisce qualsiasi deformità e invalidità; ci racconta pure l’idea che di lui ne avevano i parigini, che ne avevano fatto un demonio in attesa dell’anima di Frollo, con cui aveva stretto un patto diabolico. Quasimodo è un personaggio che presenta aspetti piuttosto cupi, oscuri, ed è molto distante dallo schematismo manicheo che ritroviamo nel famoso film della Disney.

Il campanaro ha diversi soprannomi: il gobbo di Notre-Dame, il guercio, lo sciancato, etc. Le donne nascondono il viso in sua presenza: in un dialogo, lo paragonano a una scimmia, una cattiva scimmia, anzi un diavolo, che si muoveva insieme ai gatti sulle grondaie, spiando la gente, facendo il malocchio dai camini. Una donna sostiene di essere certa che vada ai sabba. Gli uomini invece sono estasiati e applaudono, prendendosi gioco dell’effetto che produce sulle donne.

Nel quarto libro, scopriamo che Quasimodo, adottato da Frollo, si chiama così per ricordare il giorno in cui l’aveva trovato, e per indicare con questo nome fino a che punto la creatura fosse incompleta, appena “sbozzata” (dal latino quasi modo): «In effetti, Quasimodo, guercio, gobbo, storpio, non era che un press’a poco.», ci dice Hugo.

 

Dobbiamo attendere il sesto libro perché la trama cominci effettivamente a ingranare: sono trascorsi solo pochi giorni dalle prime pagine, ma sembrano già trascorse lunghe settimane. Nel mezzo, troviamo descrizioni della città, excursus storici e racconti nel racconto, come quello che conduce dalla vecchia religiosa a Esmeralda. Ed è proprio in questo libro che leggiamo la descrizione del tristissimo trattamento riservato a Quasimodo: la scena in cui il gobbo viene portato di fronte al giudice sordo ha del tragicomico. Soprattutto nel finale, quando per una reciproca incomprensione, a Quasimodo viene riservata una pena più grave del previsto. Qui Hugo tiene a mostrarci la differenza tra legge, giustizia e chi le amministra: se il giudice o il procuratore si rivela inadeguato, o malvagio, il risultato è un atto di ingiustizia, legittimato dal ruolo.

Ma Quasimodo merita, in qualche misura, il male che riceve? Hugo ci dice qualcosa al riguardo, riprendendo un’idea diffusa nell’Ottocento, ovvero che l’aspetto fisico fosse collegato all’indole di una persona. Scrive che la sua cattiveria fosse un effetto della sua sventura: «Infatti era cattivo, perché era selvaggio; era selvaggio, perché era brutto. C’era una logica nella sua natura come nella nostra. La sua forza, così straordinariamente sviluppata, era una causa in più di cattiveria. Malus puer robustus, dice Hobbes.» Dopo aver dato voce al credo comune, però, Hugo aggiunge: «D’altronde, a questo proposito, bisogna rendergli giustizia: forse la cattiveria non era innata in lui. Fin dai suoi primi passi fra gli uomini si era sentito, poi si era visto, schernito, biasimato, respinto. Per lui la parola umana era sempre uno scherno o una maledizione. Crescendo, non aveva trovato che odio intorno a sé. Se ne era impossessato. Si era assicurato la cattiveria generale. Aveva raccolto l’arma con cui era stato ferito.»

 

E Quasimodo si era chiuso in se stesso, tra le mura della cattedrale, popolata da statue di santi e di re, suoi unici amici, perché non potevano ridergli in faccia e, anzi, lo osservavano con sguardo benevolo. Nemmeno le statue dei mostri potevano intimorirlo, perché erano troppo simili a lui.

Allora Hugo ci spiega che «la cattedrale non era per lui soltanto la società, ma anche l’universo, ma anche tutta la natura. Non sognava altre spalliere fiorite se non le vetrate sempre in fiore, altra ombra se non quella del fogliame di pietra che si apre carico di uccelli nel folto dei capitelli sassoni, altre montagne se non le torri colossali della chiesa, altro oceano se non quello di Parigi che frusciava ai loro piedi.» E abbiamo qui l’esempio di come Notre-Dame sia la protagonista di questa vicenda, e che il titolo non sia casuale: tutto ciò che avviene nella storia, e molto di più, è contenuto o è in rapporto a questo edificio, al contempo fisico e trasfigurato.

