Retoriche, volontaria ignoranza, falsi miti nella guerra in Ucraina
In questo anno di
guerra in Ucraina siamo stati sottoposti a una marea di notizie e informazioni,
seconda soltanto alla mole mediatica riservata prima al Covid-19.
In questo post,
raccolgo alcuni pensieri degli ultimi mesi sul tema della guerra. Partendo da
un presupposto: esistono propagande; esistono narrazioni. Non è vero però che
le opinioni si equivalgano o che l’una valga per l’altra. In aggiunta, avere
un’opinione non significa di per sé non essere obiettivi. Non ci si può nemmeno
limitare ai fatti nudi e crudi o alla stesura di una serie di eventi esaustiva:
perché la mole giornaliera di informazioni sul tema della guerra in Ucraina non
lo rende possibile. Essa richiede una selezione e qui si determina l’opinione –
il più possibile fondata sulla concatenazione di quei fatti – e la costruzione
di una narrazione, che ha lo scopo di dare un significato alla concatenazione,
facendo delle inferenze.
Come ricorda il
filosofo Justin E.H. Smith in Irrazionalità
(Ponte alle Grazie, 2020), il legame tra story
e history era molto stretto prima
della svolta positivista dello storico Leopold von Ranke, che introdusse a
livello accademico la concezione secondo cui bisognasse scrivere un resoconto
delle cose come erano in realtà. Un «ideale impossibile»: riconoscerlo «non
significa rinunciare alla verità, ma solo ammettere che l’aspirazione alla
verità è un’aspirazione morale e non un compito cognitivo o di semplice
enumerazione di evidenze.» I fatti – selezionati, parziali, mai esaustivi –
vanno interpretati. Per farlo, serve uno sforzo cognitivo, senso critico e una
spoliazione dall’ideologia.
Prima critica: «Perché
non si interviene anche per gli altri conflitti nel mondo?»
La domanda è fin
troppo generica: quale dei tanti conflitti? E stiamo parlando di una guerra
d’invasione, di una civile, di terrorismo islamico o di altro? In realtà,
l’Occidente, altri Paesi e le Nazioni Unite intervengono continuamente in
diversi scenari critici: talvolta con aiuti umanitari, altre con armi, altre
ancora con consiglieri o mediatori. Insomma, dipende dalla situazione.
Una variazione
della prima critica recita: «Perché non
inviamo armi per sostenere ogni popolo in guerra?»
In realtà, in certi
casi, viene fatto. Ci sono state molte missioni europee, occidentali o delle
Nazioni Unite per contrastare la pirateria e il terrorismo in Africa. Alcune di
queste sono ancora operative, per quanto la Russia abbia intensificato la
propria presenza nel continente, perlopiù per garantirsi l’approvvigionamento
di materie prime in concorrenza con cinesi, turchi, indiani e sì, anche europei
e americani. Ciò che cambia è l’approccio: per un approfondimento sul tema,
rimando al mio speciale a puntate sull’estate africana 2022 (qui) o a questo approfondimento di ISPI (qui).
D’altra parte, le
armi non sono la soluzione a ogni conflitto armato, soprattutto se si tratta di
una guerra civile. Per esempio in Tigray, ad autunno 2022, è stato firmato un
accordo di pace tra le parti coinvolte in una guerra civile ed etnica interna
all’Etiopia. Vari attori hanno mediato, tra cui Sud Africa, Kenya e Unione
Africana, proprio perché era interesse di quel continente occuparsi della
questione etiope.
Viene da
chiedersi: perché noi europei non dovremmo occuparci di risolvere la situazione
ucraina? Che l’invasione della Federazione russa non abbia prodotto una guerra
civile è provato dai fatti, ovvero dalla resistenza ucraina, contraria a
lasciarsi conquistare da quel vicino che pensava di essere trattato da
“fratello maggiore”, salvo venire presto smascherato.
