84 Charing Cross Road. Bibliofilia e biliomania

Secondo appuntamento psicologico-letterario a cui partecipo sul canale Il bar della psicologia, gestito dal dottor Adriano Grazioli, che potete trovare sui vari social. La rubrica in cui mi inserisco è il Podcast letterario, all’episodio 39. Di seguito, trovate il video su YouTube e qui il link a Spotify: segue una selezione scritta di alcuni interventi centrali.

 


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AS: Attraverso questo libro ho scoperto un mondo, che è quello della bibliomania e della bibliofilia. Da questo titolo sono arrivato ad altri. È questo che fa 84 Charing Cross Road: è un libro che porta ad altri libri; è una porta d’accesso. E come tutte le porte d’accesso devono avere un loro fascino, perché altrimenti non ti viene la voglia di attraversarle. Questo libro non è solo un elenco freddo di lettere, ma il racconto di un’epoca, in cui il Regno Unito usciva dalla guerra ed era costretto al razionamento alimentare. […] Questo scambio epistolare è anche un modo per raccontare una data realtà. E a differenza del passato, l’epoca successiva alla guerra non viene più ricordata nel libro attraverso i grandi protagonisti storici, quali Chamberlain e Churchill, ma con il nome-simbolo dei Beatles.

 

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AG: Quando si sente dire che i libri non facciano la differenza, perché non si trova della concretezza, si capisce quanto non sia vero di fronte a un amore epistolare come quello tra la scrittrice Helene Hanff e Frank Doel. Non c’è solo qualcosa di profondo, ma la comprensione di un momento storico, quando il Regno Unito non gestì molto bene il secondo dopoguerra.

 

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AS: Winston Churchill perse le elezioni nel secondo dopoguerra (ritornò primo ministro anni dopo, prima di ritirarsi), perché le persone volevano dimenticare o almeno voltare pagina. Negli anni Sessanta, superata la crisi ed entrati nel boom economico, è proprio Frank Doel, impiegato della libreria antiquaria Marks & Co. di Londra, a parlare dei Beatles, come una nuova band che faceva scalpore e che a lui in fondo non dispiaceva. Il benessere fu però accompagnato prima dalla guerra in Corea e poi dalla devastante guerra del Vietnam. […]

Alla fine degli anni Sessanta, c’era un pacifismo che non è quello di oggi. Quell’epoca è finita e non dobbiamo fare l’errore di paragonare il presente al passato, i figli dei fiori e l’ambientalismo di allora a quello che si trova oggi. Il movimento sessantottino è stato molto importante; ha portato a tante conquiste sociali, ma è terminato intorno alla metà degli anni Settanta. Oggi si possono fare analogie, ma è tutta un’altra storia.

 

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AG: Le nostre condizioni sociali sono un derivato di quello che è accaduto in precedenza, però oggi la situazione è completamente diversa. Anche il sentimento alla base: all’epoca c’erano equilibri sociali e politici diversi. Non ci resta che capire, laddove ci siano valide analogie, come evitare di fare gli stessi errori.

 

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AS: La libreria di 84 Charing Cross Road stava costruendo una cultura elitaria: non perché fosse una libreria intrinsecamente elitaria, anzi, ma perché ciò che proponeva era un interesse per pochi (non a caso trovarono una persona appassionata dall’altra parte dell’oceano). Non guadagnavano grandi cifre, ma lo facevano per una sorta di ostinazione britannica nei confronti della bellezza, della letteratura, dell’amore per la storia vittoriana e non solo. L’aspetto interessante è che l’erudizione di Frank Doel non era fine a se stessa, non era rinchiusa nelle mura accademiche, ma a disposizione di chi ne volesse usufruire. Helene Hanff scoprì questo tesoro e ne approfittò: lei che aveva pochi soldi a disposizione e che aveva dovuto abbandonare gli studi universitari, trovò in quella libreria il modo per alimentare la propria cultura.

 

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AG: Nella nostra società esiste ormai uno scarto incommensurabile [tra l’erudizione del passato e quella del presente]. Martin Eden, il protagonista del romanzo londoniano, si redime attraverso la cultura, ma non viene ammesso agli esami di terza elementare. Non viene riconosciuto come erudito fino a un determinato punto dell’opera: oggi è più facile laurearsi, ma per assurdo è più difficile che quella laurea identifichi una persona di cultura o comunque con grandi competenze.