 

Esmeralda

 

Vengo ora a Esmeralda. Lo scrittore non ce la mostra mai sotto la lente psicologica, anzi, per diversi aspetti la donna è un personaggio dissonante. Vero è che finisce in ombra a causa dei personaggi maschili che tentano di vampirizzarla, spogliandola della sua spontanea vitalità. Così accade con Gringoire (che sa poi farsi perdonare), Phoebus de Chateaupers (frivolo cavaliere che la seduce e, si potrebbe dire, l’abbandona), Frollo (che la conduce al patibolo) e Quasimodo stesso, che, pur sapendo di non poterla conquistare, ma non volendo farle del male, non si rassegna a lasciarla andare. Questo atteggiamento maschile nei confronti di Esmeralda è segnalato da episodi come quello della visita di Frollo in carcere. Scrive Hugo: «Era soggiogata, palpitante, affranta, fra le sue braccia, alla sua mercé. Sentiva una mano lasciva vagare su di lei. Fece un ultimo sforzo e si mise a gridare: “Aiuto! a me! un vampiro! un vampiro!”.»

Per questo sembra che Esmeralda agisca sempre di riflesso, sulla base di quanto accade intorno a lei: è certo una donna misteriosa, dotata di fascino, capace di molta ironia, eppure non entriamo mai nella sua psiche. Non sappiamo davvero perché si innamori di Phoebus, né perché scelga di salvare Gringoire, o di avere pietà per Quasimodo. Intuiamo in lei una persona di buon animo, ma Hugo ci mostra come la sua bellezza esteriore e il suo splendore magico la condannino a subire le attenzioni e le cattiverie del popolo.

Esmeralda svolge una funzione narrativa importante: grazie a lei si anima la trama e i personaggi vanno incontro al proprio destino, a partire dalla madre-monaca. Esmeralda però rimane imprigionata dalle catene della società in cui vive, in cui predomina non solo la violenza maschile, ma anche la superstizione popolare. Solo un personaggio rimane indifferente alla sua potenza fatidica: è Phoebus, l’utile idiota che scatena la gelosia iraconda di Frollo, il cavaliere che si fa vivere dalla vita, senza infamia e senza lode, e che per poco non ci lascia le penne.

 

Claude Frollo

 

Per quanto riguarda Frollo, Hugo dovette ritrovarsi in lui per la parte relativa alla ricerca alchemica. In qualità di arcidiacono, Frollo trascorre le giornate a guardare i dettagli della cattedrale, dentro cui ha allestito un proprio studiolo. In lui troviamo diversi tratti di misoginia (che sarebbe troppo facile attribuire alle delusioni matrimoniali dello scrittore) e pregiudizi sociali tipici di quell’epoca, ma al contempo Frollo non è da subito un personaggio negativo. La sua malvagità cresce capitolo dopo capitolo, fino a divenire fuori controllo.

La veste di studioso alchemico ritiratosi dal mondo lo rende, in un primo tempo, un esempio virtuoso di cercatore del sapere. Nel quinto libro, Frollo si confronta con un medico e ne nasce un dialogo tra scienza, fede e alchimia, che rispecchia gli interessi di un’epoca tardomedievale tutt’altro che oscura. Presto, però, il dialogo si trasforma in un monologo di Frollo, con punte deliranti. La somma conoscenza alchemica gli è sfuggita di mano e, anziché elevarlo, lo ha fatto precipitare nella megalomania. È egli stesso ad ammettere di non aver scoperto il “segreto dell’oro”: «Divenne dunque sempre più sapiente e nello stesso tempo, come conseguenza naturale, sempre più rigido come prete, sempre più triste come uomo. Ci sono, per ciascuno di noi, certi parallelismi fra le nostre intelligenze, i nostri costumi e il nostro carattere, che si sviluppano senza discontinuità, e che non si spezzano se non nelle grandi perturbazioni della vita.»