Ragionare in
termini di area geografica e di prossimità al conflitto è più utile. Quante
volte sentiamo usare con sarcasmo l’espressione «esportare la democrazia»,
ricordando le stupide guerre portate avanti dalla presidenza di George W. Bush?
Proprio perché ci dovremmo fare «i fatti nostri» – come direbbe la stessa
persona – dovremmo occuparci con più attenzione di Ucraina, ovvero di Europa.
In effetti, la Russia si è fatta strada in Africa anche perché i Paesi
occidentali, nell’ultimo decennio, si sono allontanati da molte aree del
continente: l’Occidente, con le opinioni pubbliche e i suoi rappresentanti,
sembra aver compreso bene le conseguenze di Iraq, Afghanistan, Libia, etc. Chi
mira invece a un rinnovato colonialismo è proprio la Russia. Più astuti i
cinesi, con l’impiego del soft power.
In altre
situazioni specifiche non mancano gli interventi ponderati, come la
collaborazione ultradecennale (pur tra alti e bassi) tra i governi messicani e
statunitensi contro la piaga del narcotraffico. In casi come lo Yemen, invece,
l’Occidente può fare poco, trattandosi di un conflitto che tocca gli interessi
iraniani e sauditi.
Seconda critica: «Negli
anni Ottanta del secolo scorso, gli Stati Uniti non hanno mantenuto le promesse
sulla non-espansione della Nato nell’Europa orientale.»
Grande cavallo di
battaglia dei filorussi nostrani, non tiene conto delle stesse parole di
Vladimir Putin, che nella famosa intervista realizzata da Oliver Stone, ammise
che Michail Gorbačëv si comportò da ingenuo, non facendo mettere nero su bianco
quelle che non erano altro che chiacchiere. È già difficile far rispettare il
diritto internazionale, figuriamoci i confronti verbali mai sanciti da un
trattato o da un qualsiasi accordo. Ciò che resta sono trascrizioni di verbali,
pur tra alti funzionari, ma privi di alcun valore di legge: sfido chiunque ad
affittare un edificio di cui si è proprietari a qualcuno che non abbia fornito
garanzie di poterlo pagare e che non abbia sottoscritto un contratto. Ma
lasciamo perdere gli aneddoti.
La caduta
dell’Urss fu un processo che oggi ci appare chiaramente scandito da una
concatenazione di eventi più o meno logica. All’epoca, a storia in corso, si
comprendeva l’imminente collasso del blocco sovietico, ma si potevano solo
supporre le conseguenze, in particolare la reazione degli Stati satelliti.
Proprio dai verbali di quelle giornate, si può anzi intuire come gli Stati
Uniti avessero tutto l’interesse affinché il blocco si sfaldasse in maniera
“ordinata”, con la collaborazione russa, anche nell’ipotesi – non si sa quanto
convinta o consapevole – di costruire una nuova forma di sicurezza europea che
arrivasse fino agli Urali. Di vitale importanza era ovviamente il destino
dell’arsenale atomico sovietico.
Terza critica: «Gli
Stati Uniti hanno espanso la Nato fino alle porte di Mosca. Che cosa accadrebbe
se ciò avvenisse a Cuba, a parti invertite?»
Una famosa visione
storica sostiene che gli eventi siano destinati a ripetersi in un loop
infinito. Questa visione, a livello popolare, penso sia più diffusa di quanto
crediamo; ritengo anzi che si amalgami bene alla spiccata vena millenarista
occidentale, che vede una fine del mondo dietro a ogni svolta del “ciclo della
storia”. L’anello, peraltro, risulta alquanto stretto.
Un approccio
vicino a questo interpreta la storia come una spirale, fatta di fasi ascendenti
e discendenti, con eventi simili, ma non identici, distinti dal livello
qualitativo. Che cosa significa? Che gli americani si trovarono nella
situazione di dover fissare il punto su Cuba, nel contesto della guerra fredda,
ovvero di una esplicita ostilità tra blocchi, tra due imperialismi che avevano
la rispettiva volontà di imporsi sull’altro.