 

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AS: Nel Settecento e nell’Ottocento c’erano persone, soprattutto in Francia, che coltivavano una cultura enciclopedica, legata ai libri. Questi bibliofili apprendevano una conoscenza dai libri e ai libri essa ritornava. In quel periodo, la cultura passava sempre più attraverso tale strumento. A mio avviso, il collezionismo smodato di volumi è iniziato nel Settecento, pur con esempi storici antecedenti. La mole di conoscenza si era allargata a dismisura e il libro poteva diventare una sorta di estensione del cervello, a portata di mano. La biblioteca diventava estensione del cervello: è così che è iniziato il collezionismo moderno.

 

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AG: Con il libro stampato è possibile accedere a una conoscenza che non è più monopolio di un potere. Inoltre, il bibliofilo era spesso appassionato di testi alchemici, con incisioni e illustrazioni: elementi che stimolano il concetto di fantastico e di magico.

 

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AS: Quanto dici vale soprattutto per un famoso testo alchemico, il Mutus Liber, un’opera costituita solo da incisioni, senza parole a corredo. È curioso che oggi si parli di epoca dell’immagine: in passato, l’immagine non aveva solo un valore sociale o estetico, ma anche un’importanza tecnica. Oggi spesso non siamo in grado di interpretare queste immagini: dalle vetrate delle grandi cattedrali ai testi alchemici del Seicento, fino al simbolismo ottocentesco. È un paradosso non riuscire oggi a interpretare un’immagine: un paradosso solo apparente, perché in fondo chi, su un piano commerciale, è davvero in grado di leggere in piena coscienza il sottotesto di un video o di una fotografia? Nell’Ottocento, attraverso il collezionismo librario, questa cultura dell’immagine si è preservata.

 

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AG: In psicologia, la bibliomania deriva dal disturbo ossessivo-compulsivo, che è composto da due aspetti: le ossessioni e le compulsioni. In modo semplice, le prime si esplicitano nel pensiero, le seconde nelle azioni. Il pensiero di fare qualcosa diviene impellente e segue la necessità di scaricare quella pulsione attraverso un’azione.

A ciò aggiungiamo che il bibliomanico ha un grosso problema: accumula libri, come un accumulatore seriale, anche con quattro o cinque edizioni dello stesso volume; libri in carta straccia, divorati dai tarli, che possono non avere valore o utilizzo. Questi ultimi due elementi vengono meno. A livello psicologico, il bibliomanico vive in una stanza disordinata. In un’intervista a Eco, ho visto valanghe di carta e di libri accatastati alle sue spalle: forse in lui c’era un pizzico di bibliomania, anche se bisogna considerare il fatto che Eco lavorasse quotidianamente con quel mezzo. Il bibliomane accumula, non butta via niente, e l’accumulo va a colmare un vuoto: il libro assume un valore simbolico al di là di ciò che contiene.

 

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AS: C’è una distinzione tra libro vecchio e antico. Lavorando in biblioteca, ho potuto notare come le persone fatichino a fare questa distinzione. Un’utente, vedendoci spostare i libri sugli scaffali, ha l’abitudine di dirci che maltrattiamo i libri. Secondo me, dovremmo distinguere l’oggetto-libro, che è un pezzo di carta, da ciò che rappresenta. Succede che in ogni biblioteca cominci ad accumularsi quello che viene definito “ciarpame”: vecchie edizioni – non antiche, vecchie – di opere di cui esistono nuove edizioni curate alla perfezione.

Un altro aspetto riguarda l’amore di alcuni per le pagine ingiallite, ma quella è una questione relativa, perché si possono preferire le pagine nuove, con l’odore di colla e di fresco. Non sempre bisogna trovare qualcosa di idealistico o romantico nel libro vecchio.

Discorso a parte per il libro antico, che racconta una storia, a differenza di quello vecchio, che è contingente o personale e coinvolge quel genere di memoria che possiamo lasciare andare. L’accumulo in soffitta nasce anche da questo legame esagerato con la memoria, mentre quegli stessi libri che abbiamo idealizzato vengono mangiati dai topi.

Un’ultima distinzione riguarda la differenza tra biblioteca e archivio: se quest’ultimo è preposto alla conservazione di un maggior numero di testi, in biblioteca esiste lo scarto e il macero. Il macero non è una brutta parola: in genere vengono distrutti libri di cui esiste una nuovissima edizione, curata nel minimo dettaglio, o di cui si trovano edizioni più antiche, quelle sì da collezione.