 

Frollo è estraniato dal mondo, non è immerso in esso, e solo con il dipanarsi della trama scopriamo il tormento materiale che lo lega a Esmeralda. Egli resta in bilico su quella linea sottile che separa la sapienza dalla follia; quando perde l’equilibrio, la sua frustrazione per essere stato respinto si traduce in una perversione («Umiliami, colpiscimi, sii cattiva! fai quello che vuoi! Ma, grazia! amami!» le grida) e nella violenza.

Il personaggio antitetico a Frollo è Gringoire, il quale persegue inconsapevolmente una strada di miglioramento. Non a caso, verso la fine del romanzo, si svolge tra loro un dialogo emblematico, che pone come un sigillo: «“E voi non desiderate nulla?”. “No”. “Non rimpiangete nulla?”. “Né rimpianto, né desiderio. Ho messo ordine nella mia vita”. “Quello che gli uomini assestano”, disse Claude, “le cose lo dissestano”. “Sono un filosofo pirroniano”, rispose Gringoire, “e tengo tutto in equilibrio”. “E come vi guadagnate la vita?”. “Scrivo ancora oggi tante epopee e tragedie; ma quello che mi rende di più è quella mia abilità a voi ben nota, maestro mio. Portare piramidi di sedie con i denti”. “È un mestiere volgare per un filosofo”. “Richiede pur sempre equilibrio”, disse Gringoire. “Quando si ha un pensiero, lo si ritrova in tutto”. “Lo so”, rispose l’arcidiacono. Dopo un attimo di silenzio il prete riprese: “Nondimeno siete abbastanza miserabile”. “Miserabile sì, infelice no”.»

 

La folla, l’aristocrazia, la città

 

Per finire, una nota sulla folla, personaggio a sé stante. La vediamo in apertura, ci accompagna per tutto il romanzo, tra popolani in festa, reietti della Corte dei Miracoli, aristocratici.

Nel sesto libro la folla torna con prepotenza sulla scena; riecheggia il coro del teatro greco, quell’entità che un momento ti elegge a papa e quello successivo ti mette alla gogna con ferocia. In questa massa umana si distingue la Corte dei Miracoli, che verso la fine assalta Notre-Dame, ovvero la cattedrale-mondo. I reietti attaccano questo simbolo del potere, ma – sembra dirci Hugo – non si rendono conto che la cattedrale sia a loro speculare.

Nel terzo libro, infatti, lo scrittore definisce Notre-Dame una costruzione ibrida, prodotto di un’opera sociale più che individuale, al pari dei resti ciclopici e delle piramidi d’Egitto. La cattedrale nasce da una sovrapposizione di strati: «ogni individuo aggiunge la sua pietra. Così fanno i castori, le api, così fanno gli uomini. Babele, il grande simbolo dell’architettura, è un alveare.»

E nello stesso libro ci dice che in realtà è l’intera Parigi a non avere una fisionomia particolare, perché al ritmo del suo tempo – l’Ottocento – la città è destinata a rinnovarsi ogni cinquant’anni. In lei si possono trovare i resti dei secoli, la cronologia dei re francesi, con i loro stili. Ma molta di questa grandezza è scomparsa per sempre, aggiunge Hugo.

Quando, nel libro decimo, compare persino la figura del re di Francia, questi ci appare un omuncolo capriccioso, ben attento a non scontentare il popolo, qualsiasi cosa chieda. Quando deve decidere che cosa farne della «strega», ovvero di Esmeralda, egli domanda al prevosto di Parigi il parere del popolo. Questi gli dice che suppone la vogliano impiccare. Il re ci pensa, forse un’immagine profetica gli provoca un brivido alla schiena, e risponde: «“Ebbene! Compare mio, massacra il popolo e impicca la strega”. “Ecco qui”, disse a bassa voce Rym a Coppenole, “punire il popolo di volere e fare ciò che esso vuole”.»

