Taras Bul'ba. Il mito della Piccola Russia... o Ucraina?

Quarto appuntamento psicologico-letterario a cui partecipo sul canale Il bar della psicologia, gestito dal dottor Adriano Grazioli, che potete trovare sui vari social. La rubrica in cui mi inserisco è il Podcast letterario, all’episodio 41, insieme a Mykhaylo (Misha) Nychyporuk. Di seguito, trovate il video su YouTube e qui il link a Spotify: segue una selezione scritta di alcuni interventi centrali.

Per un ulteriore approfondimento su Gogol', rimando a un altro post di questo blog: qui.

 


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AS: Gogol’ si concentra molto sulla resa dei dialoghi: attraverso di essi le sue opere si vivificano. Alcuni sono testi teatrali, il che rende l’affermazione ovvia, ma ciò avviene anche in un capolavoro della letteratura globale come Le anime morte. Per altri versi, abbiamo il racconto Taras Bul’ba, che attinge a piene mani a quel Romanticismo incipiente anche in terra ucraina e russa, e che si ispirava a Walter Scott e al romanzo storico scozzese che si espanse in tutta Europa. Gogol’ non fu l’unico a ispirarsi a Scott nell’Europa orientale e, anzi, arrivò forse tardi: d’altra parte, il contemporaneo Faddej Bulgarin aveva già pubblicato Mazepa, incentrato su un celebre condottiero cosacco e ispirato nello stile proprio a Scott. Lo stesso Lord Byron aveva scritto per lui un poema epico nel 1819 e Aleksandr Puškin gli aveva dedicato il poema Poltava (1828-29).

A ogni modo, il linguaggio di Gogol’ è particolare e bisogna tenerne conto: Misha ha potuto leggerlo in originale e ci può dire qualcosa di più in merito. È una prosa molto magmatica, caotica, piena di subordinate: ci sono neologismi, termini polacchi e ucraini che si innestano nel russo.

 

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MN: Veglie alla fattoria presso Dikan’ka fu la prima opera con cui ebbe un certo successo. Il primo racconto narra la storia di un tipico villaggio della regione Poltava, una delle culle del folklore ucraino: il discorso che ne fa Gogol’ è romanticizzato, anche a livello linguistico. La raccolta è emblematica, anche per l’uso di stereotipi sul mondo ucraino, che ebbero in seguito ripercussioni negative. Il vestiario e le abitazioni, il modo di parlare, di mangiare e di bere sono al centro dei racconti. Gogol’ trascriveva le storie che riceveva dagli amici e dalla madre e poi li rielaborava.

 

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AS: Subito dopo le Veglie, continuò a chiedere informazioni sull’Ucraina. Tra il 1829 e il 1831 affermò di cercare informazioni sulla “Piccola Russia”: egli si sentiva ucraino, ma inteso all’epoca come parte del grande impero russo. Egli percepiva questo, a differenza di altri scrittori ottocenteschi come il poeta nazionale Taras Ševčenko, che vedevano l’Ucraina come qualcosa di separato dalla Russia. Con la seconda edizione di Taras Bul’ba, anzi, Gogol’ fece una decisa svolta verso lo zarismo. Scrivendo alla madre, riconobbe che a Pietroburgo piacesse tutto ciò che era “Piccolo russo”: insomma, Gogol’ cavalcava una moda. L’Ottocento romantico è il (mezzo) secolo delle riscoperte popolari, che solo in seguito divenne nazionalismo, cioè identità nazionale. Era riscoperta delle radici, ma senza una connotazione prettamente politica: e così – penso – la vedesse Gogol’. Egli stava essenzialmente rispondendo a una domanda di mercato: così si attesta anche Vladimir Nabokov, che di Gogol’ scrisse una monografia originale. Oltre alle lettere che riceveva e all’influenza di Scott, lo scrittore attinse a fonti storiche, tra cui l’Istorija Rusov, che ispirarono il contenuto anti-polonista.

 

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MN: San Pietroburgo è la capitale culturale della Russia, e anche europea, in quanto desiderio di Pietro I: essa è l’emblema di quanto avesse voluto rendere la Russia più europea, nel tentativo di allontanarla dall’influenza asiatica.