 

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AG: Mi è piaciuto questo excursus personale sui libri, perché è come se mi avessi parlato di una relazione precedente, nella quale si vuole andare avanti. Passiamo invece al concetto di bibliofilo, che hai già citato: il bibliofilo ha un amore spassionato per qualcosa che ha un valore, che provoca una sensazione piacevole e particolare. Il bibliofilico sceglie, non accumula in maniera seriale: questo è positivo, perché non costituisce un impedimento alla vita. In psicologia, quando non ci sono impedimenti, va tutto bene. […]

Aggiungo una cosa: quando il libro diviene un mezzo di arredamento senza aver svolto la sua prima funzione, quella della lettura, è un peccato. L’accumulazione, anche ai fini dell’arredamento, conserva quel bisogno di avere una riserva pronta, in cui ha parte la mentalità capitalistica.

 

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AS: Che tu sia un bibliofilo o un bibliomane, è certo che per il tuo portafoglio non sia mai una bella cosa. Se compri un libro e l’acquisto è fine a se stesso, a lungo termine ne soffri, perché vai a togliere risorse, anche monetarie, a qualcos’altro. Se invece ti crea piacere, può essere positivo. Dipende però di che piacere parliamo: è materiale, spirituale, o entrambe le cose? […]

Riguardo al libro da arredamento, avevo letto questa notizia curiosa. Negli Stati Uniti, diversi venditori di case, soprattutto in grandi città come New York, arredano gli ambienti con libri a caso, secondo un (a me) oscuro ragionamento di marketing. Certo è che utilizzare i libri come oggetti di arredamento non sia molto furbo, perché crea una valanga di polvere, a meno che tu non abbia quei vecchi mobili con vetrina, che ne riducono la quantità. […]

C’è un passaggio di 84 Charing Cross Road, in cui Helene Hanff scrive che per lei non avesse senso andare a cercare un libro specifico nella famosa libreria newyorkese sotto casa, perché era consapevole che non l’avrebbe trovato: era invece più semplice richiederlo da casa, rivolgendosi all’altra parte dell’oceano, a una libreria inglese che apprezzava e che avrebbe esaudito la sua richiesta. La prima volta che ho letto questo passaggio mi è venuto subito in mente Amazon. Un curioso caso del destino vuole che un mese dopo la morte della scrittrice, Amazon entrasse in borsa, nel 1997. Mi chiedo che cosa avrebbe pensato Hanff di questa azienda: me la immagino a scrivere lettere ai magazzinieri, cariche del suo humor, alla ricerca di una rara edizione di un testo della letteratura inglese. Penso anche che a volte si dovrebbe stare attenti a ciò che si desidera, perché potrebbe avverarsi. […]

Un ultimo punto riguarda i supporti alla lettura. Gli audiolibri sono una grande conquista, soprattutto nei casi di disturbo specifico dell’apprendimento. Rispetto al libro cartaceo, cambia il supporto e cambia l’approccio, ma il contenuto che assimili è il medesimo. Spetta a te rimanere concentrato con l’audiolibro, che non richiede di voltare le pagine e di rimanere con la testa sulla carta, aumentando così il rischio di distrarsi.

 

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AG: Viviamo in un’epoca in cui possiamo bypassare problematiche assurde. […] Leggere e ascoltare sono funzioni analoghe, ma diverse per ragioni neuro-cognitive. Da un certo punto di vista, il libro cartaceo è più efficace, perché fai un’attività unica e – sotto l’aspetto neuro-cognitivo – rinforzi il decision making, le capacità di concentrazione, la lunghezza dello span affettivo, etc. Dopodiché, in chi ha un DSA, non posso dire “ti devi comportare così”, ma devo implementare le sue abilità. Se ha bisogno di stimoli costanti, può essere che ciò si traduca in iper-attenzione per quei quindici-trenta minuti di un’attività precisa; se si annoia, l’apprendimento si riduce notevolmente: devi sfruttare il picco verso l’alto della curva dell’attenzione. […]

I nostri sensi registrano tutti gli stimoli intorno a noi: succede però che quanto noi registriamo passi attraverso il vaglio di ciò che è importante o non importante. Entrando idealmente nella testa di una persona ci potrebbero essere tre colonne: inutile; più o meno utile; focus attentivo. Si percepiscono degli stimoli, ma non tutti vengono registrati: è come quando si giocava alla play senza memory card. Noi registriamo una mole di stimoli molto alta, ma non possiamo tenere tutto, perché richiederebbe troppa energia.

