Oriente e Occidente. Parte II

 

Per la prima parte, si veda qui.


Un fornaio medievale con il suo apprendista;
illustrazione conservata alla Bodleian Library, University of Oxford


L’alimentazione e la medicina tra Oriente e Occidente

 

Ho scelto di affrontare queste due tematiche a parte, per il forte impatto che ebbero in ogni strato sociale e per gli interessanti spunti di riflessione che offrono. Attingerò soprattutto da due opere molto utili e affascinanti, di M. Montanari e di H. Schipperges, citate in nota, a cui aggiungerò alcune riflessioni e integrazioni.

Come qualunque altra esperienza nel Medioevo, anche l’alimentazione fu interpretata secondo i modelli biblici. Partendo dalla Genesi, fu molto diffusa l’interpretazione dell’atto di Adamo ed Eva come un peccato di gola. Il peccato originale fu certo un episodio di superbia intellettuale, ma anche l’aspetto della gola ebbe il suo valore [1]: «Il primo uomo fu scacciato dal paradiso […] per la sua sottomissione al ventre piuttosto che a Dio» [2]; così Girolamo e molti altri uomini di Chiesa. Secondo una convinzione antecedente al Cristianesimo, saziare il corpo provocava una crescente libidine sessuale (così, p. es., Isidoro di Siviglia). Di conseguenza, il digiuno diventò fondamentale per contrastare un atto inevitabile. Per l’arcivescovo di Magonza Rabàno Mauro (circa 780-856) l’assunzione di carne generava la lussuria, per un’analogia tra la carne dell’animale e il desiderio sessuale di quella umana. Rabàno fu una delle molte voci che condannarono questo alimento, e in ambito monastico la linea fu la stessa.

Girolamo aggiunse che i cibi pesanti portavano ad una minore libertà dell’anima: viaggiatore assiduo per le terre orientali, fu forse influenzato dalla tradizione pitagorica che vedeva nella carne e nella scorretta alimentazione un limite all’attività interiore. Oltre a ridurre la libidine, il digiuno e l’alimentazione povera dei monaci doveva mettere in luce una certa forza spirituale del monaco, che attraverso questa forma di penitenza elevava il proprio spirito verso Dio.

E il refettorio era più di un semplice luogo in cui mangiare: era il punto di ritrovo della comunità, che condivideva in quel momento i doni materiali di Dio, cioè i prodotti della terra, e quelli spirituali, grazie alle letture. Cibo per il corpo e cibo per lo spirito erano altrettanto importanti per elevare la misera condizione dell’Uomo. Per questo motivo l’espulsione dalla mensa o l’obbligo di mangiare a terra indicavano l’esclusione stessa dalla comunità e il proprio ritorno ad una condizione animalesca.

 

La società altomedievale, fortemente investita dal problema della sopravvivenza quotidiana, aveva con il cibo un rapporto certamente più diretto e immediato. Ciò tuttavia non impediva – anzi in un certo senso favoriva, data la centralità che il cibo aveva negli interessi e nelle attenzioni degli uomini – l’assunzione da parte del fatto alimentare di significati sociali, simbolici, rappresentativi, comunicativi. Anche allora, ben lungi dal restare vincolato alla propria realtà biologica, il cibo veramente parlava[3]

 

La carne, in particolare, aveva assunto un certo valore sociale: essa era legata al potere, al nobile capace di procacciarsi il cibo con la caccia e di disporre di ogni bene per superare le pericolose carestie. In questo senso, due erano i fenomeni ricorrenti: la difficoltà di rinunciare alla carne per il nobile che sceglieva di farsi monaco e l’integrazione sociale dell’alto corpo ecclesiastico, che di rado sceglieva di rinunciare a questo alimento [4]. Perciò «la privazione della carne assumeva non solo il significato di una generica rinuncia al «mondo», ma anche di un’estraniazione da quel particolare mondo da cui molti monaci provenivano» [5].

