Ucraina. Storia, geopolitica, attualità

Quinto appuntamento psicologico-letterario a cui partecipo sul canale Il bar della psicologia, gestito dal dottor Adriano Grazioli, che potete trovare sui vari social. La rubrica in cui mi inserisco è il Podcast letterario, all'episodio 42, insieme a Mykhaylo (Misha) Nychyporuk: tutti e tre abbiamo contribuito alla scrittura di un libro dedicato proprio all’Ucraina, che potete trovare qui.

Di seguito, trovate il video su YouTube e qui il link a Spotify: segue una selezione scritta di alcuni interventi centrali.

Di Ucraina, in termini letterari e non solo, abbiamo già parlato qui. Per i miei consigli di lettura sul tema, si veda questo post.




AG: Se noi domani ci trovassimo in una situazione come quella degli ucraini, tutto il nostro “palinsesto” di vita cambierebbe; le nostre certezze non esisterebbero più. Aver chiaro questo significa poter comprendere la brutalità della guerra e anche cosa significhi l’uscita da una condizione di guerra.

 

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AS: Il tema della ricostruzione coinvolgerà non solo le infrastrutture, ma anche la psiche delle persone.

 

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MN: Abbiamo un esempio del disagio postumo alla guerra in coloro che, durante l’Unione Sovietica, avevano combattuto in Afghanistan. Tornati con l’esperienza del conflitto, della violenza, tornavano impiegando la loro forza contro la popolazione civile, agendo per esempio per la mafia russa.

 

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AS: Possiamo capire molto della violenza che stiamo osservando sul campo se andiamo a vedere la prima linea dei russi. Che è fatta di mercenari, gruppi di siriani per esempio (oltre sedicimila), la Wagner, i ceceni guidati da Kadyrov. Queste sono persone abituate a subire e infliggere violenza: vengono mandate in prima linea per terrorizzare il nemico e la popolazione, cercando di far cambiare l’opinione pubblica ucraina, che – al contrario – in questa aggressione si sta unendo sempre più.

 

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AG: Quando nasci in un contesto familiare in cui la violenza è all’ordine del giorno, allora sei molto più incline a percepirla come qualcosa di normale nella tua vita. Quando qualcosa è normalizzato, non lo percepisci in maniera saliente. […] L’ambiente è costituito da fattori di prevenzione e di rischio: essere nati in un ambiente in cui tuo padre è un veterano di guerra e tua madre ha vissuto in una condizione di indigenza ti porta ad avere un’altra percezione della violenza. […]

L’impiego di truppe mercenarie serve ad allontanare il legame affettivo; sono forza-lavoro gettata sul campo. […] Tra l’altro, più c’è della crudeltà, più aumenta il fenomeno della diserzione.


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MN: I ceceni di Kadyrov vengono impiegati non solo nelle prime linee, ma per evitare che i soldati fuggano dalla prima linea.

 

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AS: Tecnicamente è una diserzione. Se però andiamo a vedere questi disertori, i russi “in senso stretto” sono spesso sotto contratto. Quindi non sono nemmeno soldati di mestiere, ma persone che in tempo di pace riuscivano a guadagnare più di altri lavoratori, senza colpo ferire.


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AG: Le truppe mercenarie si utilizzano anche perché, in termini morali, permettono all’esercito regolare di non dover gestire la colpa dei crimini commessi.


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MN: La Russia consiste di decine di nazioni, spesso distrutte dalla russificazione, come la Sachá o Jacutia, la Buriazia, che avevano più affinità con le popolazioni mongole e cinesi, che niente hanno a che fare con il panslavismo.


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AS: Infatti quando pensiamo a luoghi come la Siberia ci viene in mente uno dei cuori della Russia, ma questo è successo a scapito di popolazioni nomadi e seminomadi che abitavano in origine quei territori. […] La Siberia è diventata propriamente Russia con deportazioni: oggi, per assurdo, è una delle poste in gioco con la Cina. Immaginatevi questo territorio vuoto e desolato, con oltre un miliardo di cinesi dall’altra parte del confine. In questi anni, i cinesi hanno ottenuto accordi bilaterali per lavorare quelle terre, anche per sopperire al calo demografico russo. Ora, sappiamo che, peggiorando la situazione russa, la Cina potrebbe farci un pensiero su queste terre da lungo tempo non più orientali.