Nell’Interpretazione dei sogni, Freud scrive che noi spegniamo i nostri sensi quando andiamo a dormire, ma permane una percezione di quanto avviene al di fuori, salvo nei momenti di sonno profondo. C’è una sorta di campanello di allarme, che si può attivare. Una persona che ha un’ottima memoria visiva, ma non capisce a fondo quanto stia vedendo, ha un problema in sede di elaborazione. In merito alla registrazione, c’è chi insegna le mnemo-tecniche: ti servono a imparare a memoria paragrafi su paragrafi, ma il contenuto non è rielaborato; è come la traduzione in calce da un’altra lingua.

 

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AS: Ho la sensazione che la bibliofilia, prima dell’avvento di Instagram, con i suoi bookstagrammer, fosse qualcosa di diverso, che entrava molto più nel dettaglio. Nell’Ottocento, essere un bibliofilo significava conoscere tutti gli editori, anche quelli minori o sconosciuti; significava conoscere tutto di un dato testo, dall’anno di edizione di una data opera all’errore di stampa in una specifica pagina. Il bibliofilo dell’Ottocento era un esperto, che non si formava dall’oggi al domani con la creazione di un profilo social. Il “mi piace leggere” – nell’Ottocento – non era un bibliofilo: era un semplice lettore.

La seconda metà di quel secolo era anche l’epoca dei grandi romanzi russi, francesi e inglesi: romanzi che uscivano anche a episodi, alla portata di (più o meno) tutti. Quelli però erano lettori: conoscevano Dickens, Tolstoj e Dumas quali loro contemporanei, ma non conoscevano la traduzione dell’Eneide di Annibale Caro, in due volumi, nell’edizione parigina del 1760.

Le persone non amano quando togli loro le etichette, ma forse il concetto di bibliofilo andrebbe oggi rivisto. […] Il bibliofilo si attribuisce una competenza di un certo livello nella conoscenza del mondo libraio. Oggi è sufficiente leggere un certo numero di libri al mese per potersi definire tale? A confronto con le figure del Settecento e Ottocento, in realtà appariamo tutti più lettori che esperti della materia. Avere oggi più accesso ai libri ci offre la possibilità di diventare bibliofili, ma non ci rende tali in automatico.

 

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AG: Nel concetto di bibliofilia c’è l’idea del feticcio: non l’ossessione tossica del bibliomanico, ma un’ossessione legata al dettaglio, al particolare. La ricerca quasi compulsiva e viscerale per un determinato prodotto probabilmente ti rende etichettabile sotto la dicitura di bibliofilo. È anche vero che le persone etichettabili spesso non si sentono parte di quella “congrega”: noi diamo le etichette a un mondo per capirlo meglio, poi ci avviciniamo e ci rendiamo conto che quanto è scritto su quell’etichetta ha molte postille. Potresti essere un bibliofilo nel 2022, ma nel Settecento saresti forse un lettore normale. Forse bisogna cercare un equilibrio; cercare di non farsi trascinare dalla moda social che crea un collegamento qualunquista tra i concetti di lettura, ricca biblioteca e intellettualità. Capiamo che cosa vogliano dire le parole e se quanto avvenga sotto quelle categorie sia adatto.

 

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AS: C’è stato un famoso bibliofilo, il poeta novecentesco Gilbert Lély, che possedeva solo cento libri: ogni volta che ne acquistava uno, ne toglieva un altro dalla collezione (ebbe diversi “dubbi esistenziali” su come considerare le opere suddivise in più volumi). Un altro noto bibliofilo francese, Antoine-Marie-Henri Boulard, aveva ben mezzo milione di libri: in questo senso era l’opposto di Lély. E dove li teneva? Aveva degli appartamenti in città solo per tenerci i libri. Un giorno la moglie, insospettita dagli spostamenti del marito, aveva mandato la serva a seguirlo, perché temeva un tradimento. In realtà Boulard le aveva nascosto le proprietà, che avevano un costo, e che gli servivano come spazio di conservazione e per la lettura. Non solo. Quando morì, la sua collezione fu messa all’asta in blocchi e la vendita durò cinque anni, dal 1828 al 1833. La vendita della biblioteca di Boulard fu una vera rovina per il mercato librario-antiquario parigino, perché finì sulle bancarelle una grande quantità di volumi, che per anni fece scendere il prezzo dei libri d’occasione al di sotto della metà di quello normale.

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