Le regole monastiche lasciarono quasi sempre spazio alla coscienza individuale in merito al consumo di carne, pur attestandosi su una posizione di rifiuto e talvolta persino di esclusione: per esempio ad Hirsau, uno dei centri più importanti del riformismo monastico, «chi mangiava carne veniva temporaneamente privato della confessione e della comunione» [6]. Sebbene sulla carta questo alimento non fosse concesso, nei monasteri si faceva un’eccezione per il grasso animale (lardo, strutto), considerato un nutrimento a sé.

 

Ma come mangiavano le altre persone nel Medioevo? Il modello produttivo di tipo classico ruotava intorno al grano, all’olio e al vino. I latticini avevano una certa importanza, soprattutto nelle aree montane, mentre la carne aveva molto meno peso. La romanizzazione portò questa cultura alimentare molto a Nord, fino a lambire le coste inglesi e il commercio favorì questo genere di integrazione. Il Cristianesimo incentivò tale modello e l’uso liturgico del vino e dell’olio non fece che nobilitare ulteriormente questi alimenti. Tuttavia le popolazioni barbariche portarono con sé un altro sistema, basato sulla caccia, la pesca e la raccolta. Di conseguenza, in luogo dei campi coltivati, gli invasori tennero in maggiore considerazione le zone incolte, come paludi e boschi.

A seconda dell’area geografica e del grado di infiltrazione dei costumi germanici, i due sistemi produttivi ebbero entrambe spazio, ma grazie alle bonifiche monastiche molte aree dell’Europa continentale passarono o tornarono alla cerealicoltura. Il consumo di carne, però, si era trasformato in un fattore di prestigio sociale, tale per cui una sua eliminazione fu impensabile.

Vale però la pena specificare di quale carne stiamo parlando. Di solito, il maiale era l’animale più utilizzato, ma non sempre e non tutti potevano permettersi di consumarlo. I nobili e i cacciatori disponevano di una grande varietà di selvaggina: cervi, cerbiatti, uccelli selvatici e cinghiali (in fin dei conti maiali selvatici). Ma nei villaggi e nelle corti non mancavano anche altre specie più comuni, quindi sicuramente polli, tacchini, anatre e fagiani. Capre e pecore erano utilizzate per lo più per il latte o per la loro pelle e lana, ma nulla proibiva di mangiarne le carni. I bovini, al contrario, erano alquanto preziosi e servivano come forza-lavoro, ma in seguito ad una morte imprevista dell’animale o a conclusione del ciclo lavorativo si poteva macellarli. I cavalli da lavoro, i muli e gli asini erano anch’essi più utili da vivi, ma la necessità portava a un loro consumo, sebbene circoscritto. Nel caso dei nobili, poi, il cavallo di razza assunse una funzione di prestigio non indifferente e solo in situazioni estreme (p. es. la carestia che colpì il contingente della prima crociata) si arrivò a malincuore a cibarsene. Per il resto, i più poveri, talvolta anche i monaci, mangiavano quotidianamente zuppe e brodi vegetali. Discorso a parte per il pane, che

 

rappresentò a lungo il segno, lo status-symbol di una condizione superiore, fosse quella dell’aristocrazia o della borghesia urbana, o degli stessi ceti popolari delle città, contrapposti alla popolazione contadina. Oppure si tratta della contrapposizione fra pane nero – di segale o di altri cereali inferiori – e pane bianco di frumento (bianco, s’intende, come poteva esserlo un pane perfettamente integrale, quale si consumava nel Medioevo. [7]

 

Il consumo di cereali si ridusse comunque nel corso dell’Alto Medioevo per l’introduzione di altri modelli alimentari, ma in alcune aree, come il Sud Italia, il pane rimase alla base dell’alimentazione. Nel Basso Medioevo l’economia cerealicola subì un’impennata nel Nord Italia, in relazione alla crescita demografica e all’allargamento degli scambi commerciali. Ma al Sud della penisola la vera svolta fu data dalla nuova fase espansiva che riguardò la viticoltura, l’olivicoltura e l’arboricoltura. Al Sud come al Nord, i principali cereali furono frumento e orzo (utilizzato anche per l’alimentazione dei cavalli), ma altrove non mancarono miglio, farro e segale.