Nella prospettiva di una disgregazione della Federazione, la Siberia potrebbe essere la prima a cadere, insieme al Caucaso del Nord, alla stessa Cecenia, sorta di Stato ricattatore della Russia (su basi peraltro comprensibili dopo la guerra tra i due popoli). Il rapporto tra russi e ceceni è di compromesso e di interesse condiviso con la leadership di Kadyrov, che ha iniziato a criticare pesantemente la conduzione russa del conflitto ucraino. D’altra parte, la Federazione è nella condizione di avere sempre meno la disponibilità di quelle componenti, un tempo importate, necessarie a manutenere i mezzi di ultima generazione.

 

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MN: Una parte della Jacutia e della Buriazia si divide tra animisti, buddhisti e altre spiritualità. La centralizzazione del potere russo si è tradotta anche in centralizzazione della cultura. Queste civiltà sono state cancellate o quasi per affermare la cultura panslavica, che proviene dalla fede ortodossa e dal simbolo dello zar. Parte di questa cultura derivava dalla Rus’ di Kyïv, e i russi hanno depredato in gran parte questa civiltà tentando di renderla esclusiva.

 

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AS: Che cosa accomuna russi e ucraini? L’essere slavi, ma nell’Europa orientale esistono tante popolazioni slave che non sono russe e quindi ciò non significa nulla. [...]

In questa invasione ci sono tante pretese: storica, ideologica, di contingenza geopolitica. Ci sono tanti pretesti. Uno di questi è un mix di storia e di ideologia e corrisponde alle teorie di Aleksandr Dugin, di cui peraltro si sente parlare più all’estero che nella Russia stessa. Le sue analisi sono tuttavia macchiate da una vena di pseudo-veggenza, non basata su elementi storici oggettivi. […]

La realtà storica è che la Rus’ di Kyïv, dopo l’invasione dei Tatari, si divise a poco a poco in tre grandi popoli: i moscoviti e i ruteni, questi ultimi divisi in quelle popolazioni che divennero gli ucraini e i bielorussi. Il tutto amalgamato ad altre influenze: polacche, austro-ungariche, tedesche, svedesi, etc. L’idea stessa di un territorio, l’Ucraina, che significa “[terra] sul confine” era legato ai confini della Confederazione polacco-lituana, non ai confini russi. Fu da Pietro I in poi che i moscoviti iniziarono a identificarsi nella Rus’ di Kyïv e, nella ricerca di una nuova identità anti-polacca, si sviluppò il concetto di un grande popolo “russo”.

Oggi tutto questo c’entra, perché nonostante la Rivoluzione d’Ottobre e la caduta dell’URSS, stiamo di nuovo rivivendo l’imperialismo russo, che era solo sopito. Stiamo assistendo all’ultimo rantolo dell’ultimo impero ottocentesco sopravvissuto alla storia. Oggi però viviamo nell’era nucleare e questa sfaldatura non sarà la caduta di quegli imperi.

 

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MN: Il termine “Russia” serve a inglobare varie popolazioni: in origine in quei territori c’erano propriamente i moscoviti.

 

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AG: Non esiste una chiave risolutiva semplice dei conflitti, soprattutto quando ci sono degli aspetti sociali come quelli descritti. È probabile che si potrà raggiungere una pace quando sul piatto verranno messe soluzioni in grado di soddisfare entrambe le parti. Ma le trattative stesse sono impegnative psicologicamente. C’è poi l’aspetto interno alla Russia: come verrà giustificata sul lungo periodo questa guerra? È difficile che la Russia ceda senza aver avuto abbastanza proprio per questo motivo, per la necessità di una giustificazione. […]

Nella risoluzione del primo e del secondo conflitto globale ha giocato anche la questione della sostenibilità. In qualsiasi relazione umana, quando le cose diventano insostenibili, o avviene la cessazione della relazione o l’allontanamento o comunque una frattura. Riconciliarsi sarà molto difficile. È avvenuto dopo la seconda guerra mondiale, e in qualche modo si ripeterà anche oggi, per quanto cambierà alla radice il rapporto tra russi e ucraini. [...]