 

In chiusura, Hugo ci lascia con l’immagine emblematica del potere monarchico, descrivendo il Gibet di Monfaucon, principale patibolo dei re di Francia, demolito solo nel 1760. Per secoli vi morirono criminali e traditori, e i loro corpi venivano lasciati penzolanti, come monito alla popolazione: «Questo è Montfaucon. Alla fine del quindicesimo secolo, la terribile forca, che risaliva al 1328, era già piuttosto cadente. Le travi erano tarlate, le catene arrugginite, i pilastri verdi di muffa. Le strutture in pietra da taglio erano tutte spaccate alle giunture, e l’erba spuntava su questa piattaforma dove i piedi non toccavano. Era orribile il profilo con cui il monumento si stagliava contro il cielo: soprattutto di notte, quando c’era un po’ di luna su quei crani bianchi o quando la brezza della sera batteva contro catene e scheletri e li faceva ondeggiare nell’ombra. Bastava la presenza di quella forca per rendere sinistri tutti i luoghi circostanti.»

In un sotterraneo di Montfaucon, si trovava un vero e proprio carnaio umano, che includeva le ossa di Enguerrand de Marigni, il suo costruttore, che seguiva così il destino dei suoi omologhi nell’antico Egitto. Vi si trovavano anche i resti della «strega» e del gobbo, disposti come quegli ominidi preistorici che sembrano alludere a un’intimità in vita. In entrambi i casi, però, la storia potrebbe rivelarsi più complessa.

 

La forza dirompente delle descrizioni

 

Victor Hugo, Piovra con le iniziali V. H. (1866)

La commistione di generi è arricchita da un’incredibile capacità descrittiva. In molti casi, le descrizioni risultano sovrabbondanti, quasi da elenco telefonico, con una sfilza di nomi e di toponimi. Eppure è evidente la ricerca storica e documentaria compiuta da Hugo, la sua voglia di non tralasciare nulla, per fare in modo che l’opera includa davvero l’universo.

Nelle sue descrizioni vi è un continuo riferimento ai secoli successivi, un’anticipazione degli sviluppi sociali e architettonici. Il titolo dell’opera ci fa capire che il libro sia il racconto di un luogo nel tempo, prima ancora che dei suoi attori o costruttori. Lo vediamo nella descrizione di Place de Grève, del tutto decontestualizzata dal racconto, ma scritta con tanta passione che l’innesto appare la cosa più naturale. Inoltre, questo espediente è un modo, per Hugo, di mostrare come la sua epoca avesse raggiunto traguardi di civiltà che era bene non dimenticare.

 

In altri casi, le descrizioni del romanzo sono un puro divertissement letterario. Quella che ho trovato più bizzarra si trova nel secondo libro, quando Hugo paragona Esmeralda alla capretta Djali e viceversa: «Ma Gringoire aveva comunque perso il filo delle sue idee. Per fortuna lo ritrovava subito e lo riannodava facilmente, grazie alla zingara, grazie a Djali, che camminavano sempre davanti a lui; due fini, delicate e splendide creature, di cui ammirava i piedini, le belle forme, i modi aggraziati, quasi confondendole nella sua contemplazione; per l’intelligenza e la buona amicizia credendole entrambe fanciulle; per la leggerezza, l’agilità, la destrezza del passo trovandole entrambe capre.»

In altri casi, lo scrittore accompagna l’azione con descrizioni-fiume che mirano a evocare un certo clima: i dialoghi sono aboliti, o inseriti come frammenti di un discorso più ampio e perduto, eppure udiamo il suono ben distinto del chiacchiericcio della piazza. Hugo mostra doti da regista teatrale o cinematografico, e quelle descrizioni-fiume si potrebbero tradurre in pochi secondi di pellicola.

 

Altre descrizioni hanno un tono molto più cupo, come quella dedicata alla cella in cui viene letteralmente sepolta Esmeralda: densa di riferimenti danteschi, filtrati da un’anima romantica, si tratta di uno dei momenti più oscuri del romanzo, in un’atmosfera ancora più gotica rispetto agli interni della cattedrale.

La vena poetica e drammatica di quelle pagine si alterna però alle descrizioni quasi scientifiche della città. Il terzo libro è analogo al capitolo sulla cetologia di Melville: oggi nessuna casa editrice lo pubblicherebbe. Al limite, potrebbe diventare un’elaborata guida turistica o un articolo di Focus. Se però si dà fiducia allo scrittore e ci si affida alla costruzione del suo gioco, alla fine della lettura rimane la sensazione di aver conosciuto un luogo eterno, descritto nei suoi continui mutamenti. Il rapporto che Hugo instaura tra microcosmo e macrocosmo, ovvero tra essere umano e cattedrale (o città), richiama quei trattati rinascimentali che intessevano analogie tra l’anatomia e le strutture architettoniche o naturali.

