Prospettive culturali e diritti


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Le culture, come le lingue, non sono granitiche, ma cambiano nel corso del tempo. Nella società odierna, riteniamo importanti questioni che fino al secolo scorso non lo erano.

Ci sono culture più dinamiche e aperte ai cambiamenti e culture più conservatrici. Il punto è prestare attenzione al concetto di superiorità: non esistono culture superiori, ma solo culture adatte a un determinato ambiente e a specifiche popolazioni. Ciò che per noi occidentali può essere un valore universale, per un cinese o un aborigeno potrebbe essere la peggiore scelta possibile.

La globalizzazione, però, ha aperto a un maggiore confronto tra culture, mettendo in discussione anche la nostra identità. Un giorno feci un sondaggio su IG, che ovviamente non ha alcun valore statistico, chiedendo se fosse giusto impedire a una popolazione sudamericana di essere cannibale. La maggioranza rispose che bisognava lasciarle la libertà di esserlo (qui ne parlo in modo più approfondito). Così commentai che, a rigor di logica, bisognava permettere la mutilazione genitale femminile. Era una provocazione: esiste una gerarchia tra atti culturali, che richiede di andare oltre le mere analogie e di affrontare caso per caso l’influenza di un tratto culturale laddove esso si realizza.

Non esiste una vera e propria risposta giusta a questi dilemmi, che non si traduca in definitiva in un modello culturale (in questo caso il nostro) che si impone su un altro. L’etnocentrismo va comunque tenuto sempre a freno: l’antropologa Carla Pasquinelli ha scritto riflessioni interessanti sul tema dell’infibulazione, contenuti p. es. in Infibulazione. Il corpo violato (2007, edito da Meltemi). La studiosa afferma che spesso gli occidentali, per difendere un principio, non tengano conto delle persone interessate, in questo caso le donne, che quella cultura la vivono e la condividono in molti dei suoi elementi.

Qualcuno potrebbe dire che sia una sottomissione attuata da una società patriarcale: è così, ma tale presa di coscienza non risolve molto. A pensarci, ognuno di noi, in qualsiasi società, è sottomesso in modo conscio o meno ad alcuni dettami culturali. Noi occidentali abbiamo la tendenza a fare una guerra a trecentosessanta gradi all’Islām, a partire da questo e altri punti, senza in realtà conoscere nulla della sua bellezza e del valore che questa religione possieda per oltre un miliardo di persone, confondendo spesso le sue regole con le pratiche specifiche di alcune popolazioni. L’Islām è vario al suo interno, sebbene meno di quanto potrebbe esserlo, e di certo non è rappresentato, a maggioranza, da estremisti e terroristi. La visione dell’Occidente nei suoi confronti è una prospettiva culturale, succube di una visione conflittuale e imperialista plurisecolare.

 

Per un’analisi critica delle prospettive culturali, che non si traduca nella semplicistica condanna altrui, aggiungo al saggio di Pasquinelli il testo della conferenza Razza e cultura (1971), tenuta dall’antropologo Claude Lévi-Strauss. In quell’occasione, egli sostenne che fosse indispensabile aprirsi alla conoscenza delle altre culture, trattandole senza superiorità intellettuale, ma al contempo sapere anche quando “chiudersi” a loro, per conservare la propria identità, che ha pur sempre un valore.

Non vi è razzismo nel ritenere una scelta culturale ormai superata dal tempo, a patto però che non si intenda, partendo da singoli argomenti, ritenere che la nostra cultura sia superiore a un’altra in generale. Le civiltà a maggioranza islamica hanno tanto da insegnarci (come avvenne nel Medioevo, si veda qui), così come noi abbiamo tanto da insegnare loro in termini di diritti. Lo scambio culturale, l’apertura all’ascolto dell’altro è l’antidoto al razzismo. Volergli imporre un diritto che non fa (ancora) parte della loro cultura, senza prima passare per una mediazione culturale, talvolta lunga ma necessaria, può tradursi in una prevaricazione dal sapore colonialista. Il dialogo è tutto.

