La psicologia di Jack London con... Argyros Singh

 

Ottavo appuntamento psicologico-letterario a cui partecipo sul canale Il bar della psicologia, gestito dal dottor Adriano Grazioli, che potete trovare sui vari social. La rubrica in cui mi inserisco è il Podcast letterario, all’episodio 45. Di seguito, trovate il video su YouTube e qui il link a Spotify: segue una selezione scritta di alcuni interventi centrali.


 

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AS: Ci sono analogie tra London, Hemingway e Melville. Hemingway fu più volte inviato di guerra e partecipò al primo conflitto mondiale; London fu inviato nella guerra russo-giapponese e si racconta l’episodio in cui fu addirittura il presidente Roosevelt a interessarsi alla sua sorte quando finì arrestato dai giapponesi. Altre analogie tra gli scrittori americani riguardano gli aspetti familiari: per esempio, il tema del cognome lo avvicina alla storia biografica di Edgar Allan Poe. Per un breve periodo, London fu anche marinaio, e questo lo affiancherebbe a Melville.

Tutte queste similitudini sono forse più superficiali che sostanziali, e coinvolgono un mondo, quello statunitense a cavallo tra Ottocento e Novecento, che offriva agli scrittori situazioni simili. Ciò per cui London si distingue è la sua posizione socialista, di un socialismo molto particolare. Per certi versi, Hemingway condivise alcune istanze socialiste, ma la sua forza individualista lo allontanava da quella ideologia: il personaggio londoniano di Martin Eden è in qualche modo un’esemplificazione di questa mescolanza, in Hemingway, di velleità socialiste e individualismo preponderante, un carattere molto americano.

 

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AG: London si propone come uno scrittore che vuole avvicinare quello che è il mondo reale a quelle che sono opere di fantasia, facendo percepire qualcosa (una morale?) che cambi il lettore. Farsi un fuoco, per esempio, è un racconto breve di London, incalzante, con un grande messaggio finale, legato al rapporto uomo-natura: le cose non vanno sempre come vorremmo e dobbiamo fare i conti con questo. Il vagabondo delle stelle è il prototipo di tanta letteratura sul tema della pena di morte. Se negli Stati Uniti Steinbeck è lo scrittore-pedagogo per eccellenza, nemmeno London scherza in tal senso.

 

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AS: London è quello che si definisce uno “scrittore impegnato”, c’è però un grosso “ma”. Il richiamo della foresta e Zanna bianca sono storicamente le sue opere più conosciute in Italia; solo negli ultimi anni volumi come Martin Eden, Il vagabondo delle stelle e Il popolo dell’abisso stanno conoscendo una seria diffusione tra il pubblico. Sono le opere più politiche.

In realtà, anche i due libri più celebri hanno risvolti, se non politici, quantomeno filosofici e antropologici. C’è il rapporto uomo-natura, l’istinto di sopravvivenza, l’espressione della più feroce forma dell’animale e dell’uomo, che è poi la stessa cosa. Nella scorsa live citavo Robert Frost, che scriveva di ciò che stava al di fuori della città americana; se andiamo più indietro nel tempo, troviamo Walden di Thoreau e altre opere: London si inserisce in questo filone naturalistico, non edenico, nemmeno romantico, ma che è espressione della lotta al confine tra umano e naturale, dove a volte l’uomo vince, più spesso perde.

Quando invece London torna alla città, diventa uno scrittore molto corrosivo. Oltre agli scritti politici nella forma del romanzo di formazione o di quello sociale, London fu anche scrittore di fantascienza, negli stessi anni in cui Wells stava ottenendo un notevole successo. E come tutta la grande fantascienza, anche la sua presentava temi politici e filosofici in maniera più o meno velata, metaforica, per esempio in un racconto incentrato su un uomo invisibile (tema trattato nello stesso periodo proprio da Wells).

 

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AG: Nel romanzo postapocalittico La peste scarlatta, London si concentra sul decadimento dei costumi sociali e sul ritorno dei riti propri del pensiero magico: tornano gli stregoni, gli sciamani, il riferimento a libri sacri. London fu uno scrittore poliedrico, ma rimase sempre legato a una concreta lezione di vita; fu uno scrittore introspettivo, ma molto più sintetico di tanti altri autori del genere. In Martin Eden c’è un’evoluzione politica e sociale, ma anche psicologica, così come ne Il vagabondo delle stelle. Quando, mesi fa, abbiamo parlato di Taras Bul’ba, abbiamo raccontato di come Gogol’ probabilmente non avesse mai preso in mano una spada: in genere, così non è per London, in cui le azioni descritte hanno un valore reale, fanno riferimento a qualcosa di vissuto.

