Oriente e Occidente. Parte I
La Tabula Rogeriana, disegnata da Muhammad Al-Idrisi per Ruggero II di Sicilia, nel 1154 |
La trasmissione del sapere
Alla vigilia
della prima crociata, il mondo occidentale si stava risvegliando da secoli non
propriamente bui, ma comunque in parte dormienti.
La Chiesa era ormai diffusa nei centri di potere, la rete di monasteri e
diocesi tanto fitta da non avere eguali nella gestione del potere secolare.
D’altra parte, il sistema feudale – pur nei suoi limiti – era stato in grado di
formulare una discreta unità territoriale, in un periodo in cui i comuni
nacquero, si moltiplicarono e assunsero sempre maggiori autonomie. In primo
piano, le repubbliche marinare e le maggiori città portuali, come Marsiglia,
concorsero alla riscoperta di alcune rotte commerciali di vitale importanza per
l’Europa. Dall’XI secolo, inoltre, la relativa stabilità del continente e gli
sviluppi dell’agricoltura contribuirono a far crescere i centri urbani: si
diffusero gli utensìli in ferro, gli aratri, i mulini per macinare e i mulini a
vento; crebbero le aree bonificate (anche grazie al lavoro di monaci e eremiti)
e si modificarono i cicli di coltura, con una rotazione biennale, talvolta
triennale. Ne seguì un incremento demografico, la crescita delle città e la
volontà di trovare soluzioni di vita migliori. La ricchezza, in denaro e
materie, continuava comunque a fuggire verso Oriente o verso il Nord Africa: in
Europa si poteva al massimo battere moneta d’argento [1], ma
mai con grande regolarità, mentre l’oro restava nelle terre al di là del
Mediterraneo.
Dall’Oriente
provenivano beni di lusso, soprattutto spezie e stoffe pregiate, e
dall’Occidente si rispondeva alla richiesta di materie prime quali legname,
metalli, pelli, schiavi [2] e in
seguito armi: in poche parole, il normale commercio tra Paesi del primo e del
terzo mondo, adattato alle risorse del periodo. I viaggi occidentali si
moltiplicarono con l’affermarsi delle repubbliche marinare e delle grandi città
portuali: Amalfi fu in prima fila in queste attività commerciali, prima di
essere scalzata da altre potenze, come Venezia, in grado di rifornirsi con più
facilità nel Centro e Nord Europa. Tanto forti furono i rapporti di queste
città con i Bizantini e gli Egiziani e così tante le informazioni fornite dai
pellegrini, che non si può dire «che i crociati non sapessero dove stavano
andando, o ignorassero i costi insiti nell’impresa: li preparavano le
esperienze di guerra e di pellegrinaggio maturate da loro stessi, dai vicini e
dai parenti» [3].
Un viaggio
commerciale in Siria, senza scalo in Egitto, era allora difficile da concepire,
così nel contesto delle crociate il dominio marino degli Italiani tentò con
successo di imporsi: la flotta mussulmana si ridusse sempre più e nel 1153 il
regno di Gerusalemme attaccò Ascalona, ultimo porto fatimida nella Palestina
meridionale. Gli Italiani, sfruttando quelle stesse risorse di legname che
vendevano all’Oriente, si imposero come intermediari indispensabili tra più
porti vicini, producendo un profitto con le commissioni. Le merci erano
depositate in un funduq (fondaco);
seguiva la tassazione e la vendita generale all’incanto e infine la merce era
rivenduta al dettaglio.
In tutto questo
processo, i mercanti occidentali avevano ben poco peso, dal momento che non
conoscevano quasi mai a fondo i costumi delle regioni attraversate, per cui si
preferiva lasciare la vendita diretta ai locali. In pieno XIII secolo, lo
sviluppo economico permise di battere monete d’oro: nel 1231 Federico II di
Svevia introdusse l’augustale nel regno di Sicilia e un paio di decenni dopo
anche Firenze e Genova produssero le proprie monete d’oro. Di contro, i
Mussulmani della Terra Santa incominciarono ad utilizzare più spesso le monete
di rame per le transazioni, e nel XII secolo l’oro scomparve dall’Egitto:
l’asse commerciale stava cambiando direzione e la burocrazia egiziana, accanto
all’apparato bellico, comportava costi ingenti.
Nonostante il
dominio occidentale sui mari, i rapporti con l’Egitto proseguirono ugualmente,
benché tra alti e bassi. In pieno XII secolo, i Pisani avevano accordi
esclusivi con gli Egiziani, ma i Normanni devastarono il delta del Nilo (circa
1154-55) come rappresaglia, acuendo le tensioni tra le due sponde del
Mediterraneo. Del resto, i legami non furono solo commerciali, ma anche
diplomatici: basti pensare che papa Gregorio VII, nonostante fosse il primo
fautore di una guerra anti-mussulmana, mantenne buoni rapporti con i mussulmani
del Nord Africa, anche per evitare ripercussioni sui pochi cristiani rimasti in
quell’area. In una lettera diretta a un principe mussulmano, scrisse «che sia
lui, sia il destinatario della lettera adoravano, ognuno a suo modo, lo stesso
Dio, e quindi dovevano convivere in buon accordo» [4]. In
un modo o in un altro, i contatti erano dunque inevitabili.
