Psicologia e letteratura insieme a... Argyros Singh

Primo appuntamento psicologico-letterario a cui partecipo sul canale Il bar della psicologia, gestito dal dottor Adriano Grazioli, che potete trovare sui vari social. La rubrica in cui mi inserisco è il Podcast letterario, all’episodio 38. Di seguito, trovate il video su YouTube e qui il link a Spotify: segue una selezione scritta di alcuni interventi centrali.

 


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AG: Chiaramente – e qui cito Jung – non possiamo prescindere dalla produzione artistica e culturale umana, quando vogliamo indagare la creatura “uomo”. […] Se voi prendete in mano La libido. Simboli e trasformazioni di Carl Gustav Jung, ritorna il concetto per cui è inutile che scriviamo tomi e tomi di psicologia sulla gente se poi non leggiamo la loro produzione artistica, perché è quella che ci fa capire che cosa davvero si muova nell’animo umano.

 

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AS: Io sono una di quelle persone che sostiene che – e adesso dirò una frase che farà venire l’orticaria ai più – tutti possano parlare di tutto e tutti possano pensare tutto; che non ci debbano essere tabù o limiti di sorta. C’è, ovviamente, un’opportunità nel dire tutto ciò che si pensa, ovvero ciascuno dovrebbe porsi dei limiti personali, in base al consenso o ad altri fattori, per cui quando si arriva a un punto in cui non si capisce effettivamente più niente, bisognerebbe tacere. Come diceva Ludwig Wittgenstein: «Di ciò di cui non si può parlare, si deve tacere.»

Detto ciò, è importante che ciascuno sperimenti, vada in cerca della sua verità, del proprio cammino, di quel suo raggio che porta sempre a un centro. Ed è un cammino articolato, che non può escludere, non può diventare settoriale. Per cui uno psicologo non può essere solo psicologo; uno scrittore dovrebbe essere aperto a trecentosessanta gradi, dalla saggistica a ciò che magari lo vede molto distante, come i calcoli matematici. Credo che la settorialità vada ridiscussa; che non significa dover avere competenze su tutto, ma avere la mente cosciente del fatto che esista anche altro oltre al proprio orticello.

 

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AG: Un buono psicologo non può essere una persona che non abbia competenza umana. […] È indispensabile prendere in considerazione la “variabile uomo”.

 

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AS: Per quale motivo esiste questa settorialità sempre più marcata, questa frammentazione del sapere? Perché fin dalla scuola, dalle medie, se non prima, inizia a esistere questa distinzione, che si porta avanti fino all’università e anche dopo, entrando sempre più dentro la propria materia e perdendo di vista tutto quello che le sta intorno. E allora puoi pure essere un Nobel, ma rischia di sfuggirti il discorso d’insieme. Questo dipende tanto dai programmi scolastici, ma non è solo un problema italiano. L’Occidente razionalistico vive di questa settorialità, che ci fa arrivare tanto in là, sulla Luna o su altri pianeti, però poi non risolve certi problemi che avrebbero bisogno di un approccio umanistico, in un senso molto lato.

 

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AG: La metodologia di valutazione è qualcosa a cui ci hanno abituato nella maniera sbagliata. Poi, nessuno di noi può essere un campione in ogni materia. Come si comprende nel romanzo Martin Eden di Jack London, ognuno di noi ha un proprio spirito vitale: è giusto sperimentare, è giusta l’apertura, quella dimensione olistica.

 

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AS: Il discorso si amplia e riguarda l’idea del sapere. Una volta si citavano gli umanisti, o i pensatori dell’antichità, che avevano un sapere universale, ovvero riuscivano a spaziare dall’astronomia alla politica, alla grammatica, alla poetica, etc. Alcuni obiettano che oggi sia impossibile sapere tutto di tutto. In una certa misura, è così. Ma che cosa vuol dire sapere tutto di una materia? Nel momento in cui riesci ad avere le nozioni, di base ma anche più approfondite, quando riesci a capire il concetto – di cui nel dettaglio si occuperà uno specialista – e quando quel concetto è condiviso tra gli studiosi, allora puoi prenderlo e utilizzarlo nel tuo mondo.