 

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AS: London si riallaccia all’“onestà delle cose”. Racconta cose vere o verosimili: spoglia una realtà e la ricostituisce, e questo è evidente ne Il tallone di ferro.

C’è un filone naturalistico dove tutto è a nudo: è lo stato di natura. L’unica civiltà presente è sparuta, una civiltà del limes: London va dove il selvaggio sopravvive e dove sente che l’essere umano abbia ancora qualcosa da imparare su se stesso. Poi c’è il filone fantascientifico, che anticipa tanti topoi della narrativa di genere. Qui lo scrittore si diverte a fantasticare sul domani: è il London più leggero, anche quando parla di grandi catastrofi. Infine, c’è il London politico, di cui Martin Eden è l’espressione più matura. Ora, in un dialogo, il protagonista nega di essere socialista e, anzi, si definisce un «nemico giurato» del socialismo: egli si ritiene individualista, e considera questa posizione come nemica rispetto al socialismo. In pratica, Eden è un darwinista sociale: ritiene che nello stato di natura, tolte le sovrastrutture sociali, vinca solo il più forte.

L’ambiente a cui si riferisce Eden è quello de Il richiamo della foresta, o di un racconto feroce come Bâtard, ma certo non basta volere una condizione perché questa si realizzi. La società, nonostante tutto, rimane. E infatti Eden sceglie di stare al gioco, un gioco che poi si rivela una sfida sempre più dura. Parte non da zero possibilità, ma da meno cinque: si dà da fare e alla fine ottiene il successo, dopo aver perduto molto in termini di salute e di quella sua spontanea natura selvaggia. E alla fine, quando finalmente si rilassa, esplode: crolla tutta l’impalcatura che, come Atlante, aveva tenuto sulle spalle. Viene sovrastato dal peso titanico-nietzschiano che aveva trattenuto: Eden conosce non solo l’oltreuomo che ottiene ciò che vuole imponendo la propria volontà, ma anche quell’oltreuomo che si rende conto di dover andare incontro a una morte inevitabile.

 

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AG: Eden mette in guardia la nobiltà con cui interagisce e che disprezza gli umili, proprio perché senza di loro essi non avrebbero il loro status. L’evoluzione del protagonista è basata su un profondo senso di rancore: somatizza tanto, sacrifica il suo giovane corpo, fino a raggiungere la forma sperata. Si rende però conto che questa non è splendida come si aspettava. Lo stesso London, raggiunta la fama, aveva mantenuto condizioni di vita al limite, per esempio con l’abuso di alcool. È come se il cinismo avesse vinto il bisogno di autoconservazione.

Comunque sia, Eden ha una chance e la sfrutta: ci insegna che per avere successo ci vuole tempo, ed è un insegnamento molto attuale. Noi riceviamo una carica di dopamina, rilasciata nel sangue, prima di raggiungere l’obiettivo. E così Eden, raggiunto l’impossibile, si accorge che niente abbia quel senso che si aspettava. L’unica che poteva fare la differenza era l’amata Ruth, che però non aveva modificato la propria vita e non aveva mai apprezzato in cuor suo il cambiamento dell’uomo. Eden, a quel punto, si sente un outsider: non più parte di un umile classe sociale; incompreso dall’aristocrazia.

 

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AS: Eden rivendica per sé un’autonomia di intelletto: giustifica tutto con l’amore, ma questa motivazione viene meno nel corso del romanzo. D’altra parte, alla fine, è lui a dire di no a Ruth. La motivazione evidentemente era un’altra: era una ricerca interiore, che partiva dalla necessità di accrescere la propria autostima alla scoperta di un significato complessivo sulla vita.

A questo punto, lo scrittore si inserisce tra le pagine. In London, non viene mai meno il concetto di un passato astorico, in cui l’essere umano fosse puro, in una condizione, appunto, “edenica”: il protagonista è riflesso del “buon selvaggio” di Rousseau, ma non aderisce del tutto a quel canone. In realtà, il filosofo svizzero non teorizzò questo concetto: fu una rielaborazione successiva del suo pensiero, compiuta tanto dal fronte conservatore, quanto da quello riformista o socialista. Rousseau, nel Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza tra gli uomini, stava supponendo una condizione: era un esperimento sociale, non una verità storica. Il mondo socialista (e non solo) ha frainteso questa idea del “buon selvaggio”: Eden non è affatto tale. È un essere umano dotato di intelligenza, sfavorito soltanto dalle condizioni di partenza: d’altra parte, però, non sembra essere mai esistita una civiltà storica che facesse partire tutti i suoi membri dallo stesso livello. Alla fine, ho l’impressione che il Martin Eden che vinca sia quello che sconfigge Jack London sul piano dell’individualismo, ovvero: l’Eden individualista è più convincente delle idee socialiste che voleva attribuirgli lo scrittore.