Se in Italia compi un atto di cannibalismo, stai realizzando un reato: ne paghi le conseguenze penali e sai perché ti hanno condannato. Ma se fossi un cannibale in Amazzonia e venissi condannato per cannibalismo da un tribunale ecclesiastico cristiano nel Cinquecento, la tua domanda più ovvia sarebbe: “Ma per quale reato mi state condannando?”. O ancora: “Chi siete voi per condannarmi?”.

Un altro banale esempio. Un bambino pensa che due più due faccia cinque. Certo, si sbaglia. Ma che fare? Si può andare a dire agli adulti e ai suoi compagni di classe quanto sia stupido e ridicolo: in tal caso, il bambino potrebbe continuare a pensarla a suo modo, rimanendo sempre più escluso e finendo per incattivirsi; altrimenti, egli potrebbe cedere per opportunismo a quanto gli dica la maggioranza. Si può però anche prenderlo da parte, domandargli come mai pensi che due più due faccia cinque, e spiegargli infine come fare le addizioni. Il bambino potrebbe essere grato di tanta attenzione e persuadersi che la riflessione logica sia un ottimo strumento.

Nel dialogo interculturale, c’è una sola differenza rispetto all’esempio: non è questione di educare, ma di ascoltare (“perché hai detto cinque?”) e di esprimere la tua opinione, riflesso della tua cultura (“ti spiego il mio metodo, dimmi che cosa ne pensi...”). Si presume qui che vi sia una reciproca volontà di confronto.

Un altro esempio. Prendiamo che X non accetti la tua cultura nemmeno dopo un dialogo, ma continui a praticare, p. es., l’infibulazione alle sue figlie. Ora, mettiamo che la moglie di X sia contraria e voglia avvicinarsi alla prospettiva occidentale sul tema. Che cosa dobbiamo fare noi, se ci troviamo in grado di aiutare quella donna? Aiutarla a discapito del marito, in questo caso, non sarebbe una prevaricazione o un’espressione di superiorità culturale neo-colonialista, poiché è quella donna stessa a chiedere di poter scegliere una cultura diversa, almeno per quel singolo aspetto.

 

Se non ci sforziamo di capire perché le cose accadano, non abbiamo alcun potere per modificarle. Possiamo imporlo con la forza, certo, ma questo è inutile a lungo termine, perché non fa cambiare le mentalità. Anzi, le irrigidisce per difesa. Al contrario, possiamo pensare di fare un discorso costruttivo, che modifichi alla radice una pratica superata da ogni norma di autentico buon senso. E fare in modo non solo che non si uccidano più persone per l’appartenenza etnica, religiosa, di genere, etc., ma soprattutto che le persone siano consapevoli di che cosa sia un diritto e che scelgano loro stesse di non uccidere, mutilare o ferire.

Se non abbiamo fiducia che gli aspetti superati di una certa cultura possano essere cambiati dallo sviluppo o dalla presa di coscienza di quella cultura, allora siamo ciechi di fronte ai progressi che noi stessi abbiamo fatto nel corso del tempo. Noi occidentali siamo stati per millenni intolleranti, contrari alla parità di genere, schiavisti, razzisti (per un approfondimento sul razzismo, qui e qui), etc.

Aggiungo un elemento al discorso. Quando gridiamo allo scandalo per la violazione di un diritto, esattamente, a chi lo stiamo gridando se non ad altre persone che la pensano come noi?

Un esempio. Le donne occidentali non hanno certo ottenuto il diritto di voto per magia o per l’aiuto ricevuto da Stati esteri. Le donne lo hanno guadagnato dentro i propri Paesi, lottando per secoli, gradualmente, per cambiare una mentalità che apparteneva sia a uomini che a donne. Hanno preso coscienza del loro ruolo nelle società; hanno constatato le disuguaglianze con gli uomini; e anche molti uomini hanno preso coscienza di queste discriminazioni. Tutto ciò ha contribuito a un cambiamento di prospettiva a livello culturale, in molti aspetti ancora in atto.