Anche il discorso per cui nell’antichità ci fosse meno sapere: non saprei dire se i Babilonesi avessero meno conoscenze astronomiche di noi. Certo, molti saperi sono andati perduti perché sono stati ritenuti inutili, o hanno ricevuto un diverso impulso di sviluppo. Perduti quando hanno perso la loro funzione sociale. Oggi l’alchimia è vista come una cosa da maghi o fattucchiere, ma nel Medioevo era una materia universitaria. Tutti i grandi re e imperatori avevano al loro fianco degli astrologi o degli alchimisti. Questo perché avevano una funzione sociale, e c’era una conoscenza della materia che non era assolutamente quella banale di oggi (l’oroscopo della domenica, per intenderci). Quindi una serie di conoscenze erano più sviluppate in passato; viceversa, nelle scienze applicate, nella fisica quantistica e in altri saperi, abbiamo senza ombra di dubbio qualcosa di più. Dopotutto non è una gara tra passato e presente: anche perché sono tutti morti.

 

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AG: È consigliato essere risoluti, che è quello che dico di solito ai miei pazienti: non puoi essere un campione in tutti gli àmbiti. Ci sono momenti in cui sarai uno stupendo partner; momenti in cui sarai un pessimo lavoratore: poi questi momenti cambiano. Noi abbiamo questa percezione di assolutezza che non esiste. Ci sono canoni che ci imponiamo, che sono utili, buoni obiettivi, benché non siano raggiungibili.

 

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AS: Riprendo uno dei testi sacri del Taoismo, Zhuāngzǐ. Nell’opera si trova un racconto, che vede protagonisti un nobile e un falegname. Il primo stava leggendo un libro con aforismi dei saggi, il secondo lo vede e afferma che il nobile avesse in mano un sacco di sterco. Questi gli dice: «So che sto parlando con un semplice falegname, ma ti permetterò di spiegare questa tua affermazione oltraggiosa. Se non mi convincerai, ti ucciderò.»

Il falegname fa un gran bel discorso, che nella sostanza è: ciò che rimane di scritto, di persone ormai morte, è solo un frammento di quello che loro trasmisero in vita.

E quello che dice era valido soprattutto per l’epoca – era il IV secolo a.C. – quando la trasmissione del sapere era fondamentalmente orale, e quanto veniva scritto era un rimasuglio di un sapere molto più ampio. Quindi sostiene: tu stai leggendo degli scarti e li stai trasformando nella cosa più importante che ci sia. Forse perché c’è una discrasia tra il passato – con figure perfette e intoccabili – e il presente misero, dove nessuno può eguagliarle. Dato però che è sul presente che possiamo intervenire con l’esperienza diretta, forse dovremmo concentrarci di più su di esso: considerare l’importanza delle fonti e della memoria, ma senza eccedere, perché è questo che ci fa credere che il passato sia sempre stato migliore del momento che stiamo vivendo.

 

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AG: Noi abbiamo un’idea fantastica di tutto quello che può essere futuro o passato; non ne abbiamo un’idea oggettiva. E nella fantasia, tutto è sempre più bello; la realtà non è mai all’altezza della fantasia. […] La realtà è che se vai a indagare, si avvia un processo di de-idealizzazione, dove questa fantasia decade.

 

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AS: Quando fuggi dalla realtà verso la fantasia, a meno che tu non voglia fare il politico – quindi non voglia trasformare le tue idealizzazioni in realtà, con grave danno dei tuoi vicini – va benissimo.

Sarebbe però interessante non solo fare un viaggio di andata dalla realtà alla fantasia, ma anche di ritorno dalla fantasia alla realtà. E quindi trarre quanto ci sia di utile in questo grande sapere, che definiamo impropriamente irrazionale, e che è in certi casi metafisico.

