Un sistema per soddisfare il sistema


Le considerazioni che seguono prendono spunto da alcune riflessioni che tenevo dentro da tanto tempo e che un confronto con la mia compagna e un video sul canale Daily Cogito hanno contribuito a mettere a fuoco.

 

In queste settimane, ho riconsiderato il mio tempo speso sui social. Mi sono reso conto che ho cominciato a postare sempre meno foto di vita privata. Anche gli scatti in vacanza o nel fine settimana hanno acquisito un taglio più neutro.

Alle superiori non avevo profili di alcun genere, salvo per brevi periodi. Non ne sentivo l’esigenza ed ero immerso nel mio mondo di letture, di scrittura, di canzoni alla chitarra e camminate in montagna. Qualcosa che amici e compagni di classe capivano poco. Ancora oggi mi ostino a non utilizzare WhatsApp.

Poi, qualche anno fa, ho sentito l’esigenza di utilizzare Instagram e altre piattaforme per un semplice motivo: far conoscere quello che scrivevo, dargli uno spazio che andasse oltre il blog e uscire dal mio guscio. In un certo senso ha funzionato: nel mio piccolo, ho trovato due case editrici non a pagamento, dove sono riuscito a pubblicare.

 

Inoltre, quando creai i profili, stavo vivendo un periodo nero, utile però per esplorare me stesso e la mia scrittura. Su Instagram condividevo tante foto personali, come una specie di diario visivo, e i titoli che davo a quegli scatti la dicono lunga: Dissoluzione, Difetti, Spoglie, Cranio, Decollazione. Si trova tutto ancora sul profilo.

All’epoca, pubblicare aveva un senso prima di tutto per me e, in più, era qualcosa che interessava agli altri, con mia grande sorpresa. Dopodiché, i social sono cambiati sotto tanti punti di vista, ma soprattutto sono stato io ad andare oltre. Ho risolto alcuni drammi interiori e ho poi conosciuto una persona speciale. Pochi giorni fa è stato il nostro terzo anniversario, ma non ho condiviso nulla al riguardo.

In passato l’avrei fatto, ma, a parte qualche rara eccezione, ora non sto più raccontando la mia vita privata. Per assurdo, non parlarne in rete dà a qualcuno l’impressione di una crisi, come a dire: se non è sui social non è mai esistito, non è reale.

Incredibile, a pensarci. Una volta, si usava l’espressione “una vita da film”; oggi, si pretende che una realtà costruita a tavolino pervada ogni finzione, con la pretesa di essere una verità. Questo non è solo un discorso che riguarda il singolo individuo: pensate soltanto a tutta quella fetta di cinema che si ostina a raccontare generi come horror e sci-fi nel modo più corretto dal punto di vista storico, scientifico e filologico. L’assurdo mette una grande paura, insieme a tutto ciò che non si conosce, ovvero quasi ogni cosa, e ciò ci spinge forse a trovare serenità nel rigore dei dati, anche quando sviliscono una narrazione di fantasia.

 

In questi giorni, ho vissuto piccoli momenti quotidiani di grande valore e li ho serbati per me: un ottimo risotto alla zucca al principio di ottobre, una nottata tra le montagne con lo scrosciare della pioggia, il germogliare delle nostre piante domestiche, la creazione a quattro mani dei ravioli.

So per certo che condividere tutto ciò mi avrebbe portato a ottenere più engagement. Le persone si affezionano quando vedono che sei umano, ma mi chiedo: perché si presuppone il contrario? Da che cosa dipende questo timore del “grande inganno”?

Da tempo ho notato che i miei contenuti privati ottengono molta più visibilità di un mio scritto sul blog o di un video su YouTube che parli di letteratura. Dovrei mettere la mia vita in vetrina e costruire un rapporto con chi mi segue che dia l’impressione di sapere chi io sia.

Ma che cosa importa? Non parlo più di me, ma di persone che hanno una reale visibilità mediatica: che importanza ha la loro vita rispetto alla tua?

