Melville e Hemingway. Tensione per la morte, lotta per la determinazione

 

Hans Gude, Sailing Into Oslo Fiord (1872)

 

Melville e Moby Dick

 

Melville nacque nel 1819 a Manhattan, New York, da un padre che si occupava di importazioni e da una madre di origini olandesi e calviniste, della famiglia dei Gansevoort. Entrambi i nonni presero parte alla Rivoluzione americana in prima fila e questo dovette contribuire allo spirito unionista del nipote durante la guerra civile. Il padre morì quando Herman aveva dodici anni, a seguito di investimenti sbagliati che aggravarono la sua salute: la famiglia conobbe difficoltà economiche e fu da allora che il cognome Melvill acquisì la e finale.

A soli diciannove anni, il giovane decise di imbarcarsi sulla St. Lawrence in direzione Liverpool. Al suo ritorno cominciò a insegnare e nel 1841 si imbarcò sulla baleniera Acushnet. Dopo circa un anno e mezzo di navigazione, Melville e un marinaio si allontanarono su un’isola dell’arcipelago delle Marquesas e si imbatterono nella tribù dei typee, noti come cannibali, che li accolsero amichevolmente. Melville se ne andò dopo quattro settimane, salendo sulla baleniera australiana Lucy Ann. Si arruolò poi sulla fregata United States e tornò a Boston nel 1844, dopo quasi tre anni di vita sul mare.

 

Negli anni successivi pubblicò i romanzi Typee, Omoo e Mardi, che riprendevano in parte le sue peregrinazioni: i primi due ottennero un buon successo, il terzo fu un fallimento commerciale. Ritornò a un filone realistico, abbandonato con quel romanzo, e pubblicò Redburn e White-Jacket. La famiglia si trasferì ad Arrowhead e Melville si trovò vicino a Nathaniel Hawthorne, col quale strinse una particolare amicizia. Cominciò allora a lavorare a Moby Dick, che si risolse in un nuovo fallimento, di poco peggiore a quello riservato al successivo Pierre. Negli anni Cinquanta si dedicò dunque ai racconti e a nuovi romanzi a puntate, ma la sua attività ebbe fine nel 1857, con il Truffatore di fiducia, non compreso dalla critica.

La famiglia aveva il sostegno del suocero di Melville e di un suo zio e lo scrittore riuscì a compiere un viaggio in Europa e in Medio Oriente, passando per Inghilterra, Egitto, Grecia, Costantinopoli e Terra Santa. Al suo ritorno, fu costretto a riportare la famiglia a Manhattan e nel 1866 iniziò a lavorare alla dogana di New York. Gli anni Sessanta furono marchiati dalla guerra civile e da crisi familiari, tra cui il suicidio del figlio Malcolm e i problemi di alcolismo dello scrittore. L’altro figlio, Stanwix, fuggì di casa e morì anni dopo a San Francisco; una delle figlie, in età matura, non voleva sentire nominare il padre.

Nell’ultima fase della sua esistenza, Melville si dedicò a nuovi racconti, ma soprattutto alla produzione poetica, spesso auto-pubblicata, in scritti come Clarel. Morì infine nel 1891.

 

Lo scrittore fu un critico della civiltà occidentale, non per una sua distruzione, ma per le meschinità di cui era intrisa. Si nota già in Typee, nella descrizione delle nobili virtù della tribù e nella critica alla minaccia posta dal colonialismo di matrice missionaria.

Il passaggio dal realismo marinaresco al registro fantastico di Mardi cambiò segno alla sua carriera: egli avrebbe voluto dar seguito a quella sua ispirazione, ma i critici non lo comprendevano. Ecco le parole del Boston Post: «Melville farebbe meglio a continuare coi “fatti” che vengono recepiti come “finzione”; ma che gli procurano soldi per le sue tasche, anziché librarsi verso una “finzione” che non viene recepita per nulla.» Altri criticavano la frammentarietà del romanzo, il suo procedere per episodi, e certo Melville adottò questo metodo con consapevolezza: una scrittura libera da un progetto.

Giorgio Mariani parla di romanzo sperimentale: «Mardi è un grande monumento enciclopedico e polifonico che, nella sua ambizione a essere epica in un’età dominata dal genere del romanzo, non può che rivelarsi […] un capolavoro mancato.» Lo stesso Melville insistette perché il libro non fosse presentato come un romanzo tradizionale, consapevole della sua particolarità. Nonostante le critiche, fu quest’opera a schiudere lo scrigno della fantasia, magistralmente impiegata in Moby Dick.