Il fatto è che molti si perdono in questo mondo dell’immaginazione. Io vedo questo errore, in particolare, in chi abbraccia quelle pseudo-spiritualità new age o derivate, che non hanno nulla di tradizionale in senso stretto, ovvero non hanno nulla di propriamente sacro, e sono soltanto dei meccanismi psicologici mascherati per cercare di far star meglio, sul momento, le persone. Queste iniziano a vivere in uno stato di totale irrealtà e non ne tornano mai indietro e non ne ottengono niente di buono, perché non è una via ascetica, non è una via che ti porta da qualche parte. Ti porta soltanto a un suicidio animico e di individuo, poiché smetti di vivere nella società.

Per questo bisognerebbe fare un viaggio di andata e ritorno dall’immaginazione. È molto proficuo.

 

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AG: Queste spiritualità new age hanno un grandissimo punto di forza e di appeal proprio nei confronti di tutti coloro i quali, di solito, hanno un basso livello di scolarizzazione. Che non è un’accusa: puoi avere la terza media ed essere la persona più colta. Parliamoci chiaro: le personalità narcisistiche e con capacità manipolatorie sono sempre alla testa di questi gruppi. E potrei farti decine di esempi di psicologi e terapeuti raggirati da queste persone. Ti becchi il narcisista maligno, che ha capacità predatorie naturali che ti impediscono talvolta di capire di essere preso in giro.

È pieno di questa gente che ha manipolato esperti e poi li ha fatti diventare seguaci: «Ah, guarda, ho lo scienziato X che mi segue!» Perché? Se avete una persona narcisistica al vostro fianco, vi trascina nel vortice. Sanno come funziona: vi elogiano, vi danno conferme, sono magnetici. Potrebbe farsi una maratona alle tre del mattino per dimostrarvi quanto vi amano e il giorno dopo buttarvi come se foste un calzino usato. Una discrepanza enorme che li trasforma in bombe a orologeria. Il tutto ne risulta danneggiato, perché nel caso dei santoni non si creano dei momenti spirituali volti alla spiritualità; si creano dei gruppi dove lo scopo è accentrare risorse, ricchezze, attenzioni verso il capo o i capi.

 

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AS: Questo fenomeno influenza la società. Sono tanti microgruppi che minano certe fondamenta del vivere civile. Il danno più grosso, nella mia sensibilità, riguarda però il vulnus alla spiritualità in generale. Perché queste pseudo-religioni o pseudo-sette usano un linguaggio che è molto diffuso in certi legittimi àmbiti esoterici e spirituali, ma lo sfruttano e lo interpretano a modo totalmente loro, personale. E soprattutto non vanno quasi mai oltre il citazionismo di altre dottrine, in particolare orientali, perché hanno quel grado di esotismo che fa sempre bene. E poi, oltre alle citazioni, si fermano a un livello psicologico-animico. E lì è la tua materia.

Queste persone vengono danneggiate su questo piano, perché su quello spirituale non arrivano mai. Pensano di esserci dentro, in realtà rimangono incastrati in una prigione mentale. Tra l’altro – come dicevo – smettono di vivere sul piano materiale o vivono in maniera distruttiva. Ho visto seguaci dell’ondata new age, di una cinquantina d’anni, che dicono: «Tu non sai com’era la vita negli anni Ottanta, Settanta, etc.; che cosa avevamo scoperto noi con le musiche tibetane, le campane…» E quando si rapportano con te hanno un modo di parlare frenetico, disordinato, ansiolitico, che ti fa sentire a disagio. Che ti fa capire che quella persona potrebbe scoppiare da un momento all’altro e potresti scoppiare anche tu standole vicino. E quindi ti domandi: è questo, davvero, il traguardo spirituale o di sanità mentale che volevano raggiungere? Se è questo, faccio benissimo a meno della loro dottrina.