 

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AS: Quando si pensa alla nuova ondata di arruolamento in Russia, si potrebbe empatizzare con queste persone che, nell’arco di poche ore, hanno dovuto stravolgere la loro vita per presentarsi in caserma. Allo stesso tempo, però, mi domando: ma fino a ora, che cosa hai fatto per evitare questa situazione? Scappare? Se penso a quanto stia avvenendo in Iran, con persone che ci stanno mettendo la faccia a costo della vita, soprattutto quando le telecamere saranno meno presenti e molte persone saranno identificabili dalla polizia morale a causa delle teste rasate, nutro grande rispetto per chi fa questo.

In una recente puntata di Daily Cogito di Rick DuFer si è parlato del filosofo stoico Epitteto, che in un aneddoto disse di preferire che Cesare gli tagliasse la testa piuttosto che rinunciare a ciò in cui credeva. Questo detto in estrema sintesi. La domanda è: quanti, sulla carta, sono pronti a dire che morirebbero per qualcosa e quanti, nella realtà, lo farebbero davvero? Difficile rispondere. Io, ripensando ai fatti iraniani, non posso parlare: o meglio, posso dire che anche io darei la vita per questa libertà, ma a livello pratico non saprei se, con la pistola alla tempia, lo farei. Per fortuna, però, al contrario dei russi che stanno fuggendo dall’arruolamento e che, se domani finisse la guerra, tornerebbero nel loro Paese come se niente fosse accaduto, trovo che gli iraniani possano parlare al posto mio su questo punto. Proprio perché rappresentano un esempio di un’alternativa pratica a uno stato di cose – il regime – che si ritiene immutabile.


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AG: Noi viviamo in una società in cui possiamo condurre delle battaglie con quasi l’assoluta sicurezza che, all’infuori di qualche insulto sui social, difficilmente ci verrà fatta della violenza fisica. Abbiamo una fortuna e, in un certo senso, viviamo sotto una campana di vetro. Gesti come quello iraniano possono essere visti con ammirazione: lì non è nemmeno la disperazione a muovere le proteste, perché gli iraniani avrebbero potuto scegliere il silenzio. La vita sarebbe rimasta limitata per molte, ma almeno avrebbero preservato la vita: le loro proteste quindi travalicano il concetto di sopravvivenza. E si attiva quella sorta di mentalità “a sciame” delle persone; si attiva quel panpsichismo per cui siamo tutti un unicum e ognuno può fare la differenza per gli altri.

 

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AS: Ciò che ci permette di andare oltre il cervello animale è aver costituito una scala di valori. In sostanza, per quanto mi riguarda, essa consiste nel rendere la vita degna di essere vissuta, prima di tutto per me. Se riesci a dare una risposta che non sia semplicemente la soddisfazione dei beni primari (mangiare, etc.), ma qualcosa che vada oltre a essi, meriti rispetto. È questo che ci rende qualcosa di oltre l’animale.


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AG: Secondo una mia idea, io riesco ad accedere al panpsichismo, a quella connessione, non tanto per misticismo ma per genetica. Dopodiché noi contemporanei, con la teoria della mente, riusciamo a fare metacognizione sul pensiero e si apre un mondo. Per migliorare la mia vita può essere che io muoia: se morirò, la mia condizione di vita non migliora, ma potrebbe migliorare quella del mio gruppo di appartenenza. Questo è andare oltre la mera sopravvivenza per il bene del gruppo. [MN: è fare parte dello “spirito della storia”.]

Parlando di ideali, mi viene in mente un confronto tra Pavese e Lussu. Quest’ultimo aveva combattuto nella PGM perché il suo ideale, la sua proiezione, gli permise di superare l’orrore inimmaginabile a cui stavano andando incontro. Se penso invece alla morale che Pavese mi ha trasmesso, non riesco a condividerla: se prendi in mano Céline, che in Viaggio al termine della notte parla di che cosa ha fatto pur di non combattere, pur di uscire da quella condizione, capisci che i modelli idealistici vanno incontro a una realtà meno monolitica.