Una delle grandi mistificazioni pubbliche di queste esistenze è la cosiddetta “vanlife”, che va tanto di moda. Vite raccontate per quello che non sono: una totale immersione nella natura, una quotidianità semplice e innocente, una scenografia da quadro impressionista di una nuova borghesia, ricca di risorse, che ti vuol convincere che quella finzione sia alla tua portata. E questo non è che un esempio tra tanti.

 

Ho dunque rivalutato molte cose. Da un lato, l’algoritmo di Instagram ha dato una bella botta alla diffusione dei contenuti: anni fa, con meno della metà dei follower, ottenevo qualcosa come sei volte la visibilità odierna. Per non parlare del fenomeno della “tiktoktizzazione” di queste piattaforme, sempre più votate all’omologazione, al contenuto video breve e superficiale, al concetto di “media” quasi del tutto sostituito al lato “social”.

L’aspetto ironico è che i miei contenuti, a livello qualitativo, sono migliorati di gran lunga rispetto al passato, e mi sono aperto anche ai video su YouTube. C’è ancora tantissimo da fare, certo, ma il fatto è che quel miglioramento non sta ottenendo la visibilità che mi aspettavo.

Al contrario, ho notato che ogni volta che pubblico qualcosa di privato, dal semplice selfie a una foto con la mia compagna in vacanza, sùbito gli utenti si precipitano a “reagire” con un interesse (morboso) che avrei preferito fosse rivolto ai miei scritti. Non voglio arrivare agli altri per questa esteriorità, né per una mia strategia mirata a ottenere qualche favore: vorrei, invece, che fossero i miei scritti a parlare, prima di ogni altra considerazione.

Per qualche tempo mi sono demoralizzato, pur continuando in maniera testarda a creare post sulla letteratura e a scrivere materiale originale. Ma alla fine, mi sono reso conto che non avevo alcun interesse a stravolgere i miei contenuti per andare incontro ai trend, per avvicinarmi su Instagram a un modello alla TikTok.

 

Ho visto vari bookstagrammer coalizzarsi in delle specie di “collettivi”, in cui l’obiettivo non era raccontare qualcosa di valido, da portare a un pubblico, ma – come dire – “raccontarsela” e basta, ovvero scambiarsi veri e propri favori per darsi l’illusione di avere un pubblico.

Mi ha ricordato quei vecchi poeti locali, presenti in ogni città, che ogni mese fanno una serata in un caffè letterario per applaudirsi a vicenda. Mi ha messo tristezza, ma anche disagio. Disagio perché mi sono reso conto che ho rischiato di finire in quel meccanismo autocompiacente.

Ieri sera mi sono confrontato con la mia compagna. Tutto è partito da uno sfogo, poi ho messo a fuoco i vari elementi. Quel che è certo è che continuerò a scrivere per me stesso; pubblicherò ancora in futuro, ma non mi farò prendere dall’ansia delle finte recensioni scambiate tra autori.

Continuerò a creare contenuti su YouTube e a esaltarmi per aver superato (addirittura!) le cento visualizzazioni per un video; cercherò di migliorarmi nell’esprimermi perché ciò mi fa sentire bene; continuerò a scrivere e a parlare di quello che il mio animo mi intima di affrontare, perché solo così posso sentirmi in pace con me stesso. Voglio riconquistare una certa spensieratezza, che non significa soltanto leggerezza. Non pormi più domande ridicole su come soddisfare un sistema che non è pensato per me. E per nessuno in particolare, a dire il vero, se non per se stesso.

 

Ho creato i miei profili con l’intenzione di dare una vetrina alle mie parole, e non a me in quanto individuo. Oggi quell’esigenza rimane: vorrei che mi seguiste non per inerzia, non per la mia relazione, per il mio cane giapponese o per altri contenuti privati.

Io sono uno scrittore, ed è l’unica cosa che rivendico con forza nella vita. Se volete conoscere una parte autentica di me, se ritenete che quello che porto abbia un valore, non vi resta che leggermi. Non ho altro di più significativo da offrire a voi e ai social.

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