 

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AS: Collegandoci all’attualità, non è un caso che in questi giorni [settembre 2022] stiano giungendo delle richieste di dimissioni per Putin da parte di alcuni esponenti politici pietroburghesi. È un filone che non si esaurisce nemmeno nell’URSS: anche quando Pietroburgo cambia nome nella storia, rimane sempre un mondo a sé. C’è da dire che Gogol’, che visse quella città, non l’amò poi molto. Prima di arrivarci, aveva un’immagine stereotipata della grande città; quando ci arrivò ne ebbe una visione totalmente diversa. E iniziò a stargli stretta, tanto che, nonostante il successo de L’ispettore generale, apprezzato anche dallo zar, se ne andò in Germania. Oltre a questo, lui aveva un’idea del popolo russo abbastanza forte: per lui metà dei russi erano schiavi – e lo erano per davvero – e l’altra metà erano burocrati. Gogol’ aveva questa immagine molto fredda e disincantata dei russi: ciò nonostante, forse per motivi di tasca o altro, si avvicinò apertamente allo zarismo.

 

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MN: Gogol’ si trasferì a San Pietroburgo lasciando la campagna: tornò in Ucraina, a Kyïv, per insegnare, e ne trasse una simpatia indipendentista, ma fu una breve parentesi. Egli viaggiò molto, anche in Italia: quando venne pubblicata la seconda edizione di Taras Bul’ba, per esempio, si trovava nella Penisola.

 

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AS: Tra l’altro, a Roma conobbe non solo russi emigrati, ma anche intellettuali italiani, come Giuseppe Gioachino Belli, che scriveva in romanesco. I viaggi di Gogol’ hanno motivi non sempre chiari: la sua vita è quella di un viandante. Dalla Poltava a Pietroburgo, si rese conto che l’unica vita possibile era quella del burocrate, per una paga bassa e una vita misera, che non gli permetteva di scrivere. Fece un secondo rogo di una sua opera e se ne andò in Germania, usando a tal fine i soldi che gli aveva lasciato la madre per la formazione.

In una lettera, Gogol’ le scrisse che aveva ricevuto un talento da Dio, e che si sentiva fuori posto. All’estero, si accorse che quella vita idealizzata non esisteva nemmeno laggiù e tornò indietro per mancanza di fondi. Qualche tempo dopo, disse di dover ripartire per potersi curare: se andiamo a vedere che cosa avesse, capiamo che Gogol’ non soffriva di malattie specifiche. Aveva mal di stomaco, stati d’ansia in mezzo alle persone, che somatizzava: pensava di guarire andando nelle zone termali famose dell’epoca, soprattutto nell’Impero austro-ungarico. Non ottenne grandi risultati. Negli ultimi anni, fece persino un viaggio misterioso in Terra Santa, su cui tornerò più tardi.

 

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MN: Oltre a questo, nella sua vita non ci fu alcuna nota relazione romantica. Nelle sue opere, il discorso sessuale è presente, ma non accade mai nulla di concreto, almeno non nelle vicende narrate. E poi – c’è da aggiungere – questi viaggi li fece anche grazie ai soldi dello zar.

 

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AG: Gogol’ è una figura molto interessante da un punto di vista psichico, come quasi tutti quegli scrittori che hanno scritto opere di una certa rilevanza. Mi è venuto subito in mente Eugène Sue, autore de I misteri di Parigi, e l’idea di voler recuperare una dinastia antica, dato che Gogol’ discendeva da cosacchi. La sua idea cavalleresca o bellicosa non si tradusse in pratica nella vita quotidiana. Anche il fatto che non avesse relazioni amorose, fa capire che ci sono tratti di infantilità. Nelle opere in cui descrive gli amori, ricorda certi scrittori ottocenteschi: non c’è il gesto carnale; si parla di passione con allusioni (il morbido seno, il braccio bianco, la mano, il fazzoletto avvolto intorno al braccio, etc.), tutti aspetti molto adolescenziali, che si sposano bene con l’Autore.

Abbiamo una persona sicura di ciò che vuole ottenere; una personalità che va oltre il narcisismo buono, che ha anche grandi capacità manipolatorie, per esempio con la madre. C’è la speranza di essere un predestinato, più che l’aspettativa. Lo stesso Giacomo Leopardi, quando andò a Roma per ricongiungersi alla capitale della cultura, rimase sorpreso dalle prostitute e dai plebei. Forse la stessa cosa è successa a Gogol’ a Pietroburgo: una personalità eccentrica come la sua deve trovare questo livello di eccentricità da un’altra parte. Premere sul discorso di Dio presso la madre è un tentativo di fare leva su qualcosa in cui credeva, o forse era un semplice delirio di onnipotenza.