Una generazione
dopo la conquista cristiana di Gerusalemme, il cosiddetto Outremer stava cambiando da un punto di vista culturale, nonostante
le divisioni politiche interne e la nascente pressione saracena. Nelle menti di
alcuni, l’Outremer divenne la “frontiera”, ultimo baluardo dell’Occidente
contro la barbarie islamica. Eppure l’Islām era tutt’altro che barbaro e il
Regno latino, incapace di esprimere un qualunque tipo di superiorità, venne a
patti con la cultura mediorientale e incominciò un dialogo inevitabile.
Certamente, i
vertici di comando erano gestiti dagli Europei e tanto i mussulmani quanto i cristiani
d’Oriente ne avevano subìto le conseguenze. I mussulmani, infatti, non erano
gli unici divisi da un punto di vista dottrinario: in ambito cristiano,
esisteva la Chiesa nestoriana, i Monofisiti giacobiti, la Chiesa armena, quella
georgiana, i Maroniti [5], i cristiani
di rito bizantino (Melchiti). «Se i franchi erano venuti in soccorso di una non
meglio definita cristianità, ciò non significava che essi fossero venuti a
portare un aiuto indiscriminato a qualsiasi cristiano, e, a maggior ragione, a
gente di rito greco, influente nelle grandi città del Nord ed a Gerusalemme» [6]. Come
era praticamente nullo l’interesse a convertire i mussulmani (la chiusura di
molte moschee era piuttosto un atto ritorsivo), non si parlò mai seriamente di
riunire le Chiese cristiane, le cui tradizioni si erano molto diversificate e
ognuno aveva ormai la propria area di influenza: ogni Chiesa avrebbe dovuto
condividere i propri beni e sarebbe avvenuta una riorganizzazione in cui la
Chiesa cattolica aveva tutto da perdere.
Ad ogni modo, i
coloni, data la loro inferiorità numerica e la scarsa o nulla conoscenza del
territorio, furono costretti a servirsi della manodopera locale, senza troppe
distinzioni di fede. La vita dei villaggi continuò praticamente come prima, e i
contatti furono per lo più personali o di tipo economico e giuridico (i mussulmani
furono penalizzati rispetto ai cristiani nel caso di dispute). Nel XIII secolo
furono redatte le Assise di Gerusalemme,
che prevedevano una corte dei baroni e una dei “borghesi”, diretta dal
visconte. Se la giustizia pubblica era regolata da queste norme, la giustizia
privata non subì grandi cambiamenti e soprattutto i mussulmani continuarono a
gestirla per i casi interni alla comunità di fedeli. La figura del cadì, giudice mussulmano, sopravvisse in
molte aree, mentre il muhtasib, che
era un controllore generale dei mestieri, posto a salvaguardia della pubblica
moralità e della fede, diventò sempre più ininfluente. Alla testa del villaggio
vi era infine un raìs, che i Franchi
di solito non avevano problemi ad associare alla corte, tranne nei centri
maggiori, dove fu sostituito dal Balivo della Fonda.
Questa gestione
da parte dei conquistatori ebbe delle conseguenze nelle relazioni
interculturali: per esempio, nei tribunali mercantili i testimoni giuravano sui
propri libri sacri e molti ospedali curavano persone di ogni religione, incluso
il celebre ospedale gerosolimitano degli Ospitalieri. Non solo: gli interpreti
(i dragomanni) erano diventati di vitale importanza, tanto che anche i
dignitari templari si servivano da statuto dei loro servizi; così era anche per
l’esercito, con la presenza dei Turcopoli. Per non parlare dei matrimoni dei cristiani
d’Occidente con siriane, armene e persino mussulmane convertite. Quest’ultimo
fu tuttavia un fenomeno più limitato, proprio perché la pesante minoranza
numerica dei conquistatori pose all’ultimo posto la questione della
conversione, che anzi non fu mai applicata né a livello politico né religioso.
Fino a quel
momento – a dire il vero – il processo era stato inverso, per cui l’Islām
godeva del prestigio di essere religione di Stato, oltre che una fede legata a
un fenomeno culturale durato secoli. Questo aveva inevitabilmente portato a un
certo numero di conversioni dal Cristianesimo e non solo, dalla penisola
iberica all’Oceano Indiano. Ma il grande impero islamico stava a poco a poco
implodendo su se stesso a causa del frazionamento del potere, incapace di
guardare all’universalismo della sua dottrina e rinchiusosi nelle proprie
dispute. La cultura, anzi l’intera civiltà islamica si avviò ad una lentissima
fase di declino, sebbene durante l’occupazione cristiana della Terra Santa non
mancarono nuovi stimoli e nuove occasioni per mantenere vivo il prestigio. Quel
genere di cultura non fu propriamente islamica, né araba, ma coinvolse tutte le
persone che abitarono nei territori un tempo unificati dalla dinastia omayyade
(661-750). Per questo tra i funzionari pubblici, i mercanti, i medici e altri
“liberi professionisti” non era impossibile incontrare cristiani locali. Certo
l’élite occidentale e gli esponenti del mondo islamico non furono mai felici di
far incontrare i due mondi e cercarono di limitarne i contatti. Tyerman
racconta della superficialità dei rapporti tra le due parti: per esempio un
antiocheno, tale Roberto FitzFulk il Lebbroso, aveva stretto una buona alleanza
con l’atabeg di Damasco Ṭoghtigīn, ma quando quest’ultimo si trovò a dover
pagare un riscatto per l’amico preferì tagliargli la testa [7]. In
altri casi il rapporto tra signori non fu molto diverso, tranne alcune felici
eccezioni, che mettono in luce una curiosità reciproca e un mutuo rispetto (si
pensi solo alle relazioni tenute da Saladino o da Federico II con le rispettive
controparti, nonostante lo stato di guerra e di odio etnico non favorisse il
dialogo).