 

La storia della balena bianca viene raccontata da Ishmael, unico baleniere sopravvissuto al naufragio del Pequod, a seguito dello scontro con il cetaceo. La nave è capitanata da Achab, un quacchero menomato alla gamba da un precedente incontro con Moby Dick. A fare da contrappeso alla sua folle determinazione, il primo ufficiale Starbuck, anch’egli quacchero, spirito non vendicativo che tenta invano di riportare il capitano alla ragione. Achab è infatti determinato a vendicarsi a ogni costo per l’offesa subita.

Nell’agosto 1850, Melville scrisse una lettera all’amico Evert Duyckinck, in cui diceva di aver quasi terminato il romanzo. Egli era cosciente del fatto che stesse creando un’opera matura, istintiva e significativa. E si trattò davvero di qualcosa di straordinario, nella sua capacità di tenere insieme epica e romanzo, scienza e fantasia, al punto che – come ogni grande classico – sia difficile inquadrare Moby Dick in un genere specifico.

I passaggi fondamentali per comprendere questa polifonia sono quelli in cui il narratore cerca di dare una sistemazione organica ai concetti della baleneria e della cetologia, per poi accorgersi che sia impossibile pronunciare una parola definitiva su questi studi. Mariani cita tre di questi passaggi:

 

Per tutte queste ragioni, allora, e da qualsiasi punto di vista si guardi, bisogna per forza concludere che il gran Leviatano è l’unica creatura al mondo che dovrà restare senza ritratto sino all’ultimo. […]

Ma perché seccarci con tutti questi ragionamenti sullo sfiato? Parlate chiaro! L’avete vista sfiatare; e allora diteci che cos’è la sfiatata? Non sapete distinguere l’acqua dall’aria? Mio caro signore, in questo mondo non è così facile decidere queste cose semplici. Le cose semplici le ho sempre trovate le più spinose. […]

Più rifletto su questa coda potente, più deploro la mia insufficienza a esprimerla. […] Per quanto mi adopero dunque a sezionarla, non faccio che restare a fior di pelle: non la conosco e non la conoscerò mai.

 

In Moby Dick, Melville è anche realista. La sua non è nemmeno una fuga dalla realtà, ma forse proprio l’immersione in essa, una realtà che – se osservata senza preconcetti o filosofie – è polimorfa e mutevole. Trova quindi spazio una simbologia che attinge al cristianesimo, ma esplora anche i saperi dell’antichità, dalle prime esplorazioni oceaniche alla natura rituale di molte credenze. Trova espressione il rapporto tra la volontà di resistere al dolore e la caduta nella follia.

 

Negli anni Cinquanta, nei testi di Melville si accentuano i temi della solitudine e della sconfitta. Gli ambienti cittadini si fanno claustrofobici e i personaggi si chiudono in un dignitoso silenzio al mondo. Così fece lo scrittore, che in se stesso trovò le forze per continuare a vivere e a scrivere fino all’ultimo dei suoi giorni.

Nel 1866 divenne ispettore della dogana di New York, impiego che gli permise una certa sicurezza finanziaria. La famiglia subì però le tensioni e le disgrazie di cui ho già scritto. L’opera in versi Clarel, più lunga del Paradiso perduto e dell’Iliade, è un poema in centocinquanta canti, in cui lo scrittore affronta temi culturali e teologici. Ritornò anche alla prosa, per esempio nel racconto Billy Budd, che rimase incompleto. La poetica del non-finito, che nell’arte ha un emblema in Michelangelo Buonarroti, trova in Melville una chiara espressione: se in certi casi furono ragioni editoriali o la morte stessa a rendere incompiuti certi scritti, già nel capitolo sulla cetologia di Moby Dick il narratore sottolinea l’impossibilità di portare a termine la sua classificazione. In fondo, è la conoscenza umana a essere imperfetta, a rimanere aperta a nuovi studi. Melville sembra respingere ogni sintesi definitiva e invita il lettore a far interagire diversi punti di vista, interpretazioni e linguaggi.