 

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AS: Ostap, uno dei figli di Taras, è in effetti il nome di un antenato cosacco di Gogol’. Il padre – che non abbiamo ancora nominato – era un drammaturgo. Gogol’ si fece spedire le sue opere quando si mise a scrivere di teatro. Lo stesso Nikolaj non era inizialmente interessato alla scrittura, ma alla recitazione. Cambiò poi idea: nacque in lui la convinzione di avere un talento ricevuto da Dio, che lo avrebbe portato a creare qualcosa di importantissimo per il genere umano, che nella sua concezione era la Russia. Gogol’ fu anche, metaforicamente, castrato dalla sua indole: se in effetti era eccentrico, per esempio nel modo di vestire, era poi bloccato dalle proprie insicurezze.

 

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AG: Gogol’ è una personalità istrionica, ma una grande eccentricità non sostenuta da una personalità veramente forte è apparenza. Il fatto che lui inizi con il teatro e che poi si accorga di dover cambiare è una gran copertura di fallimento. Non accetti di non poter essere un grande teatrante, quindi ritieni di poter divenire un fantastico scrittore.

 

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AS: Gogol’ era un grande amante della Divina Commedia, del Paradiso perduto, dell’Iliade. Ci sono descrizioni e similitudini di Taras Bul’ba che sono riprese da similitudini omeriche. Gogol’ attinse alle grandi opere dell’umanità e voleva scriverne una a sua volta (le tre parti mai compiute de Le anime morte). Non ci riuscì: un esito-non-esito significativo.

 

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AG: Ci sono morti in Taras Bul’ba talmente eroiche da essere molto distanti dalla guerra moderna. Tutto è affrontato con un’epica irrealistica, idealizzando tematiche come la morte per la “vera fede”. È una sorta di Iliade ipercruenta, ma in una messa in scena molto teatrale, che non coincide con un principio di realtà.

 

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MN: La teatralità è fondamentale anche nelle Veglie. In uno dei racconti, ambientato alla vigilia di Natale, i personaggi sono astratti in ogni gesto e in ogni espressione. Le descrizioni di Satana sono fantasie assurde: quando il diavolo stesso porta un fabbro in paese, lo vediamo volare sulla Luna, bruciarsi nel tentativo di prenderla e poi riuscire nell’impresa. È un racconto quasi infantile: è un’opera che tratta il magico, in una forma simile alla favola. E nell’incontro tra il fabbro e Caterina II, che non porta a nulla ed è segnato dall’assurdo, Gogol’ inserisce comunque l’elemento storico del rifiuto della zarina rispetto a una mediazione con i cosacchi.

 

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AS: L’idea di Gogol’ che scrive una sorta di fiaba per bambini, mi ha ricordato la divisione della critica, che vede in lui uno scrittore realista oppure non realista. Per quanto mi riguarda, ritengo che sia un precursore del realismo magico: se cerchiamo le descrizioni di persone e di paesaggi, le parole di Gogol’ sono molto realistiche, persino quando parlano di un naso che si è staccato da una faccia e se ne va in giro per il mondo. E nel racconto Il naso ti viene descritto come se fosse la cosa più naturale del mondo. Una parte della critica si è forse ingannata per questo. Io vedo invece una persona che attinge a un pensiero magico, non solo per il materiale, che ricerca nelle tradizioni popolari, ma impiegando un tratto originale. Mi viene in mente una descrizione della steppa in Taras Bul’ba, molto poetica, che attinge a elementi reali: se però andiamo a vedere ciò che egli dipinge con le parole, non c’è nulla di reale. È un’astrazione: sembra reale, perché parla con termini reali, ma nell’esito, nella testa del lettore, viene in mente qualcosa che astrae dalla semplice evocazione dell’erba, dei cavalli, dell’acqua. Una descrizione che va oltre il dato fisico. Quando uno di questi passaggi si conclude con l’esclamazione: «Che il diavolo vi porti, steppe, quanto siete belle!...», c’è sentimento puro. Anche ne Le anime morte, noi troviamo aristocratici dell’Ottocento che dialogano in modo formale, realistico pur nelle modalità ingessate dell’epoca: se però guardiamo oltre la forma, il tutto è una parodia del reale. Gogol’ è tutto fuorché maestro del realismo: egli prende le parole più vere e le ridicolizza.