Per il resto,
l’influenza araba fu di gran lunga maggiore rispetto a quella occidentale, che
si limitò all’aspetto bellico e a poco altro, dal momento che l’Oriente aveva
ben poco da imparare dagli uomini del Medioevo. Così sentiamo parlare di cuochi
egiziani, medici siriani, educatori e interpreti mussulmani. E i Franchi, che
pur si adattarono ai loro usi, non mancarono di portare i propri: il consumo di
maiale proseguì in Oriente senza interesse per l’ambiente torrido e la
religione islamica; i medici cristiani continuarono ad operare nonostante la
loro minore preparazione; le tecnologie belliche furono imitate e commerciate
con grande interesse. In merito al vestiario, in generale i Franchi si adattarono
alle consuetudini locali, che rispondevano prima di tutto a ragioni materiali.
Perciò si diffusero e si trasformarono in moda le vesti a larghe maniche, gli
indumenti di lino e i turbanti. A livello igienico i Franchi si ispirarono alla
cultura araba, che prevedeva terme, bagni pubblici e in generale una pulizia
del corpo del tutto sconosciuta all’Occidente. Anche le abitazioni e le altre
strutture, più difficili da sostituire, furono accolte dai Franchi, estasiati
da mosaici, giardini con sculture in marmo, affreschi, tappezzerie di ogni
genere fatte di tinture e materiali di pregio. E la corte di re Baldovino IV
non fu estranea a queste e altre influenze: «il suo precettore era saturo di
cultura e di sapere latini, accresciuti da un ventennio di studi in Europa
occidentale (a Parigi, Orléans e Bologna), il suo medico e il suo maestro di
equitazione erano siriani e avevano lavorato per sovrani musulmani, la sua
matrigna, Maria Comnena, seconda moglie di Amalrico I, era una Greca bizantina» [8].
Furono insomma piantati i semi del multiculturalismo, che però – come vedremo –
non attecchirono a pieno per diversi motivi.
A questo punto è
utile un passo indietro, per analizzare le modalità di trasmissione del sapere
tanto in Oriente quanto in Occidente, per comprendere come si fosse creato
questo forte divario. Con la caduta dell’Impero romano d’Occidente, senatori e
monaci si adoperarono per un parziale salvataggio della civiltà greco-romana.
Le invasioni barbariche [9],
unite alla selezione operata dal mondo ecclesiastico e a tutte le conseguenze
dei due fenomeni [10]
portarono ad un’inevitabile svantaggio rispetto ad un Oriente in cui da un lato
sopravviveva l’eredità romana e dall’altro si andava affermando l’Islām.
Nella prima metà
del VII secolo, Maometto riuscì a riunire quasi tutta la penisola arabica nel
nome di Allah. Nel frattempo i Bizantini avevano condotto una dura lotta contro
l’Impero sasanide, o secondo impero persiano, dalla quale erano usciti
vincitori, ma a costo di gravi perdite [11]:
l’avanzata dei beduini arabi non sembrò allora verosimile, ma fu ciò che trasse
in inganno i due imperi.
Dopo la morte
del Profeta, seguì il periodo dei califfati elettivi: l’Impero sasanide cadde
sotto i colpi degli Arabi e i Bizantini persero Siria, Palestina ed Egitto [12]. Da
qui proseguirono per il Nord Africa, fino in Tripolitania. In terre così
diverse tra loro contò molto il clima di tolleranza religiosa: se è vero che la
legge islamica (shari’a)
divenne religione di Stato, quella stessa legge regolò anche lo status dei
non-musulmani, nominati dhimmi [13]. Pur
garantendo loro un certo margine di azione, i mussulmani ebbero maggiori
diritti e questo costituì un elemento d’attrazione in più per coloro che vivevano
nei territori conquistati.
D’altra parte,
«coloro che vivevano vicino alle frontiere avrebbero facilmente potuto
emigrare, ma non lo fecero e gli esempi di alte cariche e di grandi fortune
sono innumerevoli, sia presso i dhimmis
che presso i mussulmani» [14]. A
dire il vero non mancò del tutto l’intolleranza, ma all’interno dello stesso
Islām: si pensi all’esecuzione di Hallāj, mistico del X secolo, o alla
persecuzione di Ismailiti [15] e
Manichei, che volevano cambiare l’Islām dall’interno. E in seguito allo scisma
tra Sunniti e Sciiti, i primi ebbero la meglio e fondarono la dinastia omayyade
(661-750), un califfato ereditario con capitale Damasco (non più Medina).
L’espansione
proseguì in Oriente fino alla catena montuosa dell’Hindū Kūsh e al lago d’Aral
e in Occidente fino alla penisola iberica [16],
passando per il Maghreb, dove fino ad allora le popolazioni berbere avevano
mantenuto vive le proprie tradizioni. Anche la Sicilia cadde in mano mussulmana [17],
così come alcune parti del Sud Italia, della Sardegna, della Corsica e persino
della Provenza. Raggiunte queste terre, l’espansionismo arabo rallentò, secondo
un corso naturale che portò alla necessità di consolidare i propri domini. Fu
in questo periodo di espansione e nei secoli successivi che fiorì la civiltà
araba: se il continente europeo si trovava in quella fase oggi nota come
Medioevo, al contrario il mondo islamico andava incontro al proprio
rinascimento. Il termine è improprio, perché in realtà il mondo arabo stava
conoscendo una vera e propria nascita
culturale, un’epoca d’oro, sintesi e approfondimento delle diverse culture
inglobate, ma il termine è utile a comprendere il paragone con l’Occidente.
