«È il business, bellezza!» o di come la cultura sia asservita ai numeri

 

British Museum Reading Room

1. Questa mattina, prima di uscire per andare al lavoro, ho dato un’occhiata alla home di Instagram.
Nei primi due minuti mi sono imbattuto in diverse sponsorizzazioni:

 

a. tre provenienti da social media manager, che spiegavano quali “strategie” impiegare per fare reel di successo;

b. uno che – non ho guardato a quale titolo – voleva spiegarmi come ci si possa fidare delle persone, tipo lista della spesa;

c. un consulente che spiegava come trasformare i follower in clienti.

 

2. Credo di essere arrivato a quella fase di vecchiaia mentale per cui tutto ciò mi faccia ribrezzo. E lo so che non c’è nulla di male nel fare sui social il proprio lavoro. È che mi sembra tutta un’occasione sprecata. Invece di veicolare contenuti di sostanza, che vadano in profondità, tutto si riduce ad accalappiare un’audience a fini commerciali, considerando la cultura dal solo punto di vista della merce da sfruttare. E il follower non è niente più che un cliente, da blandire con dosi di assenso.

Libri, film, serie TV, foto di viaggio sono diventati un mucchio di spazzatura, un fast food che si concentra sul livello intellettuale per non darci l’idea di stare consumando senza  trarne alcun beneficio.

 

3. Che fare? Mi dispiace, ma io la lista della spesa o il reel con le 5 parole chiave per non farsi fregare sul web e recuperare un senso critico non la faccio. Perché il titolo è troppo lungo e il tema non si può ridurre a una guida da dimenticare in trenta secondi. E questo è il punto: il sapere, approfondito o specialistico, non è una merce che si possa trasmettere in questa forma. Eppure molte tematiche serie vengono banalizzate in tal modo e si dà la percezione che la competenza derivi da queste letture semplicizzate (o semplicistiche).

 

Ci sono cose rispetto alle quali dovremmo sforzarci di andare più a fondo, magari mettendo da parte tanta merce scadente e rumore di fondo. Ognuno ha i suoi metodi. Io, nel mio piccolo, mi limito a scegliere ogni singola volta in forma non passiva, ovvero non orientata dalle sollecitazioni emotive.
Per cui: un solo video lungo al giorno, su un argomento che voglio approfondire. E se un canale realizza tre o più contenuti al giorno, amen: mi concentro su quello che mi interessa. Non devo farmi prendere dalla foga di voler esaurire tutto, che si tratti dell’ultima stagione di una serie tv o di una lista mensile di libri da leggere. Ognuno di noi ha il dovere verso se stesso di chiedersi: di che cosa ho bisogno? O ancora meglio: di che cosa ho veramente bisogno?

 

4. Se in un determinato periodo della mia vita mi sto interessando a un dato fenomeno storico o sociale, ha senso sprecare energie per altri temi, pur se affini?

Capiamoci: scorrendo la bacheca o i reel, a fine giornata, mi pongo a mente passiva di fronte a una serie di contenuti che, nonostante gli algoritmi, sono abbastanza eterogenei. Ora, il fatto è che la mente non è mai del tutto passiva, nemmeno durante il sonno. Tutto ciò che ci passa davanti agli occhi o che sentiamo viene in qualche modo registrato e “intasa” il nostro flusso di pensiero.

L’assenza di filtri o di mediazioni permette a chiunque di esprimersi, e questo è – in linea generale – positivo. Entrando però nel merito, uno dei filoni che trae più profitto dai social è l’àmbito commerciale, non quello culturale. La complessità non è certo abolita – e ne ho parlato qui – ma è relegata in un angolo. Un po’ come la storia della cultura italiana: ce n’è tanta, avrebbe un grande potenziale globale e interno, ma nessun legislatore crede davvero di poterci trarre un profitto sistemico.

 

La rete è un’infrastruttura che permette di costruire contenuti articolati. Il problema è che non conta ciò che si vuole comunicare, ma il modo in cui lo si comunica e, in questo, ha quasi sempre la meglio il ragionamento del social media manager. Il marketing che sfrutta la cultura non per condividere un sapere, ma per trovare nuovi clienti. Lo studioso Tom Nichols, in The Death of Expertise (Oxford University Press, 2017), individua questo meccanismo persino nella scelta dei college e delle università americane: gli istituti si industriano non tanto per attirare gli studenti sulla base del valore dei propri corsi, ma su elementi minori e sui corollari, da una mensa con una scelta alimentare più varia ai dormitori puliti. Insomma, elementi più o meno importanti, ma non certo essenziali rispetto alla proposta culturale che queste strutture dovrebbero garantire.

Sui social, come nelle università, sono rari i canali o i profili che trattano argomenti seri e che riescono a farlo mantenendo un buon equilibrio. E purtroppo ancora più raramente raggiungono numeri che rispecchino la loro qualità. Solo per rimanere in Italia, Daily Cogito in campo filosofico e Parabellum in àmbito storico e geopolitico, sono almeno due canali, dai contenuti differenti, che sono riusciti ad aprire una breccia nella mediocrità (e nell’opportunismo) dei contenuti culturali sui social. E ci sono riusciti prima di tutto per la competenza di chi li gestisce, ma anche perché hanno trovato quel giusto rapporto tra complessità dei contenuti e ricerca di una community di base che non fosse percepita solo come una massa indistinta di clienti paganti. Segno che il business è importante, ma che la cultura possa dialogarci trasformando il suo valore in qualcosa di diverso da un mero prezzo di mercato.

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