 

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AG: Nella prima parte di Taras Bul’ba c’è poi un esplicito richiamo alla magia. Quando si parla del modo di curare le ferite: sputate sopra la terra e coprite la ferita da spada in un certo modo; quella da fucile con acquavite, etc. Il tratto magico è sempre presente; il crudo realismo è ben lontano: in letteratura, ci saremo arrivati più tardi, per necessità.

In analisi, il rapporto metaforico con il paziente è centrale: questi non ti dice «sono depresso». Se gli chiedessi come si sente, ti risponderebbe: «Mi sento come sopra un treno» o «come se stessi affogando in un lago nero». Una persona in fase di mania ti risponderebbe che si sente costantemente «tutto un fuoco»: usa insomma metafore e similitudini. In Taras Bul’ba noi vediamo tutto questo secondo un principio epico che ha dei tratti che ti strappano quella sensazione di essere un po’ perso nel tempo. Siamo ancorati a un dato storico, ma solo minimamente.

 

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AS: D’altra parte, la Sič di Zaporož’e di cui parla è stereotipata. Non si capisce bene in che periodo siamo: nella prima edizione si oscilla tra il XV e il XVII secolo.

Rispetto alla crudezza dei contenuti, è evidente soprattutto nelle battaglie: teste divelte, una sciabola in mezzo ai denti, etc. Sembra tutto molto realistico, ma non lo è. Gogol’ parte da un elemento realistico, come un’uccisione brutale, ma la mette in una sequenza di uccisioni brutali che non esiste, e non esisteva nemmeno nell’Iliade. È una messa in scena di qualcosa di verosimile. Questo è il succo del non-realismo di Gogol’. […]

Vorrei poi estendere il discorso a un tema morale di fondo. Il fatto del secondo genito, Ostap, che non riesce a rinunciare al corpo femminile e che viene punito per questo (perché farà una bruttissima fine) è un po’ una condanna morale dello scrittore verso i piaceri carnali.

 

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AG: In tal senso mi viene in mente un parallelismo in letteratura. La punizione di H. P. Lovecraft per l’ipersessualizzazione è presente nei suoi scritti, perché i suoi mostri hanno dei richiami a una sessualità che lui non è mai stato in grado di vivere a pieno. Anche in Gogol’ la sessualità viene intesa come debolezza, con il motivo della fede sullo sfondo […]. Lo scarso interesse per la sessualità è funzionale a un ambiente maschile come quello cosacco. Avviene una punizione morale, che separa i due figli, l’uno con una fine onorevole e l’altro no.

 

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AS: C’è un passaggio di un discorso di Taras ai figli in cui assimila la spada alla loro madre, in un intonazione che evoca il “Credo del fuciliere” in Full Metal Jacket: «Questo è il mio fucile. Ce ne sono tanti come lui, ma questo è il mio». È la personificazione del fucile, strumento fallico di potere, che è l’unico esercizio di questo machismo che viene loro concesso. In un altro film, Toro scatenato, troviamo il protagonista, che deve affrontare un importante scontro, con la compagna che lo seduce: il pugile, non riuscendo a trattenersi, corre a mettere i gioielli di famiglia in mezzo al ghiaccio, perché tutta la sua energia guerriera doveva essere rivolta al ring.

 

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AG: In realtà, è sempre stata una cosa condivisa dalle varie culture. Nell’Hagakure, una delle cose che dicono ai guerrieri per guarire dalle ferite è di astenersi da qualsiasi pratica sessuale, per avere il pieno controllo di tutto. Forse perché più livelli di testosterone hai, più sei incline al combattimento. […] Si tratta di quei rituali che in realtà hanno il loro perché: un po’ di agitazione la devi provare; se scarichi livelli di testosterone, se vivi una vita agiata, inizi a domandarti che senso abbia salire sul ring.

 

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MN: È anche un discorso freudiano di appagamento: aspetti il giorno dell’incontro e il regalo – dopo la dura prova – è quanto ottieni.

 

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AG: Una gratificazione ritardata. Tutto ciò è utile alla disciplina, anche se non ha un senso oggettivo. Lo metti in pratica non per utilità, ma per una questione di robustezza mentale, di disciplina appunto.