 

Abraham Storck, Dutch Whalers Near Spitsbergen (1690)

 

Hemingway e Il vecchio e il mare

 

Il vecchio non riusciva a pescare nulla da ottantaquattro giorni; il giovane Manolìn, che lo aiutava, lo aveva lasciato perdere su consiglio dei genitori. Santiago era ormai un salao, aveva su di sé la peggiore forma di sfortuna, ma decise ugualmente di uscire in mare aperto, da solo.

Il vecchio aveva un corpo a pezzi, magro e scarno; portava sul volto le chiazze del cancro della pelle, provocato dall’eccessiva esposizione al sole. Tutto in lui era vecchio – ci fa sapere Hemingway – tranne gli occhi, allegri e indomiti, del colore del mare.

Caccia e pesca sono due aspetti biografici dello scrittore che non si possono separare dalla sua produzione letteraria. Nel 1934, Hemingway fece un safari in Africa, nella zona del Kilimanjaro: fu colpito da dissenteria amebica e fu tormentato dal grido delle iene. Le avventure della caccia ebbero però la meglio sul suo stato di salute. Quattro anni prima stava già organizzando il safari in Kenya e in Tanganika. Aveva girato gli Stati Uniti per prepararsi, dormendo in sacchi a pelo con lo scrittore John Dos Passos e altre persone comuni, da cui trasse vari insegnamenti. Un grave incidente in auto lo costrinse a rimandare la partenza.

 

Nello stesso anno in cui realizzò il safari, ricevette anche la Pilar, la celebre nave da pesca sulla quale si imbarcava spesso per mesi. Navigò nei Caraibi e in Sudamerica; visse a Cuba e frequentò Bimini, il distretto più occidentale delle Bahamas. Nel 1935, accompagnato dai coniugi Dos Passos, avvenne un incidente spettacolare, ricordato da Fernanda Pivano: «mentre arpionava un pescecane e cercava di sparargli alla testa con una rivoltella, si sparò invece in tutte due le gambe e fu riportato a terra umiliato e frustrato per venire ricoverato in un ospedale. Umiliazione e frustrazione durarono solo una settimana; partì subito dopo, questa volta con Charles Thompson, l’amico di Key West che lo aveva accompagnato nel safari in Africa.» In quei mesi sulla Pilar, pescò tonni e squali; bevve molto ed ebbe frequenti incontri di boxe sulle coste.

Stava lavorando a Il vecchio e il mare quando tornò sull’imbarcazione nel 1951: Hemingway era ispirato dai luoghi tropicali, ma soffriva la solitudine; amici come Dos Passos e Francis Scott Fitzgerald furono colpiti dal suo umore irritabile. Lo tormentavano le continue emicranie, forse frutto di anni e anni di incidenti con traumi alla testa, l’ultimo dei quali avvenuto a luglio dell’anno precedente proprio sulla Pilar. Hemingway si riduceva a diete ferree, con verdure scondite e, di rado, carne e pesce grigliati; l’alcool restava però una costante.

 

Safari, pesca in alto mare, ma anche le corride, legate per sempre al suo nome. A Pamplona, al suo terzo viaggio spagnolo, scendeva di mattina nell’arena, combattendo con i tori negli spazi a disposizione dei dilettanti, assistito da matadores professionisti.

Fin da bambino era cresciuto osservando gli animali impagliati dal padre, una pratica che il figlio riprese, ma vedeva anche scheletri e contenitori di feti umani, poiché il padre era un medico. Questi gli aveva insegnato ad amare la natura e a uccidere gli animali solo per nutrimento. Il suo insegnamento morale prevedeva un certo stoico coraggio, riassunto nella pratica di fischiare per dominare il dolore fisico e la paura. Come disse anni dopo: «Nella vita bisogna (soprattutto) resistere.»

Hemingway viveva in campagna e girovagava a piedi nudi; leggeva libri di viaggi e di avventure. Cominciò a dormire nella tenda dietro la casa estiva di famiglia, a impiegare la canna da pesca, che il nonno gli aveva regalato a tre anni, e il fucile da caccia, ricevuto a dieci.

 

Hemingway sfidò la morte per tutta la vita, in modo beffardo, e la vita gli presentò il conto. Nel 1955, una troupe di Hollywood stava girando del materiale per l’adattamento cinematografico de Il vecchio e il mare, con la presenza dello scrittore: dopo due settimane il lavoro fu sospeso. Hemingway era entrato in un vortice di depressione e a settembre aveva firmato un nuovo testamento. Il corpo stava comunque recuperando, ma a novembre, alla cerimonia per il conferimento della medaglia dell’ordine di San Cristóbal, lo scrittore, colpito dal calore dei fari e dal freddo notturno, prese la febbre, a cui si aggiunse un’epatite e un attacco di nefrite. Rimase bloccato a letto per due mesi.

