Qual è l'album più compiuto di Fabrizio De André?


Premessa fondamentale. Nelle storie del mio IG, mi sono messo alla ricerca dell’album più riuscito di Fabrizio De André, ascoltando anche altre opinioni. Suggerivo di restringere il campo almeno a sette dischi, riportati di seguito. Dal confronto ho appurato due cose: la prima è che tutti hanno convenuto su uno dei sette selezionati; la seconda è che la maggioranza abbia indicato Non al denaro non all’amore né al cielo come preferito. Pur non avendo alcun valore statistico, questa è stata la mia esperienza.

Ora, in estrema sintesi, dirò la mia e utilizzerò una valanga di più per provare a definire il migliore album del cantautore genovese, per quanto ciò possa valere al netto di una carriera incredibile, in cui a contare sono anche molteplici singoli.

 


Partiamo da Rimini (1978). Il più nostalgico. Album riuscito, sebbene sia anche quello con meno innovazioni strumentali e con un legame interno dei testi più fragile. Tale aspetto è ben esemplificato dal brano Zirichiltaggia (Bandu tundu), che anticipa la svolta etnica.

 


Considero poi proprio Crêuza de mä (1984), in cui avviene tale svolta: qui valgono più le sperimentazioni dei singoli brani che gli esiti compiuti dell’insieme. Realizzato in collaborazione con Mauro Pagani, ha avuto un grande successo di critica, anche internazionale.

 


Continuando a risalire, vengo a Tutti morimmo a stento (1968): si tratta dell’album più elegiaco, coinvolgente, mozzafiato, etereo. Pecca forse di un’eccessiva retorica giovanile. A livello soggettivo, è il mio preferito.

 


Segue l’acclamato Non al denaro non all’amore né al cielo (1971). Il più agile e pulito. Il brano Un ottico è la traccia più sperimentale e immaginifica della sua carriera. Il fatto però che si tratti di un’interpretazione – magistrale – delle poesie di un altro scrittore, Edgar Lee Masters, non mi fa propendere per la selezione.

 


Vengo così al podio, partendo da Storia di un impiegato (1973). È il più coinvolgente da un punto di vista civile e civico. Sconta in parte un precoce invecchiamento tematico, ma è la fotografia neorealistica di una fase cruciale della storia repubblicana. Da un punto di vista strumentale, è uno degli album italiani più innovativi per l’epoca.

 


Di diversa ispirazione è La buona novella (1970), l’album più profondo e – credo – il meno compreso dal pubblico, a causa della tematica religiosa. Una notevole alternanza di toni e di ispirazioni, che gli fa sfiorare il podio, riservato però a un altro disco.

 


Parlo di Fabrizio De André (conosciuto come L’indiano, 1981). Il più libero, asciutto; non il più ispirato – qui la palma spetta ai testi di Storia di un impiegato – ma quello più maturo e compiuto. Ritroviamo infatti molti capisaldi del cantautore genovese: l’attenzione per le minoranze e gli oppressi (Franziska), ma soprattutto per i popoli colonizzati, in un notevole parallelismo tra sardi e nativi americani (Quello che non ho; Fiume Sand Creek).

Emerge poi l’interesse per la natura incontaminata, per un Eden rurale dimenticato (Il canto del servo pastore); ritorna il tema devozionale, in chiave sarda (Ave Maria), il concetto di libertà e l’anarchismo (Se ti tagliassero a pezzetti), nonché la tematica amorosa (Hotel Supramonte, uno dei brani più intimistici e autobiografici della sua produzione). Non mancano, infine, le commistioni di generi, dal blues all’hard rock, dal cantautorato italiano al reggae (Verdi pascoli).

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