 

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AG: In La libido. Simboli e trasformazioni, Jung si domanda perché abbiamo questa passione per lo sciamano o il sacerdote indiano: perché il Cristianesimo non ha simbologia. O meglio, spieghiamoci. La simbologia presente nel Cristianesimo è limitata a Padre, Figlio e Spirito Santo, a riti come battesimo, matrimonio ed estrema unzione. Ma siamo pieni di altre intromissioni religiose. […] Se paragoniamo il tutto a quanto offerto da uno sciamano, con i suoi elementi naturali, o dalla spiritualità indù, con le sue divinità e i suoi testi ricchi di battaglie e simboli particolari, la religione cristiana non regge al fascino. Questa ruota intorno a un uomo considerato perfetto, in una simbologia limitata. Il resto ci appare così più colorato e vario.

 

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AS: C’è anche un discorso di prossimità culturale, un ostacolo difficile da superare. Se vuoi andare a fare un incontro con uno sciamano del Centroamerica o con uno sciamano siberiano, devi entrare nella loro cultura, che significa entrare nella loro lingua parlata. E non è un semplice corso di inglese. Forse non è chiaro: la valenza non solo simbolica, ma sacrale della parola, è il fondamento stesso della ritualità. Senza la parola è difficile creare una ritualità; non impossibile, ma molto difficile. Ogni cultura ha una sua parola sacra, collegata ai suoi riti, e nessuno dall’esterno può prenderli e portarli in maniera sincretistica nel proprio credo. Questo è fondamentale.

Dopodiché l’Occidente aveva una sua spiritualità parallela a quella indù, o accomunata a quella del grande ceppo indoeuropeo. Lo vediamo nella mitologia greca e norrena. C’erano queste divinità. Abbiamo semplicemente preso un’altra strada, quella del monoteismo, senza dimenticare però che anche le grandi religioni politeiste come l’Induismo non sono davvero politeiste: sono comunque monoteiste nel ritenere che esista un Essere Supremo da cui tutti gli altri esseri – divinità incluse – derivino. E così era anche per gli antichi greci: avevano un concetto dell’Essere Supremo, che Aristotele – in àmbito filosofico – aveva definito il Motore Immobile.

Di questo ritorno all’Uno parla anche Jung nel Libro rosso, un viaggio psicologico-alchemico-spirituale che segna la sua svolta esistenziale. Egli non rinnegò il suo passato, anche freudiano; si rese solo conto che quelle soluzioni non erano tutto. Con la psicologia si può arrivare fino a questo: da qui in poi esiste una conoscenza ancestrale, comune a tutte le culture, che non è sincretismo, è affinità analogica tra i simboli. E a essa possiamo attingere. Non dobbiamo creare niente di nuovo, dobbiamo recuperare, dobbiamo fare archeologia.

 

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AG: Riprendendo il passaggio precedente sull’educazione scolastica, alla luce di quanto detto, la scuola dovrebbe essere un trampolino di lancio per un ulteriore studio. Mi piace il concetto di recuperare qualcosa, perché in psicologia recuperi sempre, è ritrovare l’età dell’oro. Che in alchimia ha una valenza, come si può rilevare negli studi sul tema di Mircea Eliade. In psicologia, l’età dell’oro è ripresa di qualcosa che, nel passato, era fonte di grandissimo gaudio, in genere la gestazione e i primi sei mesi, che sono un prolungamento di quello stesso stato di beatitudine, dove non c’è sofferenza (a meno che la madre non la provi), una stasi completa.

Poi nasci e per te esiste solo l’accudimento o l’oblio, la fine: per questo passiamo da una fase schizo-paranoide – come dice Melanie Klein – a una fase paranoide. La prima è il bambino che non sa distinguere il seno buono da quello cattivo: la stessa madre potrebbe non darti da mangiare in quel dato momento. Allora è una persona crudele, mentre se ti alimenta diventa la tua divinità. La seconda è l’odio profondo per la madre, perché ci si rende conto che dà e non dà da mangiare. Recuperare qualcosa di antico è importante, però bisogna essere consapevoli che l’antico non è per forza fantastico. Portiamo dall’antico qualcosa che ci faccia vivere bene il presente; non vivere il passato come un’epoca che non tornerà mai più.