Nell’Alto Medioevo, gli scambi commerciali furono per lo più regionali. Nell’Italia settentrionale di epoca longobarda (secoli VI-VIII) si utilizzarono in particolar modo le vie fluviali (molti più fiumi di oggi erano allora navigabili). Queste vie erano sottoposte a dazi e i briganti non tardarono a mettere in pericolo i commercianti, che incominciarono ad armarsi.

I Longobardi commerciavano moltissimo sale, considerabile come il petrolio dei giorni nostri, e una lunga lotta fu condotta contro i Bizantini per il controllo delle saline italiche. Riguardo ai contatti commerciali con l’Oriente, in un primo tempo essi furono occasionali e limitati soprattutto agli scambi con i Bizantini, ma a partire dall’XI secolo città come Amalfi, Pisa e Venezia incominciarono ad importare con regolarità ingredienti come pepe, zenzero e noce moscata, influenzando le cucine locali con il ricorso alle erbe aromatiche.

Il sale rimase comunque di vitale importanza, anche perché l’organismo lo deve assumere con regolarità, così da evitare l’insorgenza di malattie legate alla carenza di iodio (gozzo, problemi in fase di gravidanza, etc.). Considerando che alimenti come la carne contengono quantità sufficienti di sale, «è stato osservato che le popolazioni che vivono di caccia e pesca possono sopravvivere senza sale; mentre senza sale non possono sopravvivere le società agricole» [8]. Uno dei centri medievali più importanti per la produzione di sale fu Cervia, presente almeno dal V secolo d.C. In seguito alla crisi di un altro centro importante come Comacchio, distrutta nel 932 dai Veneziani, Cervia fiorì grazie anche all’interesse vescovile. La città ebbe una produzione di sale senza pari nel Nord della penisola, tanto da attirare gli interessi dei Veneziani, che solo nel XIII secolo riuscirono a controllare. Nel 1234, infatti, Venezia impose a Ravenna il blocco del sale di Cervia per l’esportazione al Nord, e alla fine del secolo la città fu costretta a consegnare metà della produzione.

Per comprendere a pieno l’importanza del sale bisogna considerare che esso era utilizzato per conservare la maggior parte dei cibi, oltre ad insaporirli. E al di là di questo, il sale serviva in farmacologia perché si riteneva che avesse la capacità di essiccare gli umori, per la sua natura calda e secca: serviva quindi da purgante e emetico, ma anche contro le infiammazioni e gli avvelenamenti. A livello simbolico, esso indicava l’incorruttibilità, poiché preservava dalla corruzione, in senso fisico e spirituale, tanto da essere utilizzato negli esorcismi. Ma non solo: data la sua incorruttibilità, esso rappresentava la purezza, nonché l’alleanza nella tradizione ebraica e da questa al Cristianesimo. Dunque troviamo scritto: «Dovrai salare ogni tua offerta di oblazione: nella tua oblazione non lascerai mancare il sale dell’alleanza del tuo Dio; sopra ogni tua offerta offrirai del sale» [9]. E nel Nuovo Testamento: «Perché ciascuno sarà salato con il fuoco. Buona cosa il sale; ma se il sale diventa senza sapore, con che cosa lo salerete? Abbiate sale in voi stessi e siate in pace gli uni con gli altri» [10]. Il sale è qui simbolo di fedeltà. In alcuni casi esso era consumato anche come portata a parte:

 