 

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AG: Quando Eden si accorge di essere giunto all’apice della “catena alimentare”, si rende conto di vivere una desolazione interiore. In qualche modo, il personaggio è avvicinabile al Mastro-don Gesualdo di Verga: quest’ultimo però non cambia il suo atteggiamento intrinseco legato alla classe sociale d’origine, mentre Eden comincia a nutrire un vero e proprio disprezzo nei suoi confronti.

Proprio in quanto outsider, il suicidio di Eden rappresenta l’ultimo atto di autoaffermazione: la scelta del suicidio riprende il concetto epico di morire al di là delle divinità. Niente può terminare Martin Eden se non egli stesso: solo lui può riportarsi al baratro da cui era partito.

 

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AS: Oltre al cognome Eden, anche il nome – Martin, Martino, Piccolo Marte – ha probabilmente un significato simbolico. Ciò a cui va incontro questo Piccolo Marte è la morte, come esemplificato dall’incontro finale con gli squali, diverso dall’analogo rapporto con questi animali che si trova ne Il vecchio e il mare di Hemingway. Lì gli squali passano da avversari, che vincono il pescatore, a fratelli in un oceano sterminato. E il vecchio, nonostante tutto, mantiene una positività verso il futuro. Questo non accade con Eden, il quale rifiuta con sdegno la morte provocata dagli squali e autodetermina il proprio annegamento.

Il tema del suicidio o della morte ricorre in London: per esempio il racconto Le mille e una morte, che dà nome alla raccolta, presenta un salvataggio da un possibile annegamento, in una storia che è incentrata su un angustiante rapporto tra padre e figlio. Di suicidio si parla anche ne Il popolo dell’abisso, in riferimento ai dati statistici che attribuiscono il gesto ai poveri, per disperazione. Ne Il vagabondo delle stelle il protagonista va incontro all’impiccagione. Il concetto del soffocamento ha probabilmente un legame con la biografia di London: è comunque un suo luogo ricorrente.

 

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AG: In tempo di pace il guerriero è il peggior nemico di se stesso, scriveva Nietzsche: e il Piccolo Marte, giunto alla pace, si ritrova in questa condizione. I simboli dell’acqua e del soffocamento fanno riferimento a un rapporto materno, ma anche di crescita. In àmbito freudiano, il soffocamento è una percezione comune quando sopravviene una necessità di avviare un processo di individuazione. Il concetto di suicidio fa capo, in genere, a una necessità narcisistica: nella nostra società, il suicidio può essere un atto narcisistico perché il soggetto sceglie di ritirarsi dal mondo, ma talvolta lo può fare con un intento maligno, ovvero con il desiderio di voler fare del male a qualcun altro.

 

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AS: London morì abbastanza giovane e avrebbe avuto bisogno di più tempo per sviluppare il tema “spirituale” degli ultimi anni: per questo non credo alla tesi del suo suicidio. Non perché non fosse in linea con il contenuto dei suoi scritti, ma perché le sue ultime opere stavano elaborando un nuovo percorso.

Ne Il vagabondo delle stelle c’è attivismo civile, ma molto più moderato rispetto a romanzi come Il tallone di ferro. Nello stato di natura di cui parla ne Il richiamo della foresta e in Zanna bianca, tutto rientra nel flusso del ciclo della natura, dove non c’è il punto di vista dell’animale, che è invece parte di un flusso vitale. Al contrario, l’uomo vive non solo tale flusso, ma anche l’individualità, la propria coscienza. Solo una presa di consapevolezza finale, come ne Il vagabondo delle stelle, permette al protagonista di riappropriarsi del senso di un flusso vitale, e così si impone il tema della metempsicosi.

In parallelo a questo discorso c’è il tema dell’immortalità da un punto di vista fantascientifico: nel racconto Il ringiovanimento del maggiore Rathbone si parla di un siero che, come un flusso, ringiovanisce agendo a livello cellulare. La domanda di fondo è: che cosa accadrebbe a un novantenne se, all’improvviso, avesse il corpo di un ventenne? La persona di novant’anni ha già fatto la sua esperienza di società, di civiltà, di sovrastrutture: come dicono certi vecchi quando usano l’espressione “se avessi la tua età…”, essi vivrebbero nel flusso della natura, ovvero agirebbero nella maniera più spontanea e non trattenuta. Questo era il London giovanile: negli ultimi anni, il tema si era trasferito dalla scienza alla metafisica, ma quel discorso rimase incompiuto.

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