 

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AS: Nemmeno io condivido a pieno le conclusioni a cui giunge Pavese. L’aspetto positivo della sua scrittura è che, proprio attraverso lo strumento intellettuale, riesce comunque a trasmettere un ideale, che va a compensare la sua mancanza di azione concreta. D’altra parte, però, quel personaggio autobiografico de La casa in collina ha potuto ritirarsi perché c’era chi, invece, andava in mezzo ai boschi a fare guerriglia contro i nazifascisti. Se tutti fossero stati come lui, non oso immaginare che cosa sarebbe successo. È vero che ci sono persone che rinunciano a ciò che potrebbero fare di buono per aiutare il prossimo e anche se stessi, ma penso anche che chi tende a perseguire un ideale alla lunga ottenga ciò che sta cercando. Poi ci sono gli eccessi: se penso a Filippo Tommaso Marinetti, forse avrebbe dovuto stare più sulla penna e meno sulle armi.

A ogni modo, questo salto di qualità nelle azioni umane è fondamentale: quando Hannah Arendt parla della “banalità del male” e del processo a Eichmann, stiamo parlando di persone civili, “normali”, che scelsero di girare la testa dall’altra parte. Perché? Perché il loro intervento contro il regime sarebbe stato per loro controproducente. Quando però la guerra è arrivata in casa, il problema è diventato di tutti, non solo di una minoranza. Come quella famosa frase: vennero a prendere prima gli ebrei, poi gli zingari, etc. Alla fine, quel regime a cui i tedeschi non si erano opposti gli aveva portato una guerra in casa, che li ha tenuti divisi per mezzo secolo.

È vero che uno debba anche soppesare quanto rischi di perderci e quanto sia disposto a sacrificarsi per gli altri, ma almeno sulla carta mi sento di dire che dovremmo essere meno egoisti. Se noi adesso ci girassimo dall’altra parte con l’Ucraina, saremmo noi a perderci dopo quel popolo. Con questa cortina d’acciaio, il mondo si sta verticalizzando: le traiettorie geopolitiche italiane stanno tornando a pieno nel bacino del Mediterraneo. E noi, incardinati nell’UE e nella NATO, abbiamo l’occasione di essere centrali nel Mediterraneo politicamente e geopoliticamente. Abbiamo un’occasione storica, perché la guerra in Ucraina non è la guerra degli ucraini, ma dell’Europa. Tutti noi stiamo pagando bollette care e un costo della vita elevato, ma bisogna avere bene in mente il perché lo stiamo facendo: non dobbiamo essere come quei tedeschi degli anni Quaranta e voltarci dall’altra parte, perché poi ci ritroveremo la guerra in casa, una guerra che oggi si combatte su tanti piani, oltre a quello militare.


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AG: Abbiamo un’immagine di noi stessi. Freud raccontò che tanti giovani si arruolavano anche solo per la curiosità di partecipare a un evento storico. Il discorso sulla libertà, etc. venne dopo. Il disturbo post-traumatico, allora chiamato “vento degli obici”, poteva essere interpretato in chiave freudiana come un’incapacità di far coincidere un io ideale con un io reale. Tradotto: io credo di andare in guerra in quanto eroe della mia vicenda personale, però mi rendo conto di non essere in grado di sopravvivere a questo ambiente. E la mia immagine reale e quella ideale collidono, si frammentano e si giunge a comportamenti di pura follia. Il concetto oggi è discutibile, ma valido nella sua essenza. […] Bisogna guardare nella direzione di un ideale, consci del fatto che la realtà potrebbe sovrastarci.

 

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AS: È vero che la realtà mette in crisi l’ideale. Penso però che avere delle coordinate esistenziali aiuti a essere più solidi nella propria identità per reggere all’urto dell’onda. Chi andava a combattere nella PGM con entusiasmo, senza sapere che la guerra meccanizzata avrebbe portato a stragi, non lo faceva solo perché credeva in ciechi ideali. Perché non erano affatto ciechi, ma serie questioni: generazioni che, per oltre un secolo, avevano combattuto per Trento e Trieste. Questo oggi può farci sorridere e ritenere che sia anacronistico, ma non dobbiamo ridere di chi in quegli ideali credeva, perché ha reso la propria vita speciale, unica. Gli irredentisti hanno lasciato una testimonianza, di cui noi non dobbiamo sorridere con occhi postmoderni.