Ad agosto del 1960 si trovava di nuovo in Spagna, ma scrisse alla moglie Mary di essere tormentato dall’insonnia e dalla solitudine. Riteneva il sistema delle corride corrotto e temeva per un imminente crollo fisico e nervoso, dovuto all’eccessivo lavoro. Diceva di aver smesso di bere, ma che questo lo rendeva molto nervoso.

 

Era curioso che proprio all’apice del successo, Hemingway fosse sprofondato in questo stato. Per anni aveva combattuto contro una critica che non aveva compreso i suoi scritti. Aveva difeso l’impiego delle dirty words, che erano le vere parole pronunciate dalle persone di cui scriveva: non voleva scandalizzare, ma rendere il testo verosimile, libero da convenzioni vittoriane obsolete.

Poi, nel 1950, ricevette una critica di segno opposto: in Di là dal fiume e tra gli alberi, il Time lo accusò di non aver saputo rifare la parlata del colonnello Charles Lanham, suo amico. Questi lo rassicurò, ma non servì a molto. Il libro fece parlare soprattutto per un aspetto scandalistico, perché uno dei personaggi femminili era modellato su una contessa italiana che Hemingway conosceva. A ottobre, lo scrittore entrò in uno stato di inquietudine e Mary pensò per la prima volta di farlo visitare da uno psichiatra.

Egli definì i critici «parassiti della letteratura», ma era un meccanismo di autodifesa: attendeva con ansia le recensioni e regolarmente ne restava deluso. Già negli anni Trenta era cresciuto in lui il sarcasmo. In una lettera del 13 settembre 1952, riferendosi a Il vecchio e il mare, scrisse allo storico dell’arte Bernard Berenson queste parole: «Non c’è nessun simbolismo. Il mare è il mare. Il vecchio è il vecchio. Il ragazzo è un ragazzo e il pesce è un pesce… Tutto il simbolismo di cui parla la gente è shit

 

Con quel libro, egli vinse il Premio Pulitzer nel 1953 e l’anno seguente il Nobel per la letteratura. Il suo grave stato di salute non gli permise di andare a Stoccolma. Secondo Pivano, era un uomo di cinquantacinque anni, che ne dimostrava venti di più, pur avendone nel cuore meno di trenta. Era dunque lo sguardo del vecchio Santiago. In quel periodo, fuggendo i giornalisti insieme a Mary sulla Pilar, scrisse alla critica e traduttrice italiana:

 

Cara dolce buona bella Nanda, si sono tutti agitati per questo premio più di me. Io ne avevo sentito parlare tante volte e poi non era mai venuto e quando l’ho ricevuto non aveva più significato. Forse sono morto troppe volte in Africa per preoccuparmi di onori mondani o diciamo onori accademici. So che ho torto ma è così. Somiglia troppo a una medaglia d’oro postuma. Meglio averla d’argento e non rompersi le interiora e la schiena e la testa. Va tutto bene e l’anno prossimo sarò perfetto ma per molto tempo sono stato molto male e pareva che non valesse la pena seguire regimi eccetera. […] Perché un premio deve far diventare la gente così buffa? Ho guadagnato altrettanto denaro al gioco e non sono 18 milioni di Swedes a dar fiducia nei libri quando i libri li scrivi tu. Forse è il modo giusto di trovare la fiducia. Ma io devo trovarmela da solo […]. Non ti preoccupare per me, Nanda. Io andrò a posto. Le mie interiora migliorano continuamente e la schiena si sta rinforzando. Ho bisogno soltanto di essere lasciato in pace dalla gente. Mi fanno diventare matto quando vorrei mettermi a lavorare. […] Forse un giorno mi sveglierò e sarò anche felice per il premio. Ma per ora per me è stato soltanto un disastro con giornalisti, fotografi e interruzioni di un libro che ero tanto felice di scrivere.