Lo scrittore però si diverte anche a burlarsi del lettore, e lo vediamo dopo ogni mirabolante e seriosa descrizione, quando Hugo comincia un nuovo capoverso con l’espressione «Per riassumere.»

 

Victor Hugo libero pensatore

 

Victor Hugo, Il faro (1866)

A differenza di scrittori come Doyle, Kipling, Casanova, Carducci e altri, per i quali abbiamo documenti certi, non si sa con certezza se Hugo facesse parte della Massoneria, oppure se fosse un rosacrociano o un martinista. Quel che è certo è la sua adesione al filone dei liberi pensatori, condividendo non pochi temi massonici nelle sue opere.

Da punto di vista spirituale, da giovane lo scrittore era un cattolico convinto; con il passare degli anni divenne non praticante, per poi passare a posizioni anticlericali. Durante l’esilio, si avvicinò allo spiritismo, interesse che condivise con Doyle, partecipando alle sedute spiritiche condotte da Madame Delphine de Girardin. In seguito, aderì al deismo razionalista. Quando un censitore, nel 1872, gli chiese se fosse cattolico, Hugo rispose: «No. Un libero pensatore.»

 

Nella sua vita, Hugo entrò in contatto con diversi massoni, che arricchirono le sue idee. Uno di questi fu Victor Schœlcher, scrittore iniziato nel 1820, a soli sedici anni, nella loggia parigina Les Amis de la Vérité, del Grand Orient de France, che portava avanti istanze rivoluzionarie. In particolare, Schœlcher si batteva per l’abolizione della schiavitù e del colonialismo francese nei Caraibi. Hugo si unì alla sua battaglia. Tra le varie iniziative, nel 1859 scrisse una lettera per chiedere al governo degli Stati Uniti di risparmiare la vita dell’abolizionista John Brown: «Sicuramente, se l’insurrezione è mai un dovere sacro, deve esserlo quando è diretta contro la schiavitù.» Vendette anche un suo disegno, Le Pendu, un omaggio a Brown, affinché si mantenesse viva «negli animi la memoria di questo liberatore dei nostri fratelli neri, di questo eroico martire John Brown, che è morto per Cristo come Cristo.»

Il 17 agosto 1862, fece una delle dichiarazioni più forti ed esplicite sul tema: «Basta uno schiavo sulla Terra per disonorare la libertà di tutti gli uomini. Quindi l’abolizione della schiavitù è, in questo momento, l’obiettivo supremo dei pensatori.»

L’appello fatto al governo statunitense era tanto accorato anche perché in quella giovane repubblica Hugo vedeva un modello inedito di espressione della libertà. Su quell’esempio, egli fu tra i promotori del concetto di Stati Uniti d’Europa, già introdotto dai massoni George Washington e Napoleone Bonaparte. Nel 1849, al Congresso di pace di Parigi, tenne un discorso d’apertura, in cui disse: «Verrà un giorno in cui vedremo i due grandi gruppi, gli Stati Uniti d’America e gli Stati Uniti d’Europa, uno di fronte all’altro, porgersi la mano attraverso i mari, scambiarsi i prodotti, il loro commercio, le loro industrie, le loro arti, i loro geni, collaborare insieme per trarne il benessere di tutti.»

 

Prima di Notre-Dame de Paris, Hugo scrisse L’ultimo giorno di un condannato a morte (1829), in cui descrive i dolori di un uomo in attesa dell’esecuzione, forse un modello in seguito ripreso da Jack London ne Il vagabondo delle stelle. Hugo si espresse sul tema anche nei suoi diari e nell’attività parlamentare.

In Notre-Dame vi è un fil rouge legato al libero pensiero. Ne abbiamo un assaggio già nel primo libro, quando Hugo si prende gioco di quelle corporazioni che cercano di combattere il cambiamento, nella speranza di poter conservare il loro privilegio. Il libraio patentato dell’Université si sfoga con il pellaio-pellicciaio del guardaroba del re: «Le dico, signore, che è la fine del mondo. Non si era mai vista un’esuberanza simile tra gli studenti. È colpa delle maledette invenzioni del secolo che conducono tutto alla perdizione. […] Basta manoscritti, basta libri! La stampa uccide le librerie [francese la libraire, che indica l’arte libraria artigianale]. Sta arrivando la fine del mondo.»

