Recensione Nope. Alla ricerca di un'immagine

[La recensione contiene spoiler.]

 


Nope è il terzo film di Jordan Peele e un’inedita declinazione personale della fantascienza in chiave horror.

La pellicola si apre nel 1998, sul set della sitcom immaginaria Gordy’s Home, in cui lo scimpanzé protagonista, in uno scoppio d’ira, massacra alcuni co-protagonisti umani. Veniamo così catapultati nel presente, in un ranch che addestra cavalli per il mondo del cinema e delle serie tv. I fratelli Otis “OJ” (Daniel Kaluuya) ed Emerald “Em” Haywood (Keke Palmer) ereditano la struttura, dopo l’insolita morte del padre, colpito da una moneta caduta dal cielo.

OJ è un personaggio conservativo, intenzionato a portare avanti l’attività paterna, senza troppi compromessi con lo show business, che consuma i suoi cavalli con scarso rispetto, in nome di una buona ripresa. Kaluuya veste qui i panni dell’addestratore e del cowboy, ma la sua interpretazione appare troppo legata al precedente immaginario di Peele, con figure allucinate e catatoniche, mal legate alle esigenze di Nope.

La sorella Em è invece un personaggio più spregiudicato, in cerca della notorietà: in una scena sostiene che il fantino senza nome, presente nella serie di fotografie Animal Locomotion di Eadweard Muybridge, sia un loro antenato. Palmer interpreta Em con carisma e vivacità, ravvivando la scena. E il riferimento alle origini della cinematografia e al fantino afroamericano è la più forte nota tematica legata ai precedenti film del regista.

 


Trascorrono diversi mesi dalla morte del padre degli Haywood: a causa dei problemi finanziari, OJ comincia a vendere i cavalli e il proprietario del parco di divertimento Jupiter’s Claim, a tema western, si offre di acquistare il ranch. Tuttavia, durante una notte di blackout, accade qualcosa di strano: un UFO divora i cavalli, facendo precipitare i materiali inorganici. Em e OJ, con l’aiuto di Angel Torres, dipendente di un’azienda di elettronica, decidono di documentare l’esistenza dell’oggetto, così da trovare il denaro e il successo che stavano cercando.

Nel frattempo il proprietario del parco, Jupe (Steven Yeun), a conoscenza dell’UFO, presenta un nuovo spettacolo: con l’intenzione di offrire all’entità i cavalli di OJ, finisce divorato insieme al pubblico pagante. Yeun ha qui un ruolo secondario, che porta a casa diligentemente, prima di scomparire dalla scena.

OJ, osservando l’entità da vicino, comprende che l’oggetto è in realtà un essere vivente. Rientrato al ranch, organizza un piano con Em, Torres e Antlers Holst (Michael Wincott), direttore della fotografia insoddisfatto alla ricerca di un’idea originale. Holst, per aggirare gli sbalzi di corrente causati dalla creatura, chiamata Jean Jacket, impiega una cinepresa a manovella. Il piano di ripresa però fallisce: un giornalista spregiudicato finisce per farsi uccidere; Holst si fa divorare, convinto di poter fare una ripresa migliore nella golden hour; Torres rimane ferito.

Senza via di scampo, OJ attira il predatore lontano dalla sorella, la quale ha un’idea: fa volare un grande pallone a elio del Jupiter’s Claim, che Jean Jacket divora, scatenando un’esplosione che ne provoca la morte. Un istante prima del botto, Em riesce a scattare la fotografia che potrebbe renderla finalmente famosa, portandola all’agognato show di Oprah Winfrey, passaggio mediatico senza il quale non si può parlare di successo.

 


Dietro ai film di Peele c’è sempre un sottotesto in parte dichiarato dal regista stesso. Nel caso di Nope, alla critica sociale di Get Out! e di Us, connessa ai controsensi della storia statunitense sugli afroamericani, si integra una polemica di più ampio respiro. Peele affronta il tema della spettacolarizzazione, in particolare dell’orrore e della mostruosità, e dell’assuefazione contemporanea rispetto alla produzione e al consumo di immagini.

È il tema stesso a portare il regista a concentrarsi più sull’azione che sulla riflessione. Per sopravvivere alla creatura non bisogna guardarla: per fuggire dall’orrore le persone scelgono di ignorare, di non guardare in alto. Chi ha coraggio, però, si industria, alza la testa e ritrae il mostro per quello che è: un pallone gonfiato.