Le biblioteche
del mondo arabo furono molte e vastissime: ricordiamo per lo meno quelle di
Cordova e Tripoli (Dar al-‘Ilm, “Casa della Scienza”, distrutta dai crociati),
la biblioteca del Cairo (Dār al-Ḥikma) e il più importante centro di raccolta e
di studio, la Casa della Sapienza (Bayt al-Ḥikma), fondata a Baghdād nel IX
secolo [18].
Queste biblioteche contenevano i risultati e le esperienze di diverse culture,
da quella greco-romana a quella specificatamente ellenistica, da quella araba a
quella persiana, per non parlare dell’influenza indiana e cinese. Praticamente
in ogni ambito la cultura araba influenzò quella occidentale. A partire
dall’agricoltura, furono commerciate e poi introdotte nuove piante (canna da
zucchero, riso, banane, limoni, arance, etc.) e spezie (cannella, chiodi di
garofano, noce moscata, zafferano, zenzero, etc.). In altri casi vi fu un
rinnovato interesse per alcune colture già praticate nell’antichità, come
quella dell’ulivo.
In ambito
tecnico-scientifico e filosofico le scoperte e gli approfondimenti arabi ebbero
spesso radici nel mondo greco e in particolare ellenistico. La trasmissione
poteva anzi avere origini molto più lontane nel tempo: già dal IV millennio
a.C., per esempio, i Caldei erano arrivati al principio della notazione di
posizione; dal III millennio a.C., in Egitto, magia e medicina agivano insieme
nel curare; i Greci, a loro volta, raccolsero i frutti della scienza orientale,
con una volontà di razionalizzare, in un primo tempo latente, poi esplicita.
Così la cultura medievale fu influenzata soprattutto dalla visione
“scientifica” del mondo greco: dalla matematica di Euclide all’astronomia di
Ipparco e Tolomeo, dall’aristotelismo alla scuola medica di Ippocrate, che
Galeno di Pergamo trasmise in sintesi nel II secolo d.C.
Fondamentale fu
il salvataggio della cultura ellenistica operata da un movimento culturale
sorto a Costantinopoli nel IX secolo e guidato da figure come Leone il
Matematico, Fozio di Costantinopoli e Areta di Cesarea [19].
Attraverso i rapporti diplomatici tra i Bizantini e le unità territoriali
d’Occidente, fu possibile una trasmissione da Costantinopoli di alcune di queste
conoscenze. Tra le persone interessate da questo processo troviamo: il
diplomatico Liutprando di Cremona, non a caso maggiore esponente della
rinascita ottoniana; Mosè del Brolo, grammatico, traduttore, teologo e per un
certo periodo segretario dell’imperatore Giovanni Comneno; Giacomo da Venezia,
che tradusse soprattutto Aristotele; Burgundio Pisano, traduttore del Digesto di Giustiniano e di altre opere
utilizzate anche dal teologo Pietro Lombardo.
Altri furono poi
i contatti tra Oriente e Occidente, che passarono anche per la penisola
iberica. Pietro Alfonsi fu un teologo e astronomo convertito dall’Ebraismo (il
suo vero nome era Moshé Sefardi), che si battezzò dopo aver lavorato come
medico personale del re Alfonso I di Aragona, da cui prese il nome. Egli
contribuì a divulgare le conoscenze arabe in Occidente: nel 1110 fu infatti in
Inghilterra, come medico di re Enrico I Beauclerc, ma fu in qualità di
astronomo a distinguersi maggiormente. Scrisse tra le altre cose un trattato
sulle arti liberali, escludendo la grammatica e sostituendola con la medicina,
poiché la grammatica, «non essendo la stessa per tutte le lingue, non può
assurgere alla dignità di scienza generale» [20].
Pietro Alfonsi
trovò in Inghilterra dei discepoli, pronti a proseguire la sua opera di
divulgazione e ricerca. Walcher di Malvern, per esempio, utilizzò l’astrolabio
per calcolare le eclissi solari e lunari, componendo delle tavole lunari:
«l’insegnamento di Alfonso si riflette nel suo trattato Of the Dragon, dove descrive il metodo per calcolare la posizione
del Sole, della Luna e dei suoi ‘nodi’ (cioè dei punti di intersezione della
sua orbita con il piano dell’equatore) per poter prevedere le eclissi» [21].
Altri studiosi
si occuparono di traduzioni nella penisola iberica: Roberto di Chester (un
tempo confuso con un altro arabista, Roberto di Ketton) tradusse in particolare
al-Khwārizmī; Ermanno di
Carinzia trattò soprattutto opere di astronomia tolemaica; Giovanni da Siviglia
si occupò di medicina e alchimia; Gherardo da Cremona è noto per aver tradotto
l’Almagesto di Claudio Tolomeo;
Platone Tiburtino contribuì a far conoscere Tolomeo e Archimede.