Secondo Varrone, gli antichi romani mangiavano piatti di sale accompagnati col pane. Alla medesima consuetudine accenna Orazio, come esempio di frugalità. Ritroveremo questo abbinamento pane-sale (ben diverso dall’uso di salare il pane, trattandosi in questo caso di due prodotti distinti, accostati l’uno all’altro) nelle scelte dietetiche degli eremiti del deserto, primi campioni dell’ascetismo cristiano: Erat enim illi esca panis et sal, aveva come cibo pane e sale, scrive il biografo di Antonio. [11]

 

Ho accennato agli umori e alla farmacologia; è quindi il momento di approfondire il discorso sulla salute, dal momento che l’alimentazione era considerata la prima delle medicine. La patologia medievale si fondava sulla dottrina dei quattro umori, sistematizzata da Galeno di Pergamo (circa 129-210); il corpo umano era quindi formato da bile nera, bile gialla, flegma e sangue. Tale concezione aveva radici nella filosofia greca, che ai quattro elementi attribuiva quattro stati, ovvero caldo, freddo, secco, umido.

Ippocrate di Coo (circa 460-377 a.C.) aveva adattato questa dottrina al corpo umano, individuando i suoi quattro liquidi. In questa reinterpretazione la bile nera (terra) risiedeva nella milza; la bile gialla (fuoco) nel fegato; il flegma (acqua) nella testa; il sangue (aria) nel cuore. Ai quattro liquidi corrispondevano quattro temperamenti (melanconico, collerico, flemmatico, sanguigno), quattro qualità elementari (secco, freddo, umido, caldo) e altre corrispondenze (le stagioni, le età dell’uomo). L’alimentazione si inseriva in questa dottrina e serviva a regolare i diversi umori.

La sessualità era favorita per esempio da un eccesso di umori caldi e umidi: quindi in ambito monastico si ricercavano alimenti freddi e secchi. «Ecco, dunque, la predilezione degli eremiti per i cibi crudi, cioè freddi. Ecco la massiccia presenza di sale nella loro dieta, al fine di prosciugarne i corpi. Ecco il ricorso al pane d’orzo, che non è solo una scelta di penitenza, legata alla scarsa bontà del prodotto, ma è anche la scelta di un tipo «arido» di pane, come i testi non mancano di definirlo esplicitamente» [12]. Dunque era dal giusto equilibrio di questi umori che dipendeva la salute del soggetto.

 

L’universo si configura come un’enorme ruota (rota): ardente nel cerchio di fuoco, circoscritta da bastioni d’acqua, inondata dell’aereo fluido dell’atmosfera e avente come fulcro il globo terrestre. Al centro dell’edificio cosmico, però, campeggia in proporzioni gigantesche l’uomo; egli deborda dai netti confini della terra e si colloca nella ruota del cosmo a capo eretto e a braccia aperte. [13]

 

Nel Medioevo, uno dei primissimi problemi fu l’alta mortalità infantile. Le malattie più comuni colpivano prima di tutto i bambini; si avevano per esempio casi di febbre, dolori gastro-intestinali e tubercolosi polmonare. La collettività doveva invece far fronte a non poche carestie, soprattutto a causa delle lotte tra signori e vassalli, che rischiavano di sfociare in epidemie. Si aggiunga che la cultura della pulizia e dell’igiene era praticamente nulla e che questo poteva portare al proliferare delle malattie infettive. Peste, lebbra, fuoco di sant’Antonio e persino isterismi collettivi furono piuttosto ricorrenti. Nello specifico, con il termine lebbra si indicavano «diverse malattie cutanee, fra cui soprattutto la psoriasi (psoriasis), ma anche la tubercolosi della cute» [14]. La malattia, nelle sue diverse forme, fu affrontata con grande cura e intelligenza da parte degli uomini del tempo, che fondarono strutture e istituzioni apposite e ne approfondirono lo studio. Importante era l’anamnesi di questo morbo: le facoltà di medicina visitavano i presunti lebbrosi e ogni piccolo dettaglio era annotato, rilevando una spiccata capacità di analisi.