Ma la situazione
post guerra fredda, tra gli anni Novanta e i primi Duemila, è stata un’altra
cosa. L’Urss ne usciva sconfitta; gli Usa non infierirono e, al contrario,
fecero notevoli investimenti in Russia, affinché potesse risanare le sue
finanze, avviare le liberalizzazioni e costruire fondamenta democratiche. La
Russia, nella sua nuova forma, fu pacificamente inserita nel contesto delle
relazioni internazionali, senza pregiudizi anche quando salì al potere Putin.
Semmai, l’Occidente avrebbe dovuto ammonire con più efficacia Putin per quanto
stava accadendo in Cecenia e Georgia.
Vale la pena
segnalare – tra parentesi – che gli Stati Uniti non aiutarono la Russia solo
alla fine del Novecento, ma anche al suo inizio, quando a seguito della
clamorosa sconfitta zarista contro il Giappone, Theodore Roosevelt pose un veto
alle pretese giapponesi di espandersi nell’entroterra russo, ben oltre quanto
poi stabilito dal Trattato di Portsmouth (5 settembre 1905).
In merito al
termine “espansione” riferito alla Nato, è impiegato in malafede. L’alleanza
non ha compiuto un’invasione dell’Europa orientale: sono stati i Paesi ex
sovietici a scegliere in totale libertà di fare domanda di adesione, dopo
decenni di sudditanza in un sistema economico e sociale dittatoriale. Se molti
europei (soprattutto della parte occidentale e meridionale) la smettessero di
ragionare con il proprio metro di misura – disincantato, disilluso e
catastrofista – potrebbero rendersi persino conto che a est del muro di Berlino
si trovavano popoli che non vedevano l’ora di aderire al modello occidentale e
alla crescita culturale e sociale che era già esplosa nel post seconda guerra
mondiale.
A conclusione, il
tema teorico delle basi Nato in Ucraina è impiegato in maniera pretestuosa da
parte russa, dal momento che già altri attori europei e Nato avrebbero potuto
minacciare la Federazione. Eppure non sono stati invasi per questo.
Quarta critica [con tutte le variazioni antiamericane]:
«Gli Stati Uniti provocano instabilità in
tutto il mondo per i propri interessi. Sono in guerra perenne dalla loro fondazione.
Hanno sterminato le popolazioni native. La Russia, invece, si è sempre occupata
dei propri confini.»
La Russia è (era,
la Cina la sta scalzando) una potenza terrestre, gli Usa marina. Per ragioni
storiche e geografiche, che non rendono l’una migliore o peggiore dell’altra.
Peraltro, la Russia del Novecento ha provato a esportare un po’ ovunque il
modello sovietico, anche ben oltre i suoi confini. Oggi non esporta nulla:
occupa aree africane e del Medio Oriente in cerca di risorse, senza più veli
ideologici, se non la moneta antioccidentale. La Cina sta comunque prendendo il
sopravvento, tanto nell’Asia centrale quanto in Africa e in alcune parti del
Sudamerica.
Dove ci sono terre
rare e materie prime c’è conflitto, sia a livello locale che di grandi potenze.
Lo scenario africano è abbastanza chiaro su questo e non serve essere filostatunitensi
per sapere che Wagner & Co. hanno attuato forme di neocolonialismo in molte
aree dalla Libia al Sahel. Basta con questa retorica che solo gli americani abbiano
interessi poco puliti in giro per il mondo.
Veniamo a un altro
classico elemento retorico: lo sterminio delle popolazioni native americane, uno
dei crimini più gravi nella storia dell’umanità e il più grave di quella
statunitense (tenendo conto che prima degli Usa, i nativi furono decimati da
francesi, spagnoli e chi più ne ha più ne metta).