Centro
importantissimo per il recupero e la traduzione di questi testi fu la città di
Toledo, dove erano vissuti studiosi di prim’ordine, come l’astronomo al-Zarqālī
(1029-1087). Nel 1085, re Alfonso VI di Léon conquistò la città, che accolse
nei decenni successivi queste schiere di studiosi e traduttori affascinati
dalla civiltà araba.
Algebra,
trigonometria e aritmetica furono alcuni dei campi in cui gli Arabi eccelsero:
è noto il loro ruolo nella reintroduzione, in Occidente, del concetto di zero e
l’introduzione del sistema decimale indiano. I numeri arabi si diffusero
probabilmente dal basso, grazie agli scambi commerciali, tanto da portare ad
una divisione tra algoristi (a favore del nuovo calcolo) e abacisti, che ancora
nel 1299 tutelarono a Firenze la maniera antica con una legge speciale.
A livello di
ricerca, un grande contributo alla matematica venne dallo studioso al-Khwārizmī
(circa 780-850), il cui nome diede vita al termine “algoritmo” e una sua opera
alla parola “algebra”. Tra le varie cose, studiò le equazioni algebriche
riprendendo gli studi indiani del matematico Brahmagupta e formulò una soluzione per le
equazioni di secondo grado; autore poligrafo, si interessò anche di geografia e
astronomia, inventando il quadrato delle ombre, o scala altimetrica, strumento
da posizionare sul dorso dell’astrolabio per determinare altezze e distanze.
L’astronomia
conobbe una notevole fortuna, mentre il suo studio sistematico in Occidente era
durato fino alla caduta dell’Impero, dove si mescolava sempre più intimamente
con l’astrologia. Molti strumenti vennero dall’Oriente e sono collegabili a
questi studi, come la bussola, che era già in uso in Cina, e l’astrolabio, noto
in epoca ellenistica.
Il monaco
Gerberto (dal 999 papa Silvestro II) ebbe contatti con la civiltà araba e costruì
un abbaco di origine indiana, un astrolabio e alcune ricostruzioni in legno per
individuare costellazioni e pianeti; si interessò di astronomia tolemaica, di
medicina, di geometria e di musica (influenzato da Boezio), contribuendo a
costruire quell’immagine “eretica” che la tradizione gli attribuisce.
Ma si dovette
aspettare la traduzione dal greco dell’Almagesto
di Tolomeo (1160, e quindici anni dopo dall’arabo), per aprire la strada alla
riscoperta dell’astronomia antica. In quei decenni altre opere astronomiche
furono tradotte dall’arabo e la conoscenza di uno studioso come al-Battānī
(850-922) portò a svolte significative. L’astronomo arabo calcolò con
accuratezza l’anno solare e la precessione degli equinozi, e scrisse diverse
tavole astronomiche in cui poter prevedere i movimenti degli astri. Inoltre,
al-Battānī fu anche astrologo: questa scienza continuò ad essere praticata,
come strumento interpretativo dei fenomeni astronomici, in un’intima unione tra
le due scienze oggi quasi incomprensibile.
Gli Arabi erano
andati a fondo in questo studio, partendo dal Tetrabiblos tolemaico: in Occidente giunsero quindi i loro commenti
e approfondimenti astrologici su Tolomeo, Aristotele, ma anche Ermete e molti
altri. Una diffusione particolare ebbero poi tutti i trattati riguardo alle
diverse forme di divinazione. Nella prima metà del XIII secolo, Michele Scoto
raccolse questa eredità: traduttore di Averroè e di Aristotele, egli fu un
astrologo e un alchimista, attivo alla corte di Federico II di Svevia. Il fatto
non deve stupire: nelle università non mancavano gli astrologi e i re se ne
servivano per i propri affari. Grande interesse destava anche l’alchimia, vista
però non sempre con favore dalle autorità. Essa, banalmente, è considerata
l’arte di mutare i metalli vili in oro, ma proprio a causa dell’importanza dei
processi, legati a tematiche esoteriche, la sua totale conoscenza rimane
preclusa. Si è soliti sostenere che la chimica derivi dall’alchimia e questo è
in parte corretto: certamente gli Arabi influirono molto sullo sviluppo della
chimica, il cui nome stesso è di origine araba e rimanda a sua volta alle
origini egizie di questa scienza. Gli Arabi contribuirono con gli studi sulla
materia e inventarono l’alambicco, studiarono gli alcali e gli acidi,
analizzarono le sostanze naturali e cercarono di mutarne l’essenza (si pensi ai
veleni trasformati in medicine). Collegati all’astronomia, gli studi arabi
sull’ottica e sulle malattie degli occhi furono altrettanto rilevanti e vale la
pena ricordare almeno il nome di al-Rāzī (865-925, anche noto come Rhazes), un
importante medico e studioso in questo settore. Ma altri rami della fisica
furono approfonditi, a partire da studi importanti come quelli di Thābit ibn Qurrā (826-901), che è considerato il
fondatore della statica.
Con un impero
così vasto, la geografia non poteva che fare passi da gigante, affiancata dalle
cronache di viaggio. L’Oceano Indiano era già stato descritto in alcune mappe
di epoca romana, ma la descrizione si fece più dettagliata nel X secolo.
Muhammad al-Idrisi (1099-1165) fu un viaggiatore e geografo, che spinto da
Ruggero II di Sicilia produsse un trattato, La
delizia di chi desidera attraversare la terra, allegando all’opera un
mappamondo noto come Tavola Rogeriana,
che rappresenta il mondo allora conosciuto, fino alle coste cinesi. Ibn Hawqal,
vissuto nel X secolo, aveva in precedenza già prodotto un mappamondo e visitato
la Sicilia, a quel tempo in parte mussulmana.