 

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AS: Non bisogna cercare il passato perché era a priori migliore. E soprattutto non bisogna fare l’errore di andare a cercare solo un passato storico: perché c’è davvero gente che pensa che l’età dell’oro fosse un paradiso sceso in terra. Quel concetto lì è esistito realmente, ma al contempo non è esistito. Che cosa voglio dire? Che l’età dell’oro non è un’età storica; da un certo punto di vista, è un’età dello spirito, quindi non può essere un’età codificabile in chiave materiale, come un avere tutto ciò che i beni materiali ci possano dare, tutto ciò che il mondo possa offrirci. Forse, per assurdo, l’età dell’oro è l’esatto contrario: non avere assolutamente alcun oggetto; non aver bisogno nemmeno di muoversi più di tanto, perché ci si sente perfetti in sé e per sé. Se tu ti senti in piena perfezione con te stesso – qualsiasi cosa ciò voglia dire – tu non hai bisogno di viaggiare, di mangiare. Assolutamente niente. Non hai bisogno di migliorarti, perché sei perfetto.

Il concetto di età dell’oro ci riporta a un mondo che non ha bisogno di niente, quindi non è un mondo che ha tutto, è un mondo che ha nulla. Il termine sanscrito che riassume questo stato di cose è Ānanda, un senso di benessere assoluto, superiore, che non ha nulla di materiale.

 

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AG: Quando ognuno di noi è inserito in un contesto in cui la sua vita è in pericolo, si attivano i meccanismi di difesa, che non prevedono né leggi né accordi. Noi abbiamo l’idea fantastica del duello cavalleresco: non è mai esistito. Non è un duello tra samurai, su chi abbia la tecnica migliore, con rispetto per l’avversario. La guerra è un affare sporco, […] che non andrebbe fatto a prescindere, ma non stupiamoci se avvengono le peggiori barbarie.

In un esame di psicologia evoluzionistica del professor Camperio, questi diceva che quando noi siamo in guerra abbiamo in testa il concetto di portare avanti la specie. Istintivamente parlando, l’aggressore intende infettare le donne del clan rivale con i propri geni, così che se morisse, nascerebbe un suo figlio e il DNA verrebbe preservato, come una beffa al nemico. In secondo luogo, si entra in modalità berserkr: non interessa più come si uccide, si dissolve il duello cavalleresco, e si può utilizzare qualsiasi strumento, anche una pietra o un coltello.

 

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AS: Riprendo il concetto della contaminazione. Nel film Apocalypse Now di Francis Ford Coppola, nel famosissimo monologo del colonnello Kurtz, interpretato da Marlon Brando, si racconta di quando egli, ancora nei ranghi dell’esercito americano, avesse raggiunto un villaggio vietnamita per fare delle vaccinazioni ai bambini. Poco dopo aveva scoperto che i vietcong erano passati per amputare tutti gli arti dei vaccinati.

Kurtz, ormai uscito di senno, definisce quell’atto geniale: piuttosto che accettare questa ingerenza degli americani, che era vista come una contaminazione, simbolicamente (e nel concreto) decidono di amputare tutte le braccia. Che cosa significa? «Rifiuto il tuo intervento nella nostra pelle, nel nostro sangue. Respingo il tuo tentativo di contaminarci, con la tua cultura scientifica, o coloniale, simbolizzata qui dalla vaccinazione.»

Il background era che l’occidentale, con la sua storia di colonialista alle spalle, arrivava e la vaccinazione era un suo motivo di vanto, un modo per mostrare la sua superiorità. I vietcong non respingevano la vaccinazione in sé, ma ciò che essa rappresentava, perché era vista come una contaminazione culturale. Questo comportava un atto spietato, che poteva avvenire solo in un conflitto in corso portato alle estreme conseguenze, oppure in una cultura di riferimento antitetica a quella occidentale, in un rapporto diverso con il dolore.

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