Nella retorica
antiamericana questo capitolo nero è un sempreverde, e non senza ragioni. Tuttavia,
in quella prospettiva ideologica e aprioristica per cui gli Stati Uniti
sarebbero il male assoluto, l’unica Bestia biblica da combattere, ci si perde
per strada il mondo reale. Che è spesso terribile, schifoso, e non conosce
buoni e cattivi in termini assoluti. Si punta il dito contro l’America, e
subito un altro attore internazionale compie un crimine alle nostre spalle. E
ci si dimentica non tanto di parlare degli stermini di Herero, Nama, Boeri e
altre popolazioni africane, ché quelle furono colpa di europei (quindi dei
cattivi in termini assoluti, secondo quella narrativa), ma dello sterminio
delle popolazioni asiatiche e mediorientali da parte delle varie entità statali
russe.
Penso per esempio all’oltre milione di Circassi massacrati o deportati per la
loro fede: una di queste tribù, gli Shapsugh, fu sterminata al 99%. I
centoquaranta sopravvissuti furono spediti in Siberia e – vi assicuro – non era
nemmeno paragonabile alla più infame riserva nativa degli Stati Uniti.
Potrei continuare
per giorni a parlare di massacri etnici e deportazioni dei russi, dalla
Moscovia all’Impero, dall’Urss in poi. Credetemi: non è mai questione di chi
“ha fatto peggio”, o di chi incarni il bene e il male in Terra. Non esistono
santi nella storia umana, ma non è nemmeno tutto relativo. Esistono dei
princìpi – come quello del diritto alla difesa di un popolo aggredito e in
passato sottoposto a sterminio – che rappresentano la scelta giusta. Per quanto
difficile, stressante, triste. Non cadiamo nel nichilismo, nel relativismo o, peggio,
nella propaganda antioccidentale. Non perché siamo santi – non possiamo esserlo
– ma perché non siamo demoni.
Quinta critica: «L’Italia
subisce le sanzioni alla Russia e le esportazioni italiane vengono danneggiate.»
Forse molti
italiani credono che esportassimo quantità abnormi di prodotti culinari o altro
nella Federazione.
In realtà, prima
di guerra e pandemia, le esportazioni italiane in Russia ammontavano a meno di
8 miliardi di euro all’anno, concentrate soprattutto nel settore farmaceutico e
dei vaccini. L’export italiano in generale ammontava nel 2021 a oltre 900
miliardi: si capisce che 8 miliardi non fossero poi così imprescindibili. Non
solo: la Federazione non compare nemmeno tra i primi dieci Paesi in cui
esportiamo.
L’aneddotica su amici
e conoscenti trova il tempo che trova: perché posso essere testimone di nozze
di una famiglia che vive di export in Russia, senza aver diversificato, e che
vedrà sempre tutto in quella bolla da 8 miliardi su 900.
Sesta critica: «In
tv non si parla mai di questo [ovvero delle critiche qui riportate, e di molte
altre]. Dovresti guardare meno i media
italiani e seguire le fonti freelance.»
Evidentemente
queste persone hanno una concezione aprioristica su che cosa venga mostrato in
tv. Se la guardassero, troverebbero molti dei loro guru, tra cui un professore che
dichiara di essere “imbavagliato” pur trovandosi regolarmente davanti alla
telecamera a raccontare menzogne in totale libertà (o meglio, anarchia) e senza
contraddittorio.
Riguardo al
giornalismo freelance, ancora non capisco perché, in generale, si pensi che sia
più obiettivo nel riportare i dati. Dipende da giornalista a giornalista. Un
altro elemento riguarda la credibilità: come ci ricorda Mirko Campochiari,
storico e creatore del canale Parabellum, per essere un buon analista
militare non occorre trascorrere le proprie giornate sotto le bombe.
Settima critica: «Se
le cose stanno così, perché non entriamo in guerra ufficialmente?»
Come non ha fatto la Russia, nascondendosi
dietro “operazioni speciali” e “mobilitazioni parziali”?
A dire il vero, siamo
già in guerra e l’unica cosa che non possiamo fare è entrare sul campo da Paese
Nato, perché è evidente che l’Ucraina non sia l’Iraq e ne conseguirebbe una
guerra totale.