E riguardo alle
rotte commerciali d’Oriente, il geografo Ibn al-Mudjawir (1204-1291) raccontò
delle attività nello Yemen, in particolare nel porto di Aden. I contatti con la
Cina furono costanti e ricco il commercio dell’incenso, oltre alle varie
scoperte, come la carta: la via più praticata era quella che passava per il
golfo Persico. Furono probabilmente gli Arabi a reintrodurre nel Mediterraneo
le grandi navi mercantili a tre alberi e con le mappe dettagliate e un
primitivo sestante poterono affrontare il mare aperto senza dover
necessariamente navigare lungo le coste.
Testi filosofici
greci e di età ellenistica furono infine riscoperti grazie all’interesse arabo,
che ne tramandò la memoria: in particolare, al-Kindī (circa 801-873) fu promotore
di questa riscoperta. Egli fu pioniere della crittografia e fece studi
sull’utilizzo della musica in medicina. Un’altra figura da citare è al-Fārābī (870-950), considerato il “secondo
maestro” dopo Aristotele, che spaziò dalla filosofia alla teologia.
In Occidente,
ebbe carattere originale la Scolastica, con il problema degli universali, ma
per il resto le più interessanti riflessioni filosofiche furono possibili
grazie alla riscoperta della filosofia greca. I filosofi mussulmani più
influenti per l’Occidente, ancora più che nel mondo islamico, furono Avicenna
(Ibn Sinā, 980-1037) e Averroè (Ibn Rušd, 1126-1198), che a loro volta subirono
l’influsso di Aristotele e della sua filosofia naturale. Tanto profonda fu la
penetrazione dell’Islām su questa filosofia, che dopo decenni di lunghe e
faticose traduzioni dall’arabo e dall’ebraico, i commenti alla filosofia
naturale di Aristotele furono proibiti a Parigi (1210) e – dopo ulteriori
appelli – il pontefice ribadì la proibizione dello studio dello Stagirita
finché non fosse stato depurato dalle aggiunte eretiche dell’Islām. Il
proibizionismo durò comunque poco e
l’Università di Parigi tornò ai propri studi aristotelici.
Altrove, Tommaso
d’Aquino interpretò il filosofo greco in maniera diversa: egli riuscì da un
lato ad integrarlo nella cultura cristiana e dall’altro condannò la filosofia
averroistica, che aveva in sé alcune istanze ritenute non più opinioni, ma
eresie. Uno degli esponenti dell’Averroismo, Sigieri da Brabante, ebbe buon
gioco a rispondere alle accuse introducendo il principio della doppia verità,
filosofica e teologica, mettendosi al riparo dall’accusa di eresia. Questo
almeno in teoria, dal momento che – inimicatosi i Domenicani – morì pugnalato
dal suo segretario. Dante lo pose curiosamente nel Paradiso e lo fece lodare da nientemeno che Tommaso d’Aquino:
«Questi onde a me ritorna il tuo riguardo, / è ‘l lume d’uno spirto che ‘n
pensieri / gravi a morir li parve venir tardo: / essa è la luce etterna di
Sigieri / che, leggendo nel vico delli strami, / sillogizzò invidiosi veri» [22]. A
quanto dice Dante, Sigieri enunciò delle verità scomode per la Chiesa, che era
poi quello che voleva realmente fare il filosofo: spiegare Aristotele per
quello che proponeva la sua dottrina, non secondo l’interpretazione,
interessata, della Chiesa.
Come si può
dunque notare, i molti eruditi del Medioevo, che studiarono il patrimonio
culturale mediterraneo, andarono incontro all’opposizione della Chiesa, quando
il loro interesse diveniva troppo morboso o portava a soluzioni difficili da
analizzare con gli strumenti cristiani. Non che fosse impossibile farlo – e
Tommaso d’Aquino ne offrì un esempio – ma per una fede ormai così codificata e
dogmatica, il “libero pensiero” dei primi cristiani, in grado di far interagire
il Cristianesimo con ciò che lo aveva preceduto, era ormai un ricordo sbiadito [23].
Nel XIII secolo
l’Occidente aveva ormai assimilato molte delle conoscenze arabe e derivate. Un
letterato domenicano, Vincenzo di Beauvais, produsse persino un’enciclopedia,
lo Speculum Maius, che tra le fonti,
oltre ad avere opere consuete come le Etymologiae
di Isidoro di Siviglia, poteva ormai contare sul ricco patrimonio
arabo-bizantino. L’opera è suddivisa in tre sezioni (Speculum naturale, Speculum
doctrinale, Speculum historiale),
che uniscono senza problemi tematiche scientifiche e religiose sul modello
della classificazione della Scolastica.
Un altro
domenicano, Alberto Magno, ebbe una tendenza enciclopedica: maestro di Tommaso
d’Aquino, distinse filosofia e teologia, operando con grande profitto in
entrambi i campi. Non a caso la Chiesa lo considera il santo protettore degli
scienziati.
Alla fine del
XIII secolo, il metodo induttivo di ricerca, che per secoli aveva
caratterizzato la cultura occidentale, incominciò ad essere sostituito dal
metodo deduttivo, facendo uso di un forte empirismo, soprattutto in campo
medico (è in questo periodo che si incominciò a dissezionare i corpi umani).