 

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AS: I due figli di Taras hanno vite simili, ma destini diversi. Andrej abbandona la disciplina per altro, ma non gli era permesso in quel mondo, in quell’universo. Ostap, che segue la linea paterna, viene invece metaforicamente ricompensato. Qui c’è una morale di fondo abbastanza semplice – forse condivisa dallo stesso Autore – che introduce alla parte finale della sua vita.

 

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MN: La prima edizione del 1835 contiene otto capitoli; quella del 1842 undici. Nella seconda scompare il discorso nazionalistico ucraino, e il nome Ucraina viene sostituito da “Sud della Russia”. Anche il toponimo Zaporož’e viene cancellato: Gogol’ occulta che l’Ucraina sia una nazione indipendente, trattandola come una terra di confine, giocando sull’origine del termine. Nel primo capitolo, c’è anche una descrizione della terra ucraina, che si concentra sui vecchi banduristi, come se si trattasse di qualcosa ch non esiste più o non è mai esistito.

Viene esagerato il discorso sull’ortodossia russa e sullo zarismo. Nella prima edizione, quando Taras uccide Andrej lo seppellisce e si assume la sua responsabilità, con dolore, per averlo cresciuto male. Nella seconda edizione non lo fa: con disprezzo, dice che lo avrebbe seppellito qualcun altro. Taras viene deumanizzato. Secondo aspetto: il protagonista, in punto di morte, esorta i cosacchi a vivere una vita degna di essere vissuta e li invita a tornare il prossimo anno sulle sue ceneri. Nella seconda edizione, Taras fa invece un discorso di aperto elogio dello zarismo.

 

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AS: C’è un passaggio della seconda edizione in cui sopravvive un bagliore di Ucraina indipendente. Ed è quando c’è una descrizione della Sič, dicendo alla fine: «Ecco da dove si spandono per tutta l’Ucraina la libertà e lo spirito cosacco». Per il resto, soprattutto il discorso finale di Taras, è persino nauseante. E si percepisce quanto sia un’aggiunta posticcia.

 

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AG: […] È una sorta di captatio benevolentiae. Dopotutto, non ha senso che si parli di libertà, di un luogo libero, e poi improvvisamente inneggi a uno zar che non è stato minimamente considerato per tutta l’opera.

 

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AS: Quando Gogol’ si dedicò alla seconda parte de Le anime morte, in una crisi esistenziale decise di compiere un viaggio in Terra Santa: misterioso, e di cui abbiamo solo pochi riferimenti. Per esempio, parlando di Nazaret, si capisce che era rimasto deluso da quel piccolo e spartano villaggio mediorientale. Ritornato, finì sotto la guida di un monaco ortodosso, che gli dise di smetterla di scrivere e di prepararsi a morire. Gogol’ diede alle fiamme il manoscritto della seconda parte de Le anime morte, in una lotta interiore mai risolta. Nella monografia di Nabokov, c’è una descrizione in apertura relativa al naso di Gogol’ e agli ultimi giorni di vita dello scrittore: tre pagine – tre pagine! – veramente belle. Dopo un salasso doloroso e giorni di mestizia, Gogol’ morì veramente male.

 

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MN: Già nel finale de Le anime morte, la Russia viene definita come un cavallo, che non sa da dove viene, ma va dritto senza fermarsi. Qualcosa che oggi si vede anche nell’invasione: l’illogicità che si sparge a macchia d’olio sui territori, senza sapere dove andrà a finire.

 

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AS: Gogol’ aveva fatto una parodia del mondo russo, soprattutto quello cittadino, per poi perdersi nell’elogio dello zarismo. Inoltre, negli ultimi anni – definibili “religiosi” – la figura dello zar non era più solo politica per lui, ma rivestita di un’aura metafisica. Nello zar vedeva probabilmente una figura a tratti messianica.

 

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AG: Noi vediamo l’istrione in tutto quello che è il suo splendore, nei punti di luce e di ombra.

 

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AS: Gogol’ ha avuto successo, anche postumo, nonostante Gogol’. […] Era un uomo molto combattuto, diviso tra due visioni di sé e del mondo che lo circondava.


Per un approfondimento sulla storia ucraina e della Sič di Zaporož’e, rimando al mio libro: Ucraina. Storia, geopolitica, attualità (2022), edito da PubMe, che potete trovare qui.

Per un ulteriore approfondimento su Gogol', ricordo l'altro post di questo blog: qui. Per i miei consigli di lettura sul tema dell'Ucraina, si veda questo post.

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