Fermiamoci un
attimo su questo. Trovo che il miglior modo per difendersi da un’accusa sia
dire la verità. Concedere qualcosa sul piano obiettivo, senza precipitare nel
relativismo morale del «così fan tutti» o del «c’è chi ha fatto peggio». La
guerra in Iraq fu un crimine della presidenza Bush Jr. – non ci piove. Ora, per
coerenza con questa affermazione, trovo criminale l’invasione russa. Se in
quella guerra gli Usa sbagliarono, è assurdo che ora – schierati dalla parte
dell’aggredito – vengano criticati da quelle stesse persone che denunciarono
l’aggressione all’Iraq. E l’Ucraina fu aggredita già nel 2014, quando i
cosiddetti “berretti verdi” della Wagner presero il controllo della Crimea, per
togliersi la maschera solo a febbraio 2022.
Ottava critica [con un mix vario che include parole
ripetute a pappagallo, quali “burattino”, “drogato”, “poteri forti”]: «Siamo servi della Nato e Zelens’kyj è un
guerrafondaio guidato da Washington.»
Noi siamo membri
della Nato, per cui se stessimo facendo davvero gli interessi dell’alleanza, in
pratica staremmo aiutando anche noi stessi, e sarebbe un bene. C’è, ovviamente,
un tema di rapporti di forza: il pendolo dell’alleanza dovrebbe spostarsi meno
verso gli Usa e più verso l’Europa. D’altra parte, da Obama a Biden, includendo
lo stesso Trump, c’è stata una spinta affinché l’Europa si assumesse le proprie
responsabilità: il fatto è che ci fa comodo spendere poco in difesa, coltivando
il nostro facile pacifismo sotto l’ala protettrice americana, a cui avevamo
deciso di delegare la nostra difesa a tempo indefinito, facendo orecchie da
mercante. La botte piena e la moglie ubriaca non poteva però funzionare e ora
ne stiamo pagando le conseguenze: un esempio eclatante è quello della Germania
che parte per la tangente facendo spese militari frettolose.
Spostiamo il
discorso dalle nazioni ai singoli. Per cercare di trovare soluzioni di pace,
una persona dovrebbe conoscere le motivazioni che hanno condotto alla guerra.
Fare affermazioni come «È colpa della Nato» o «degli americani» non significa
nulla. Puntare il dito, accusando, non mi sembra il miglior modo per sedersi al
tavolo a discutere.
Ci sono poi
persone che dicono che la Federazione avesse interessi da preservare in Ucraina,
qualsiasi essi fossero, parlando di Ucraina come uno Stato non sovrano. In
questa logica, non si capisce perché solo gli altri dovrebbero avere interessi
da rispettare e noi dovremmo stare a guardare, come se i nostri fossero
desideri “malvagi”. E come se cinesi, russi e turchi fossero presenti in Africa,
Medio Oriente e Asia per fare beneficenza.
In tal senso, noi
Occidentali viviamo sulle nostre spalle un senso di colpa per un passato
coloniale che, per assurdo, finisce oggi per giustificare il neocolonialismo
russo o cinese. Come se gli interventi delle Nazioni Unite e le missioni
statunitensi ed europee nel continente africano, nell’ultimo trentennio,
fossero solo da condannare e non invece un tentativo, pur difficile,
imperfetto, di modificare il rapporto storico con l’Africa nella direzione di
una partnership equilibrata. Se noi andiamo in questa direzione, non mi sembra
che facciamo altrettanto i militari russi, i mercenari di Wagner e gli
imprenditori cinesi nel Sahel e altrove, ben lontani dall’intrattenere rapporti
tra pari con la popolazione degli Stati in cui si insediano.
Riguardo a
Zelens’kyj, in occasione del G20 di Bali ha avanzato la proposta ucraina di
pace in dieci punti. Da parte russa si è parlato di richieste inaccettabili, ma
non stupisce dal momento che stanno addestrando nuove reclute con l’intento di
rilanciare l’offensiva.