 

In occasione della premiazione, Hemingway inviò un messaggio in Svezia: «Uno scrittore che conosce i grandi scrittori che non hanno ricevuto il premio non può accettarlo che con umiltà.» E ancora: «Lo scrittore cresce nella sua statura pubblica, mentre nasconde la sua solitudine e spesso la sua opera si deteriora. Perché fa il suo lavoro da solo e se è uno scrittore abbastanza bravo deve affrontare ogni giorno l’eternità o la mancanza di essa. Per un vero scrittore ogni libro è un inizio nuovo in cui tenta di raggiungere qualcosa che è irraggiungibile. Deve sempre tentare qualcosa che non è mai stato fatto o che altri hanno tentato senza riuscire.»

La prima frase può far pensare a tanti scrittori, ad amici di Hemingway. Ce n’era uno, in particolare, che lo segnò nel profondo. Nel 1934, Fitzgerald aveva pubblicato Tender Is the Night, opera alla quale lo scrittore aveva dedicato molto tempo ed energie: ottenne scarso successo; la situazione economica peggiorò, ebbe un serio attacco di tubercolosi e la moglie, Zelda Sayre, fu ricoverata in una clinica per la terza ricaduta legata a una grave forma di schizofrenia. La situazione non migliorò. Fitzgerald ebbe un crollo, un crack-up di cui scrisse in tre articoli del 1936, sulla rivista Esquire. Egli confessava il proprio fallimento, ma invece di ricevere comprensione e aiuto da amici e lettori, i più si scandalizzarono e Hollywood gli rifiutò un contratto.

 

Quelle confessioni colpirono molto Hemingway e certo dovette ritornare a esse con la memoria, in quegli anni di successo esteriore e di dolore intimo. Sì, aveva sfidato la morte tanto a lungo. Dai primi incidenti infantili al ferimento nella grande guerra, dai traumi cranici degli incidenti automobilistici e aerei ai ritmi forzati della guerra civile spagnola e della seconda guerra mondiale.

Da giovane, dopo la ferita subita nella PGM, scrisse al padre che morire fosse la cosa più semplice, avendo guardato in faccia la morte, e che fosse meglio morire nel periodo felice della giovinezza che in un corpo vecchio e disilluso. Quello stesso padre si suicidò nel 1928 con un colpo di rivoltella e Hemingway soffrì per la morte di quell’Io ideale, che lo aveva tradito con un gesto che gli parve una debolezza di carattere, come scrisse nel racconto Fathers and Sons.

Nel giugno 1951 si aggiunse la morte della madre e ad agosto il padre di Mary si aggravò per il cancro. A ottobre morì Pauline Pfeiffer, la seconda moglie dello scrittore, e il loro figlio, Gregory, accusò il padre di averla fatta morire. Hemingway rimase molto afflitto da questa serie di sciagure.

 

Nel 1954, a seguito di un gravissimo incidente africano, lo scrittore si rivolse a Pivano con queste parole: «Non è vero che quando si muore passa davanti agli occhi la vita passata: si è solo affannati da problemi tecnici; bisognerebbe morire con tecnica perfetta. E quando si resuscita, disse, i primi pensieri sono di nuovo problemi tecnici: soldi bruciati, lettere di credito bruciate, dove troverò i soldi? E i passaporti? Scriverò alla banca che mi rinnovino le lettere di credito, cercherò qualche consolo per rifare i passaporti.»

Quando l’aereo su cui volava con la moglie era precipitato, molti lo avevano dato per morto. E Hemingway dopotutto sentiva di non avere più il fisico di un tempo. Ai danni del corpo si aggiungevano manie, paranoie e depressione. Fu ricoverato alla clinica Mayo di Rochester, dove subì i primi elettroshock; un secondo ricovero con il medesimo trattamento devastò lo scrittore. Ritornato a casa dopo due mesi, trovò le chiavi della cantina, dove la moglie aveva chiuso i fucili, e il 2 luglio 1961 si suicidò. Forse, l’ultimo dei suoi dolori fu l’incapacità di poter sognare ancora i leoni sulla spiaggia.

 

Ne Il vecchio e il mare scrive: «L’uomo non è fatto per la sconfitta. Un uomo può essere distrutto, ma non sconfitto.» Parlando con il ragazzo, il vecchio ammette di non essere forte come credeva, ma di conoscere molti trucchi e di essere ostinato (ricordo che per l’autore la vita era soprattutto resistenza).