 

Contro l’oscurantismo

 

La lotta all’oscurantismo degli uomini di Chiesa e dell’aristocrazia, di cui Phoebus è lo zimbello, prende forma intorno a Gringoire. Hugo lo inserisce tra «quegli spiriti eletti e saldi, moderati e calmi, che sanno sempre mantenersi equidistanti (stare in dimidio rerum), e che sono pieni di ragione e di filosofia liberale, pur tenendo nella debita considerazione i cardinali.»

Gringoire appartiene a una stirpe di filosofi in grado di dipanare il gomitolo dell’esperienza umana, e che «ritroviamo in ogni tempo, sempre gli stessi, ovvero sempre in armonia con ogni tempo.» Per accrescere il prestigio di Gringoire in quel consesso di liberi pensatori, in cui potrebbero rientrare i vari Giordano Bruno e Paolo Sarpi, lo scrittore cita l’abate benedettino Jacques du Breul: «Io sono parigino di nascita e parrisiano nel parlare, dal momento che parrhisia in greco significa libertà di parlare: della quale ho usato anche verso monsignori i cardinali, zio e fratello di monsignor il principe di Conty; tuttavia con rispetto della loro grandezza, e senza alcuno offendere del loro seguito, che non è poco.»

 

Il pregio di questi pensatori è aver trovato il modo di esprimere il non-detto, ciò che il potere costituito non permetteva di dire, sfruttando gli stessi meccanismi del potere per decostruirlo dall’interno.

È quanto fecero anche gli illuministi, fino a emanciparsi dal pensiero dogmatico dominante. Nel secondo capitolo, Hugo ricostruisce in maniera ironica il grande miracolo della statua della Vergine, all’angolo della Rue Mauconseil, che, nella notte tra il 6 e il 7 gennaio 1482, avrebbe esorcizzato il defunto Eustache Moubon, la cui anima si nascondeva in un pagliericcio per sfuggire al diavolo. Nulla di più falso, ci racconta Hugo, e si inventa una storia che, nella sua finzione, è più plausibile: Gringoire viene creduto il defunto Moubon da parte di alcuni bambini, che pensano bene di dargli fuoco con il pagliericcio. Ma Gringoire, che era solo svenuto, si riprende e li mette in fuga, dando vita alla storia della resurrezione di Moubon per opera della Vergine.

Nel racconto c’è un’ironia alla Boccaccio, una storia che ricorda lo spirito della novella di Frate Cipolla nel Decameron, integrato dal più recente Voltaire del Dizionario filosofico, che razionalizza miti e pregiudizi, non senza una vena anticlericale.

 

L’abolizione della pena di morte

 

In molti brani, Hugo assapora l’amore nostalgico per il passato e per l’arte, ma non viene mai meno la gioia di poter vivere in un presente più libero. Proprio l’attualità lo porta a proiettarsi in avanti nel corso del romanzo: il Quattrocento viene così raccontato anche attraverso la lente dei secoli successivi e della Rivoluzione. Hugo rimane ammaliato dal piacere decadente o romantico per la rovina e per il passato mitologico, ma è ben conscio del potere positivo delle trasformazioni occorse.

Sul tema della pena di morte, Hugo è esplicito nel secondo libro: «È consolante, diciamolo di sfuggita, pensare che la pena di morte, che trecento anni fa ingombrava ancora di ruote ferrate, di forche di pietra, di tutto il suo armamentario inamovibile di supplizi fisso sul selciato […] non rimanga più nella nostra immensa Parigi altro se non un angolo ignominioso della Grève, una miserabile ghigliottina, furtiva, timorosa, vergognosa, che sembra sempre temere di esser colta in flagrante delitto, tanto velocemente scompare dopo aver colpito!».

 

La descrizione della Place de Grève era cominciata proprio con toni nostalgici, per poi tradursi nel sollievo per l’abbandono di quel sistema di morte ben oliato.