Non si può dire
però che i dieci punti fossero una presa in giro: garanzie di sicurezza sul
pericolo nucleare, sull’alimentazione e sull’energia (primi tre punti);
rilascio di prigionieri e deportati (quattro); attuazione della Carta delle
Nazioni Unite (cinque); ritiro delle truppe russe (sei); risarcimento dei danni
(sette); protezione dell’ambiente devastato dalla guerra (otto); prevenzione
dell’escalation con garanzie che l’attacco non si ripeta in futuro (nove);
realizzati i punti, un accordo di pace (dieci). Se ci fosse stata la reale
volontà russa, si sarebbe tentato almeno un principio di dialogo. La
Federazione non è intenzionata a fermarsi: la pace non è una via percorribile,
almeno non in questa fase; è per questo che l’Ucraina necessita di armamenti.
Nona critica: «Dovremmo
smetterla di inviare armi all’Ucraina e pensare alla pace.»
Nelle manifestazioni pacifiste, o presunte tali, ho sentito tante belle parole;
appelli ispirati ai grandi nomi del pacifismo; aneddoti strappalacrime come
quello del proiettile diventato penna, per firmare tregue o armistizi.
Idealmente – penso
– nessuno vorrebbe la guerra, a parte qualche idiota o chi ne trae profitto. In
questi giorni ho pensato un po’ a J. R. R. Tolkien e al suo The Lord of the Rings. Théoden, in
particolare, tenta di allontanare la guerra, si nasconde, ma, messo all’angolo,
non sbraita per arrendersi al nemico o per trovare un accordo a tutti i costi
in nome della pace. Perché sa che sarebbe iniqua; sa che comporterebbe la morte
o la schiavitù. E che dopo Rohan cadrebbero altre terre e ci sarebbero altre
sofferenze per l’umanità. Al Fosso di Helm, Théoden entra in una dimensione di
spirito leggera, e sprona i reduci a salire a cavallo, per un’ultima espressione
di indomita libertà.
Ecco, il
significato che do al pacifismo non è la resa di quegli umani che cedono a
Sauron per paura, ma il coraggio del popolo di Rohan. Potreste dire che si
tratta solo di un libro e di un film. Ma non fatelo, per tutte le volte che la
letteratura e il cinema – la cultura – hanno alimentato in voi la forza, il
coraggio, l’equilibrio interiore. Il senso di giustizia. Che non mancava a un
personaggio reale, il padre della non-violenza Mahatma Gāndhī, che sul giornale
Harijan, il 27 ottobre 1947, si esprimeva così: «Tuttavia, sebbene la violenza
non sia lecita, quando viene usata per autodifesa o a protezione degli indifesi
essa è un atto di coraggio di gran lunga migliore della codarda sottomissione.
Quest’ultima non reca beneficio a nessun uomo e a nessuna donna.»
Decima critica: «Con
il missile in Polonia, gli Stati Uniti hanno cercato un pretesto per agire
contro la Russia.»
Se gli Usa
volessero la guerra avrebbero creato un casus
belli; con il missile in Polonia la Nato ha invece abbassato i toni. Lo
stesso Biden, a Bali per il G20, è sùbito stato cauto, non ritenendo verosimile
un attacco russo deliberato, tantomeno in quella forma.
Il reale interesse degli Stati Uniti sta nel contenimento della Cina e, anzi, la guerra in Ucraina sta spostando risorse in Europa, permettendo inoltre alla Cina di osservare il modus operandi occidentale in una condizione di guerra. Chi pensa che gli Stati Uniti traggano profitto dalla guerra in Ucraina non si rende conto di quanto ciò avvantaggi i cinesi. Come ricorda Angelo Panebianco in un articolo sul Corriere della Sera (qui), questa non è una guerra per procura, ma una scelta dei cittadini ucraini di opporsi all'invasore.
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