L’influenza aristotelica, d’altra parte, fu determinante nell’affermazione
dell’empirismo: Tommaso d’Aquino tentò di rendere “innocuo” lo Stagirita, per
cui da un lato lo “cristianizzò”, dall’altro diede valore al tema del naturale
rispetto al soprannaturale.
Tra XI e XII
secolo gli studiosi cristiani si mossero anche verso Oriente per apprendere le
nuove (e vecchie) conoscenze: è per esempio il caso del matematico Leonardo
Fibonacci (circa 1175-1235), di Adelardo di Bath (1080-1152) e del monaco
studioso Costantino l’Africano (circa 1020-1087). Adelardo fu teologo, monaco e
insegnante: ebbe una vita tormentata, poiché fu continuamente accusato di
eresia per i suoi insegnamenti eterodossi, ma in realtà il suo desiderio era di
far comprendere il nesso tra scienza e fede, ovvero tra ragione umana e ragione
divina. Insieme a Walcher di Malvern, egli contribuì a fondare in Inghilterra
una solida tradizione scientifica, che portò risultati ben oltre il Medioevo,
definendo una vera e propria mentalità. Adelardo fu spesso avanti di secoli
riguardo a molte affermazioni della scienza moderna: «È certo, secondo me, che
nel mondo sensibile niente muore mai o è meno oggi di quando fu creato; e se
una parte si stacca da un tutto, non muore, ma si unisce a qualche altro
aggregato» [24].
Parlando al nipote affermò inoltre la sua libertà intellettuale: «Mi riesce
difficile discutere con te, perché io ho imparato dai miei maestri arabi sotto
la guida della ragione, mentre tu, sedotto dalle apparenze dell’autorità, segui
la tua cavezza» [25].
L’eredità di questo uomo è spesso sconosciuta o limitata al ricordo degli
studiosi, ma il suo contributo alla cultura ha pochi eguali in quei secoli
ritenuti bui per incoscienza.
Costantino
l’Africano, invece, si spinse fino in India e al suo ritorno fu spesso
perseguitato per i suoi insegnamenti; ad ogni modo, con le sue traduzioni
influì fortemente a far crescere la Scuola Medica Salernitana e fu accolto con
favore da Roberto il Guiscardo [26]. I
regnanti siciliani furono sempre lungimiranti da questo punto di vista. Così
per esempio Ruggero II, riuniti i domini normanni del meridione, avviò una
politica nel segno della concordia: la cancelleria incominciò a redigere atti
in latino, greco e arabo; protesse e diffuse la cultura araba; fece redigere un
codice giuridico, le Assise di Ariano,
che costituì una sorta di costituzione per il regno di Sicilia.
Come si è potuto
notare, i grandi studiosi del Medioevo – orientali e occidentali – furono
specializzati in una disciplina, ma la loro grandezza consisteva nell’essere in
grado di affrontare la conoscenza in
tutte le sue vie di ricerca. Questo fattore generò un’interconnessione
indispensabile a promuovere un’umanità più cosciente, al di là delle singole
scoperte che altrimenti non avrebbero avuto valore. Basti pensare al citato
Silvestro II: come altri uomini del Medioevo, egli fece diversi studi e alcune
scoperte importanti per l’umanità, ma rimasero casi isolati, certo non per sua
colpa, ma per una società che era ancora in uno stato dormiente.
Quando la
curiosità mosse i primi traduttori occidentali a ricercare testi di altre
lingue, allora si poterono gettare le basi per un risveglio dell’Occidente, e
dal tardo Medioevo fino ai primi del Novecento la cultura, anzi la civiltà, fu
tutt’altro che settoriale, ma aperta a tutti gli uomini che avevano la volontà
di porsi domande, di conoscere. Con questo, non si vuole dire che il Medioevo
fu un’età buia e oscurantista (si cerca anzi di dimostrare l’opposto): la fase
dormiente è una fase essenziale di ogni società, come il sonno è un processo
indispensabile a ogni essere umano. Essa è la fase in cui meditare, rielaborare
e intuire cose nuove; per le società più avanzate, è il momento in cui
chiudersi nella propria intimità e comunicare con il divino.
[1] Si pensi al Ducale di Ruggero II di Sicilia. L’oro nordafricano proveniva in buona parte dalle risorse minerarie del continente africano, come in Sudan.
[2] Da notare che se l’esercito bizantino utilizzava mercenari europei, turchi e armeni, al contrario la base dell’esercito mussulmano era costituita da schiavi e mercenari, non sempre liberi. Sotto gli Zenghidi, ai Turchi erano inoltre affiancati i guerrieri curdi, ma se la popolazione libera voleva arruolarsi, di solito era relegata a compiti subalterni. Lo stile di vita mussulmano, divenuto ormai poco guerriero, subì un grave sconvolgimento dall’arrivo dei Franchi. Oltretutto, Slavi e Ungheresi erano stati convertiti al Cristianesimo e il loro commercio in schiavitù fu fermato.
[3] C. Tyerman, Le guerre di Dio, Einaudi, Torino, 2012, p. 88.
[4] C. Cahen, Oriente e Occidente ai tempi delle Crociate, Il Mulino, Bologna, 1986, p. 43.
[5] I Maroniti, concentrati sulle montagne libanesi, erano stati arabizzati e mantennero un atteggiamento neutrale nello scontro tra Franchi e Saraceni, aspetto che non li aiutò in entrambe le direzioni: le loro terre furono confiscate dai crociati e solo in parte restituite, ma funsero da modello per quei Franchi che sceglievano di adattarsi agli usi mediorientali.