Hugo scrive anche sulla tortura: nel libro ottavo, mastro Jacques Charmolue la applica a Esmeralda, che viene allontanata dalla sala. Lo scrittore sottolinea il cinismo dei presenti, che si lamentano della donna, per non aver sùbito confessato, costringendoli a ritardare la cena.

Hugo ci descrive i preparativi nella sala delle torture, il terrore che congela la donna, lo sguardo sperduto che cerca una via di fuga irraggiungibile. I torturatori si avvicinano, Esmeralda si sente «profondamente abbandonata da Dio e dagli uomini»; infine confessa, per far cessare l’agonia. Il procuratore del re le ricorda che, confessando, sarà condannata a morte, ed Esmeralda risponde di non sperare altro. Segue la redazione della confessione, una farsa in cui Esmeralda è costretta a dire di aver partecipato ai sabba, di aver visto l’ariete di Belzebù, di aver adorato «le teste di Baphomet, quegli abominevoli idoli dei templari.»

Al termine della confessione, Hugo ci racconta che qualcosa in lei si fosse spezzato, ma la donna non ha tempo per riprendersi, che uno dei torturatori sminuisce la sua condizione e, anzi, vanta la «dolcezza» del loro agire.

 

La ricerca alchemica

 

L’interesse di Hugo per la ricerca esoterica emerge in particolare nel quinto libro. Qui Frollo discute con un medico e un astrologo sulla validità dell’alchimia, sostenendo che essa abbia portato a scoperte che nessun altra scienza ha saputo ottenere.

In particolare, Frollo contesta la medicina e l’astrologia, quali scienze inferiori all’alchimia. Il medico Coictier cerca di trovare un compromesso, ma Frollo è inamovibile: per lui la medicina è folle, mentre l’astrologia non ha alcun rapporto con la realtà. Cita alcune scoperte dell’alchimia, come la trasformazione del ghiaccio in cristallo di rocca dopo essere rimasto sottoterra per mille anni. Definisce poi il piombo l’antenato di tutti i metalli e l’oro come luce.

Frollo parla di dati concreti, trattando l’astrologia come sciocca superstizione, ma non si rende conto di aver trasformato la ricerca alchemica in un nuovo dogma e di aver confuso la teoria con la prassi: «L’oro è il sole, fare l’oro è essere Dio. Ecco l’unica scienza. Ho sondato la medicina e l’astrologia, vi dico! Niente! Niente! Il corpo umano, tenebre; gli astri, tenebre!».

Eppure egli stesso si compiange, perché quei dati sono per lui teoria, non già esperienza vissuta: «Ma no, striscio ancora: mi scortico la faccia e le ginocchia sui ciottoli della via sotterranea. Io intravedo, non contemplo!» e aggiunge, con espressione massonica «Io non leggo, compito!».

 

Nel settimo libro, entriamo nello studiolo di Frollo, ritagliato all’interno di Notre-Dame. Sulle pareti si trovano frasi scritte con l’inchiostro o con una punta di metallo; il testo include alla rinfusa lettere gotiche, ebraiche, greche e romane. Si sovrappongono i saperi della filosofia e delle religioni; compaiono motti greci o latini, come «Unde? Inde?Homo homini monstrum. – Astra, castra, nomen, numen. – Μέγα βιβλίον, μέγα κακόνSapere audeFlat ubi vult, ecc.» Ricorrenti i disegni di stelle, figure di uomini e di animali e triangoli che si intersecano.

Tutto questo, però, non è che un delirio iper-intellettualistico di Frollo, che ha ormai perso il vero spirito dello studio alchemico e l’ha ridotto a una mera ricerca materialistica per trasformare la luce solare in oro.

Il fallimento di quel percorso è confermato da un dettaglio descrittivo: la celletta «presentava un aspetto generale di abbandono e di sfacelo; e il cattivo stato degli utensili lasciava supporre che altre preoccupazioni avessero già da molto tempo distratto il maestro dai suoi lavori.» L’ossessione per Esmeralda aveva fatto cadere ogni illusione.

 

Una storia dell’umanità

 

Il quinto libro è importante anche perché compare una vera e propria storia dell’umanità, il cui punto nodale è l’invenzione della stampa.