Il marlin alla fine abbocca: un pesce di dimensioni enormi, che trascina il pescatore per giorni, prima di cedere. Il vecchio, a causa dell’età dell’animale, ne prova un’iniziale pena e si rende conto che questi potrebbe distruggere l’imbarcazione o ferirlo. Eppure, il pesce non sembra attraversato dal panico nella sua lotta. Il vecchio torna al ricordo di una coppia di marlin: la femmina era stata uccisa e il maschio era saltato fuori dall’acqua per vedere la situazione. L’uomo ne aveva provato grande pena, perché voleva bene a quei pesci, li sentiva fratelli, al contrario delle remote entità del cosmo, le stelle e la luna e il sole.

Ritorna però alla lotta col gigante, determinato ad ammazzare il marlin che aveva abboccato e che avrebbe fornito molta carne. Il pescatore ne riconosce la nobiltà e l’abilità; pensa persino che vorrebbe essere come quel pesce, nell’oscurità del mare, con tutta la tenacia che possiede nel respingere la volontà dell’uomo e la sua intelligenza spietata. In fondo – scrive Hemingway – vicino a grandi uccelli e bestie l’uomo non è granché; quel marlin mostrava un nobile contegno e una grande dignità. Nessuno meritava di mangiarlo. Alla fine lo colpisce con una fiocina e lo finisce: la grande bellezza dell’animale, il fianco smeraldino, scorre esanime sotto ai suoi occhi.

 

Hemingway ha la notevole capacità di prendere un’attività come la pesca, considerata noiosa dai più o violenta a quei livelli, e la trasforma in una narrazione dal tono epico. Eppure, l’epica è costituita da simboli e qui lo scrittore utilizza un linguaggio diverso, che parla del vero. Ciò non significa – a dispetto di quanto disse l’Autore – che questi simboli non ci siano: semplicemente Hemingway sceglie di non nominarli, di non mostrarli, lasciando che il non detto evochi da sé ciò che è evidente.

Se rivolgendosi a Berenson, Hemingway aveva ripudiato il simbolismo dell’opera, il critico scrisse: «Nessun vero artista scrive simboli o allegorie – e Hemingway è un vero artista – ma ogni vera opera d’arte emana simboli e allegorie. Così avvenne per questo breve ma non piccolo capolavoro.» E William Faulkner: «Questa volta ha scoperto Dio, un creatore. Finora i suoi uomini e donne si erano fatti, si erano formati con la loro stessa argilla; le loro vittorie e sconfitte erano nelle loro mani, soltanto per provare a se stessi fino a che punto potevano essere duri. Ma questa volta ha scritto sulla pietà: su qualcosa che da qualche parte li ha creati tutti.»

Il vecchio prova rimorso per l’uccisione della creatura, finché allontana quella sensazione e ripensa a pescatori sacri e profani, a San Pietro e al padre del campione di baseball Joe DiMaggio. E in fondo – si dice – c’è già chi venga pagato per riflettere sul rimorso e sui peccati. Con la pesca, poi, il rapporto era equo: gli dava l’opportunità di vivere e questa, a sua volta, era in grado di ucciderlo.

 

Questi pensieri vengono superati dall’arrivo degli squali, attratti dalla carcassa del marlin: la lotta con la natura ricomincia, ancora più tenace, e non dà spazio alle filosofie. Il vecchio strappa la barra dal timone e prende a mazzate i predatori; la lotta si fa violenta e brutale, ma alla fine gli squali hanno la meglio e dilaniano la carcassa.

Santiago è sconfitto, ne è consapevole. L’estremità scheggiata della barra riesce a entrare nel foro e l’uomo torna a pilotare la barca. Gli squali vengono a prendere le briciole, ma il vecchio non se ne cura. Pensa a quanto buona sia quella barca; entra nella corrente e vede le luci dei villaggi rivieraschi. Ora comprende dove si trova, quali siano le sue coordinate, e nel mare sa riconoscere gli amici e i nemici. A riva, il letto è certamente un amico: ne ha bisogno, era andato troppo al largo e aveva preteso troppo. Nelle prime pagine del libro, il vecchio aveva detto di sognare spesso l’Africa, visitata quando era giovane: non sognava più donne o tempeste, la moglie o le risse, ma sentiva l’odore dei luoghi e vedeva i leoni sulla spiaggia. Nell’ultima pagina, torna a sognare di loro. La filosofia del vecchio è tutta nella vita vissuta, nell’attimo di pace prima della tempesta, nel timore per le fredde stelle, nel sentimento d’amore per le creature a lui vicine. Nell’agone tra la vita e la morte era stato coraggioso. Ora poteva concedersi un riposo e godersi la certezza che il giovane Manolìn lo avrebbe accompagnato nel viaggio successivo.