Loro forse riderebbero di noi, oggi, che siamo così spaesati e vuoti di idee: non sto parlando di ideologie, di filosofie o di religioni, ma di banalissime idee del mondo. Abbiamo tanta confusione in testa, tanto rumore, e non sappiamo dove andare a pescare. Per noi italiani, per esempio, è importantissimo recuperare una dimensione repubblicana, risorgimentale della nostra storia. E capire che quelle figure storiche avevano anche una prospettiva europeista. Dobbiamo ripartire dalle basi, discutere di idee.

Oggi esistono tante ideologie o pseudo-ideologie. In questo conflitto ci sono tanti filorussi e antiamericani, figure che spesso coincidono in una stessa persona e per cui qualunque cosa accada nel mondo è responsabilità degli americani. Questa è ideologia: se essa dice che un evento corrisponde a se stessa, allora va tutto bene; altrimenti l’evento è letto come una mistificazione. Non importa che io sia a favore o a sfavore di un fatto quando l’ideologia ha la risposta pronta per me: questo significa però essere zombie ideologici. Si diventa tali perché l’ideologia è un pacchetto preconfezionato che ci dice che cosa si possa o non si possa fare: è facile perché non richiede di avere idee personali, ma di aderire a un dogma.


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MN: La Russia che vediamo oggi è basata sull’anemia della gente. Sono persone abituate a non reagire a niente a livello sociale, quale eredità dell’epoca sovietica. Allora tutto veniva delegato al partito, che decideva al posto del singolo. E questa concezione è rimasta nella Federazione russa, con persone passive di fronte alla tv a sentire la propaganda di Putin per anni. Poi certo che gli abitanti pietroburghesi non sono stati in prima linea, a contrario degli abitanti della Buriazia. E infatti in quelle zone, più povere, sono scoppiate proteste nei centri di arruolamento, dati anche alle fiamme. La domanda è quante ondate di arruolamento saranno necessarie perché gli abitanti dicano basta una volta per tutte.


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AG: È vero che viviamo in un’epoca priva di ideali, ma non di valori. […] Se noi distruggiamo qualcosa di passato, senza avere niente con cui rimpiazzarlo, forse dovremmo porci qualche domanda. Una vita senza ideali, o valori, ci lascia in balìa di qualsiasi cosa.

 

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AS: Anche perché, senza punti di riferimento, si finisce col cercare risposte qualsiasi. E c’è chi si rifugia nell’autoritarismo: per esempio, la Russia post-sovietica, perso un ideale (o meglio, un’ideologia) e non avendo strumenti democratici per diventare uno Stato democratico, oggi ha trovato una guida autoritaria. E non riesce a ribellarsi: sulla base di che cosa dovrebbe farlo? L’altro lato della medaglia è di chi ha una debole identità democratica e pensa che quando si perda nell’agone politico, il vincitore sia un nemico. Non un avversario politico, ma un nemico. Anche questa seconda risposta, ovvero la chiusura ideologica, porta di nuovo all’autoritarismo.

Qual è l’antidoto? Secondo me, è recuperare una dimensione ideale, tornare a parlare di idee, spogliandoci di ideologie preconfezionate. E metterci in gioco, perché nei social è facile seguire le pagine e i canali che parlano di cose che ci piacciano; finiamo in un loop di algoritmi che ci dicono che abbiamo ragione noi e che tutti gli altri sbagliano. E poi, il giorno dopo le elezioni, ci si sorprende che non abbia vinto il nostro candidato. Ma ci si sorprende di che cosa? Stavi vivendo in una bolla di cristallo. Non mettevi in discussione il tuo pensiero, ma lo accettavi così com’era, perché non volevi fare uno sforzo mentale. […] Non possiamo delegare agli altri la responsabilità di avere un proprio pensiero. In termini molto estesi, un giorno potremmo svegliarci con la guerra in casa, fisica o metaforica, avendo abolito dalla nostra vita la morte o la paura, avendole trasformate in tabù.

 

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AG: La fragilità che comporta l’assenza di ideali ti conduce necessariamente a propendere per chi ti spaccia un ideale come qualcosa di solido. Il problema nel distruggere non è soltanto che tu elimini qualcosa di potenzialmente dannoso, ma scopri il fianco a un altro attacco. Ed è il motivo per cui le persone più anziane hanno bisogno di tornare a una dimensione precedente, perché hanno visto un’eliminazione di simboli e valori e hanno avuto bisogno di tornare indietro.

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