Hugo fa un confronto tra arte e architettura: se la cattedrale è simbolo della trasformazione in atto; il romanzo appare una sintesi della storia dell’arte. Infatti, come Frollo “legge” da anni l’edificio della cattedrale, scoprendone cose nuove e più profonde, così il lettore si trova di fronte a tante “stanze” – gli ambienti, i personaggi – che, a modo loro, contribuiscono allo spessore dell’opera.

Frollo è conscio del passaggio storico secondo cui la stampa avrebbe ucciso l’architettura. Dall’origine delle cose al XV secolo d.C., l’architettura è stata il grande libro dell’umanità, «l’espressione principale dell’uomo ai suoi diversi stadi di sviluppo, sia come forza che come intelligenza.»

Quando la mole della memoria storica e sociale divenne troppo grande per essere ricordata, l’umanità trascrisse sul suolo la memoria e ogni tradizione fu “suggellata” in un monumento. I primi blocchi di pietra erano come la formazione di un alfabeto rudimentale; ciascuna pietra formava un geroglifico, su cui «poggiava un gruppo di idee, come il capitello sulla colonna.» Il dolmen e il cromlech celtico, il tumulo etrusco, il galgal ebraico venivano lette come parole.

 

Trascorrono i millenni e Hugo ci porta al tardo Medioevo europeo. Il nuovo spirito dei tempi detta all’architettura le sue novità: elementi architettonici come l’ogiva o fattori politici come la libertà raggiunta dalle nazioni rispetto al giogo della Chiesa romana. La cattedrale, un tempo dogma del potere inscritto su pietra, sfugge al controllo teologico e «cade nel potere dell’artista», grazie all’apporto della borghesia e del governo comunale. L’artista abbandona la legge e si apre alla fantasia: «Il libro architettonico non appartiene più al sacerdozio, alla religione, a Roma: appartiene all’immaginazione, alla poesia, al popolo.»

Tirando le somme, Hugo spiega che fino al XV secolo l’architettura fosse il «registro principale dell’umanità», con cui ogni idea religiosa o popolare venne espressa. L’essere umano scelse la pietra perché era l’unico modo per perpetuare un’idea nel tempo, per lasciare traccia di sé. Per distruggere un libro antico – ci dice il narratore – basta una torcia; per annientare la parola edificata occorre invece una rivoluzione sociale.

L’invenzione della stampa, però, permette al pensiero di perpetuarsi in forma più resistente, semplice e facile rispetto all’architettura. Si tratta del «più grande avvenimento della storia. È la rivoluzione madre. È il modo di espressione dell’umanità che si rinnova totalmente, è il pensiero umano che si spoglia di una forma e ne riveste un’altra, è la muta completa e definitiva di quel serpente simbolico che, fin dai tempi di Adamo, rappresenta l’intelligenza.»

 

A quel punto, il testo si apre a un panegirico del libro. Bibbia e Piramidi, Iliade e Partenone, Omero e Fidia: queste sono le analogie, fino a giungere a Dante, definito l’ultima chiesa romanica, e a Shakespeare, l’ultima cattedrale gotica.

Hugo ci dice che sia normale rimpiangere la maestà della scrittura su pietra, e che anzi sia necessario studiare i monumenti del passato, ma che non bisogna avere paura della novità: non si deve negare il colossale edificio che la stampa è in grado di erigere. In fondo, i libri sono come mattoni, che anziché accumularsi in verticale, costituiscono un sapere diffuso su tutto il pianeta. L’edificio della stampa è simbolico: è come un alveare, con le sue tenebrose caverne della scienza; è come un edificio di mille piani, con i suoi arabeschi, rosoni e trine.

L’armonia della struttura risulta dal tutto, come una melagrana; la metropoli è in continua espansione e «il prodigioso edificio rimane sempre incompiuto.» L’umanità intera è sull’impalcatura: «Ogni spirito è muratore.», e non mancano gli apporti della collettività, come l’Encyclopédie nel Settecento. È una nuova torre di Babele, costruita con il «concorso accanito dell’intera umanità, rifugio promesso all’intelligenza contro un nuovo diluvio, contro una sommersione di barbari.»

È difficile trovare pagine più ispirate di queste contro l’autoritarismo e in difesa della libertà di espressione.

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