 

Thomas Eakins, Starting Out After Rail (1874)


Storie di ardimento, storie di mare

 

Fernanda Pivano si laureò con una tesi su Moby Dick; ne parlò a Hemingway, il quale si commosse, essendo «innamorato di quel libro più di quanto i suoi critici abbiano mai pensato.»

Lo scrittore aveva vissuto una vita che era di per sé un romanzo; il suo machismo eroico era antitotalitario, un concetto che oggi forse ci sfugge, poiché tendiamo a rapportare il machismo a qualcosa di tossico a priori. Hemingway fu invece portatore di una virilità che, pur con tutte le imperfezioni del tempo, si traduceva in coraggio, in senso della giustizia e in resistenza. La sua fu una virilità positiva nella misura in cui si tradusse nella non indifferenza per il prossimo, come è rappresentato in modo emblematico dalla sua partecipazione alla guerra civile tra le fila antifranchiste.

Hemingway imparò un certo stoicismo dal padre e lo trasmise a molti suoi personaggi, soprattutto a Santiago. Il vecchio e il mare fu però anche un testamento di vita, un punto di rottura: quel genere di presa di coscienza e di grazia che prepara la strada a una nuova lotta, quella invincibile contro la vecchiaia. E lo scrittore non poté mai maturare quel discorso. Melville, invece, scoprì quello stoicismo con il tempo ed esso lo accompagnò fino alla fine, in una serena rassegnazione, che non escludeva un’intensa attività letteraria, ormai lontana dallo sguardo della critica. Già nel primo capitolo di Moby Dick, l’Autore fa dire a Ishmael: «Il passaggio da maestro di scuola a marinaio è davvero duro, ve l’assicuro, e per consentirvi di fare buon viso a cattivo gioco e di sopportarlo ci vuole una bella razione di Seneca e di stoicismo. Ma anche questo, col tempo, passa.»

 

Melville scrisse riguardo alla baleneria e alla marineria con cognizione di causa; fu egli stesso su quelle navi e visse in mare abbastanza da poterne trarre insegnamenti indelebili. Non ci teneva però a essere ricordato come l’uomo che era stato tra i cannibali (come narrava nel primo romanzo Taypee) e avrebbe voluto scrivere qualcosa di diverso da una mera cronaca romanzata. Il pubblico e la critica però non accolsero bene il romanzo Mardi, che mescolava alle storie di mare un pensiero filosofico e simbolico. D’altra parte, se un autore si valutasse in base alle critiche ricevute da recensori e giornalisti, allora Melville non sarebbe uno scrittore. E non lo sarebbero nemmeno altri come Kafka o Hemingway, prima del riconoscimento internazionale.

Mardi fu comunque lo strumento con cui Melville aprì la strada alla dialettica tra scienza e immaginazione che si ritrova in Moby Dick. La nota parte sulla cetologia è solo all’apparenza un noioso resoconto scientifico e, anzi, ne è quasi una parodia. Per analogia, Melville paragona i cetacei ai formati dei libri (in-folio, in-quarto, etc.), ma la sua raccolta dello scibile umano sull’argomento è selettiva e libera.

Anche Hemingway descrisse la tecnica del pescatore con cognizione di causa. Uscendo dal rapporto tra scienza e immaginazione, egli seguì una terza strada, quella dell’osservazione diretta e della prospettiva del pescatore. Limitata, forse, ma credibile nella sua dimensione. In questo senso, la capacità di raccontare storie che funzionassero (storytelling) non precluse a Hemingway la possibilità, perlomeno conseguente, di narrare storie evocative collegandosi a cose reali, riconosciute nella loro simbolicità.