[6] C. Cahen, Oriente e Occidente…, op. cit., p. 86.
[7] C. Tyerman, Le guerre di Dio…, op. cit., p. 236.
[8] Ivi, p. 217.
[9] Soprattutto nel V secolo, ma anche le scorrerie ungare del X secolo.
[10] Nel primo caso soprattutto devastazioni e calo demografico, nel secondo interesse rivolto a tematiche di fede.
[11] Nel 614 Gerusalemme era stata conquistata dai Sasanidi e poi devastata, con tanto di trafugamento delle reliquie della Vera Croce. È il caso di riportare alcuni dati in merito a questa reliquia: la leggenda narra che fu Elena, madre di Costantino, a ritrovare la Vera Croce nel IV secolo. L’Itinerarium Egeriae parla della reliquia a Gerusalemme, in un periodo di poco successivo al ritrovamento. Il re persiano Cosroe II la portò nella sua capitale, Ctesifonte, dopo aver conquistato Gerusalemme (614). L’imperatore d’Oriente Eraclio riuscì a riprenderla e al principio dell’XI secolo i cristiani nascosero la reliquia a Gerusalemme, fino al ritrovamento del primo patriarca latino di Gerusalemme, Arnolfo di Roeux. In seguito alla disfatta cristiana di Hattin (1187) la Vera Croce fu presa dai Mussulmani e da lì se ne persero le tracce. Sembra però che diversi frammenti furono staccati dalla croce nel corso dei secoli, per poi essere donati ai luoghi di culto della cristianità. Tanti erano divenuti i frammenti della Vera Croce che si notò con ironia il fatto che era ormai possibile costruire un’intera nave con quei resti. Come ricordò Erasmo da Rotterdam, critico interno alla Chiesa, era meglio ascoltare le parole e seguire gli esempi di Cristo e dei santi piuttosto che venerarne le reliquie.
[12] Gerusalemme cadde nel 638; Alessandria d’Egitto nel 642. La prima conquista mussulmana di Gerusalemme non destò particolare apprensione in Occidente, anche perché poco si sapeva dell’Islām.
[13] Anche il patto di ‘Omar (637), sancito dall’allora califfo, regolò i rapporti con la cosiddetta “Gente del Libro” (cristiani ed ebrei). Non bisogna poi dimenticare le altre religioni presenti, in particolare il Zoroastrismo, che in molte aree conquistate dagli Arabi era la fede dominante.
[14] C. Cahen, Oriente e Occidente…, op. cit., p. 23.
[15] Corrente sciita, nata nell’VIII secolo da problemi di successione con il settimo Imām.
[16]
In Spagna, dopo un breve periodo di relativa stabilità, al-Mansur Billah
(913-953), terzo califfo del califfato fatimide di Ifrīqiya, distrusse molte
città cristiane, tra cui Santiago de Compostela, incentivando la Reconquista.
[17] L’isola divenne base d’appoggio per le incursioni sulla penisola italica; dalla Spagna, dalle isole e da Frassineto i mussulmani si spinsero fino alle Alpi e all’alta valle del Reno, dove compirono incursioni e catturarono schiavi.
[18] Non era solo una biblioteca (contenne al suo interno fino a mezzo milione di volumi!), ma anche un nosocomio e un osservatorio astronomico. La Casa della Sapienza non resse tuttavia all’ondata mongola, che conquistò Baghdād nel 1258.
[19] Leone fu uno scrittore enciclopedico, che realizzò anche delle invenzioni, come il telegrafo ottico. Fozio ne fu allievo; creò un circolo intellettuale e divenne patriarca di Costantinopoli. Areta fu probabilmente allievo di entrambi e divenne arcivescovo di Cesarea: egli portò al culmine il periodo di catalogazione e di enciclopedismo a Costantinopoli.
[20] P. Wolff, Storia e cultura del medioevo dal secolo IX al XII, Laterza, Bari, 1973, p. 286.
[21] Ivi, p. 287.
[22] Paradiso, Canto X, 133-138.
[23] D’altronde quella battaglia era già avvenuta: le eresie dei primi secoli erano state vinte; la Chiesa si era rafforzata e istituzionalizzata, tanto che ormai al confronto – che pur avveniva in certi frangenti – si rispose più spesso con la condanna delle minoranze, anche attraverso le crociate contro i cristiani.
[24] P. Wolff, Storia e cultura…, op. cit., p. 289.
[25] Ibidem.
[26] Il monaco e scrittore Pietro Diacono, nel suo Liber illustrium virorum archisterii
Casinensis, lo definì non a caso “maestro dell’Oriente e dell’Occidente”.
[27] Gli Arabi non introdussero solo spezie e altri alimenti (spinaci, melanzane, etc.), ma anche tessuti come la mussola (il cui nome deriva dalla città di Mosul), il damasco, il taffetà e il raso, oltre ai tappeti. In ambito artistico, ebbero successo le ceramiche e le decorazioni islamiche con calligrafia pseudo-cufica. A livello scientifico e filosofico abbiamo visto le influenze, mentre nella letteratura una teoria fa derivare la poesia trobadorica da modelli arabi. Dante stesso, nelle sue opere, fa trasparire un’influenza araba in merito a temi filosofici e astronomici.
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