Nope è anche un’autocritica, quella necessaria a qualsiasi artista che desideri non ripetersi (ci sono forse elementi di Peele nel personaggio di Holst). Dopodiché il regista è anche esterno alla sua creatura ed è in grado di recuperare i codici del cinema in maniera funzionale alla rappresentazione simbolica. Peele si è ispirato all’esperienza della pandemia, quando chiusi in casa per un’imprevista minaccia esterna (proprio come Jean Jacket), ci siamo tuffati nello spettacolo domestico, e persino nella spettacolarizzazione della pandemia.

Il modo in cui poter monetizzare la morte e l’orrore è qualcosa che troviamo tanto in Holst quanto in Em. E per forza in Nope merita una menzione a parte la fotografia, che contribuisce in modo centrale alla riuscita del film. Il direttore della fotografia è il grande Hoyte Van Hoytema, prediletto da Christopher Nolan (Interstellar, Dunkirk, Tenet e non solo). Le immagini sono estremamente nitide, anche nelle scene notturne, e l’ambientazione domina la scena come un personaggio a sé stante, grazie ad ampi scorci paesaggistici che inglobano le persone e gli oggetti, proprio come fa Jean Jacket. D’altra parte per i greci l’idea è immagine, forma conosciuta o intuita, e così il regista va alla ricerca di un nuovo panorama a cui attingere per il suo cinema.

La colonna sonora partecipa alla definizione dell’immagine. Composta da Michael Abels, che aveva già lavorato con Peele nei due film precedenti, realizza l’obiettivo di creare una base sonora che faccia percepire la crescente minaccia. Per questo Abels ha collaborato in stretta connessione con il sound designer Johnnie Burn, che ha giocato molto sul silenzio, sia quello del predatore, sia quello provocato dall’isolamento di suoni angoscianti, come nel rumore del vento, in cui vengono isolate ed enfatizzate le urla di chi è stato inghiottito.

 


Peele ha dichiarato che voleva creare un “grande” film di fantascienza horror, che a suo dire non esisteva. In un certo senso ci è riuscito, trattandosi del primo horror girato con videocamere IMAX e con una qualità della fotografia fuori scala. Certo, film validi sul tema ne esistono già.

Sul piano prettamente sociale, District 9 (2009) di Neil Blomkamp ha una corrosività critica che vince sulla linea morbida di Nope, che decide di sacrificare parte del sottotesto proprio in nome dell’intrattenimento. Peele poi interiorizza Spielberg, attingendo a capolavori quali Incontri ravvicinati del terzo tipo, Lo squalo e Jurassic Park. Un altro grande regista, Alfred Hitchcock, sta conoscendo una seria riscoperta da parte della “nuova” leva, Peele incluso. Ne ho parlato nella recensione di X (2022, Ti West), dove i riferimenti hitchcockiani sono citati in modo esplicito. Anche Peele sceglie di adottarne alcuni elementi, come con la backstory dello scimpanzé che funge da anticipazione di quanto viene visto in seguito.

Che dire poi dei continui rimandi a Tremors, di cui Nope condivide l’essenza della trama, alcune scelte sceniche, ma non l’autoironia? Perché Nope si prende sul serio, i suoi personaggi sono ciecamente convinti di voler portare avanti lo show a tutti i costi, quasi fosse un destino o qualcosa di eroicamente stupido.

Proprio per le sue diverse ispirazioni, nel film troviamo un mescolamento di generi, non sempre ben amalgamati: alla macrocategoria della fantascienza si uniscono il neowestern, il thriller, l’azione e il sottogenere del monster movie. Gli elementi horror e della commedia, tipici invece del repertorio di Peele, si inseriscono a fatica nell’insieme e risultano armi spuntate. Non è un caso che il picco dell’orrore non si raggiunga con Jean Jacket, ma con la storia di Gordy (qui quella vera), che entra un po’ a fatica nella trama, per quanto sia una perla della pellicola. La storyline dello scimpanzé potrebbe infatti costituirsi come cortometraggio indipendente e di tutto rispetto.

In definitiva, Nope è un film che funziona per due terzi della pellicola, pur con alcune incertezze, e che nel finale, per ragioni di trama, perde la sua forza propulsiva e non risulta incisivo. Al contempo, segna un momento di svolta nella cinematografia di Peele, aprendo alla domanda su quale sarà la strada percorsa nel prossimo film.

Commenti

Post popolari in questo blog

Arnolfo di Cambio e il ritratto di Carlo I d'Angiò

Qual è l'album più compiuto di Fabrizio De André?

La Gipsoteca di Possagno secondo Carlo Scarpa