 

Peraltro il vecchio Santiago mostra solo in parte una sua propria conoscenza del mare e della pesca: Hemingway integra la sua prospettiva con studi di altra natura, non dissimili da quelli di Melville in àmbiti come la biologia marina. A differenza di quest’ultimo, però, Hemingway ne parla in un altro contesto, per esempio nell’articolo Out in the Stream. A Cuban Letter, pubblicato su Esquire nell’agosto 1934. Qui lo scrittore mette su carta la propria “cetologia”, descrivendo i diversi tipi di marlin, parlando del loro colore, delle striature, delle differenze tra gli esemplari. E fa molta ironia – una dote che non manca all’Autore di Moby Dick – valutando i dati a disposizione e sperando in fantomatiche sovvenzioni per lo studio dei marlin, destinate a non arrivare, perché tutte le persone ricche che conoscesse erano occupate ad accumulare più soldi e cavalli, e a fare psicoanalisi. Alla fine dell’articolo, dopo aver proposto alcune sue interpretazioni biologiche – che potrebbero essere state pronunciate dalla curiosità scientifica del padre medico – Hemingway conclude: «E adesso dimostratemi che sbaglio.»

 

Per concludere, vorrei porre l’attenzione sull’eccezionalità di colui che vive sulle acque. Il vecchio e il mare e Moby Dick rappresentano infatti una lode all’ambiente marino e a chi è in grado di sopportarne le asperità. Melville dedica alcune delle pagine più ispirate alla descrizione dell’oceano e delle sue profondità, per non parlare del ruolo pionieristico che attribuisce ai marinai e ai balenieri, fin dall’antichità, quali esploratori del globo e delle sue creature. La nave stessa diviene un mondo a parte, un universo circoscritto e un piano di lavoro. Talvolta queste isole si incrociano, nei cosiddetti gam – e le navi si scambiano informazioni e cordialità. Si instaura un senso di solidarietà tra la ciurma, se non di vera e propria fratellanza, che non conosce distinzioni razziali, ma solo quelle diversità etniche che arricchiscono (si pensi al rapporto edificante tra Ishmael e Queequeg).

In Hemingway la fratellanza si estende alle altre creature dell’oceano e negli animali marini Santiago vede amici e nemici, che possono scambiarsi i ruoli a seconda delle situazioni. In tal senso, il capitano Achab vede nella balena bianca qualcosa di demoniaco, un male assoluto che non riguarda solo la sua condizione, ma quella dell’umanità. Così in lui si instaura una vera ossessione patologica, diversa dall’ostinazione del vecchio Santiago, il quale esce sconfitto, ma sereno, poiché sa di aver fatto quanto poteva con le sue forze.

 

In questo discorso è utile integrare il pensiero del giurista e filosofo Carl Schmitt, con il suo saggio Terra e mare (1942), il quale titola il quinto capitolo Elogio della balena e del baleniere. Egli fa una distinzione tra cacciatori del mare e semplici pescatori o «macellai di balene meccanizzati.» Cita esplicitamente Moby Dick e il fatto che Melville avesse descritto il rapporto intimo tra cacciatore e preda, in quello che considera «il più grande epos dell’oceano in quanto elemento.» Secondo Schmitt, lo scontro con la natura diviene eroico quando è combattuto ad armi pari; è invece hybris quando l’essere umano impiega tutta la sua tecnologia, trasformando la lotta in una carneficina sistemica e seriale. Direbbe Santiago: chi è degno di cibarsi di questo nobile pesce?

Melville non sembra adatto al nostro tempo, nella sua ricerca di una verità polifonica, fuori dagli schemi del romanzo e della morale costituita, fuori dal modello di una conoscenza compartimentata. Nemmeno Hemingway sembra così adatto al presente, in cui il rifiuto del dolore e la pavidità sono in sintonia e si ergono a moralismo, adottando un neopuritanesimo da “lettera scarlatta”. E tuttavia questo essere inappropriati non è un loro limite, ma il segno di ciò che dovremmo ritrovare per non scadere in una parodia della moralità vittoriana, tra tabù di forma e di contenuto.

 

Caspar David Friedrich, The Monk by the Sea (1809)

Bibliografia essenziale

 

° Hemingway E., The Old Man and the Sea, Scribner, New York, 2020

° Id., Il vecchio e il mare, Mondadori, Milano, 2012

° Mariani G., Leggere Melville, Carocci, Roma, 2013

° Melville H., Moby Dick, HarperCollins UK, Glasgow, 2013

° Id., Moby Dick, Newton Compton, Roma, 1995

° Mumford L., Herman Melville, Edizioni di Comunità, Milano, 1965

° Pivano F., Hemingway, Bompiani, Milano, 2017


Per un ulteriore approfondimento sui due scrittori, rimando a un altro post di questo blog: qui.

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