 

Ai giorni nostri, il cambiamento di coscienza e le scelte culturali devono inoltre tenere conto dell’economia e della finanza. Queste sono diventate un punto imprescindibile in un mondo globalizzato.

Dato che è il fattore economico a muovere sempre più le politiche, la questione della difesa dei diritti umani deve confrontarsi con gli interessi economici, cercando di sfruttarli ai propri fini. Il consumatore potrebbe barattare la propria capacità di scelta nel consumo con l’accoglimento di politiche che limitino gli scambi con quei Paesi che violano i diritti (p. es. l’Arabia Saudita). Questa, tuttavia, appare più un’utopia, poiché ci vorrebbe una larga maggioranza della popolazione attivista, informata su una data violazione di un diritto e intenzionata a tutelarne la difesa. Seguendo questa strada, generalmente definibile come “sensibilizzazione”, oggi l’unica speranza è che gli interessi economici mutino rispetto a un certo Paese e che quindi lo Stato e le multinazionali cavalchino lo strumento di un diritto violato in quel Paese per ottenere il consenso della propria popolazione.

Diverso il discorso se si vuole affrontare il tema in una prospettiva più articolata e a lungo termine. Annullare per un istante la propria identità; divenire contenitori vuoti e cercare di capire quali siano le cause anche delle peggiori atrocità. Come una sorta di profiler dell’FBI, cercare di entrare nella mente del serial killer, diventare metaforicamente il serial killer, e poi prevederne le mosse, incastrarlo ed evitare che persone del genere possano ripetere tanto a lungo e indisturbati i propri crimini.

Compresa una data realtà, possiamo solo allora individuarne il complesso storico, sociale, politico, religioso che lo costituisce e quindi riappropriarci della nostra identità e intervenire nel dialogo. Consapevoli che un dialogo possa risolversi tanto in un confronto costruttivo, quanto in una lite. In entrambi i casi, si può fare solo una cosa: ribadire la propria posizione, forti di esempi pratici e ragionamenti logici, e insistere con misura.

 

Una mentalità collettiva che dura secoli o millenni non cambierà in una notte. Eppure, un singolo individuo vive in media meno di un secolo e la sua esperienza può emanciparsi da un ambiente culturale per abbracciarne un altro: ciò è possibile solo e soltanto se riterrà quell’ambiente migliore e se non si sentirà aggredito da esso.

Sembra difficile se non impossibile attuare una scelta del genere, perché ci si domanda: come si può venire a patti con un assassino o una persona retrograda e violenta? Noi occidentali (quasi tutti) lo abbiamo già fatto: p. es. abbiamo abolito la pena di morte; in certi Stati, abbiamo sostenuto che persino gli assassini avessero diritto a un minimo benessere individuale, benché da detenuti in una prigione (si pensi ai Paesi del Nord Europa).

La nostra idea che sia impossibile dialogare con un’altra cultura, quando questa si riveli nei suoi aspetti violenti e autoritari, significa – per assurdo – voler rinunciare a cambiare il mondo secondo ciò che la nostra identità è convinta sia la cosa migliore per il genere umano. Significa combattere per i diritti, forti delle nostre conquiste culturali, ma in un modo autoritario e fallimentare, andando a gridare agli altri che sono bestie, assassini, stupratori e quanto di più peggiore possiamo esprimere. E ottenendo così due risultati opposti, ma entrambi inutili alla causa per la quale lottiamo: l’accentuazione della chiusura degli “altri” e il reiterato e borioso auto-elogio di noi stessi. Se invece di fare questo errore, mostrassimo tutti i pregi della nostra visione sul tema dei diritti umani, fossimo estremamente persuasivi, non riusciremmo forse a cambiare più mentalità e ad aiutare più persone coinvolte in queste violenze?

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