Con il termine peste, invece, si intese la peste bubbonica o quella polmonare. La cosiddetta “peste nera” (o “morte nera”) colpì l’Europa nel periodo 1347-1352. Si trattò di una vera e propria pandemia, proveniente dall’Asia centrale, che si diffuse in Europa passando soprattutto per la città di Caffa, in Crimea, base commerciale genovese. Sembra che durante l’assedio alla città da parte dell’Orda d’Oro, i Mongoli avessero lanciato con le catapulte i cadaveri infetti e che attraverso le vie commerciali il morbo si diffuse in Occidente. L’origine della peste nera sembra sia dovuta alla morìa di roditori nell’Asia centrale, a seguito di un irrigidimento del clima. Le pulci e i vettori del bacillo della peste, rimasti senza nutrimento, attaccarono uomini e mammiferi e le scarse condizioni igieniche non fecero altro che favorire il contagio.

A proposito dell’interesse per l’astronomia nel corso del Medioevo, di fronte all’incapacità di limitare la diffusione della pestilenza, l’università di Parigi si affidò ad una spiegazione di ordine astronomico e gli studiosi individuarono l’origine della peste nella particolare congiunzione di Saturno, Giove e Marte. La morte nera segnò profondamente la mentalità occidentale, poiché sterminò circa un terzo della popolazione del tempo (più di venti milioni di persone), ma al contempo incentivò l’interesse delle autorità per la salute pubblica.

Non esistevano però soltanto le malattie di “massa” e per altri problemi si poteva fare affidamento su diverse figure. I barbieri-chirurghi, a quel tempo, curavano fratture e lussazioni, piaghe, ferite e mal di denti, e facevano anche piccole operazioni chirurgiche. Vi era poi il personale dei bagni pubblici, che come il barbiere praticava il salasso, considerato una sorta di panacea per riequilibrare gli umori [15]. I norcini (il cui nome deriva dalla città di Norcia) erano invece dei macellai di maiale, che per le loro abilità manuali fungevano anche da chirurghi, sebbene fortemente disprezzati dai chirurghi di professione. Le ostetriche, infine, oltre al loro compito primario aprivano gli ascessi e asportavano i polipi dai genitali. Nei casi di emostasi si tamponava con cotone emostatico e si usavano vari lacci; per la terapia del dolore si ricorreva a composti di oppio e mandragora, o alla cauterizzazione, considerando che non esisteva l’anestesia vera e propria. Si praticavano anche altre operazioni: la suppurazione, la trapanazione del cranio, la riduzione della colonna vertebrale lussata e l’intervento alla cataratta, per cui esisteva una specifica corporazione. Per i calcoli renali e vescicali, infine, si utilizzavano i litotomi affiancati a una cura di erbe medicinali.

Ricco anche il patrimonio farmaceutico: la pianta di scordio serviva come antidoto contro il morso di serpente; le more per il ciclo mestruale; di oppio e mandragora ho già detto, ma quasi ogni pianta aveva la sua applicazione (centaurea, assenzio, ruta e via discorrendo). Con esse si prevenivano le malattie, si facevano impiastri o pillole da accompagnare con il miele. Dal mondo arabo vennero anche gli sciroppi. Il vino era invece considerato «il motore della circolazione umorale» [16].

 

Il medico in senso stretto fu una figura che si definì nel corso del Medioevo e che al principio poteva essere uno studioso che trattava anche altre materie, come l’astronomia o la matematica, ma che era particolarmente versato nella cura dei pazienti. Nel Medioevo il medico aveva il compito di lavorare molto sulla prevenzione, attraverso una dieta regolata: se sopraggiungevano delle malattie, prima di tutto sfruttava i farmaci a sua disposizione e in casi estremi operava chirurgicamente.

I farmaci erano composti non solo da erbe, ma da minerali e parti di animali solitamente immangiabili (e in questo la tradizione popolare e non solo si sbizzarrisce: polmoni di cervo, vermi rossi, sterco di pecora, etc.).

Lo stimolo decisivo al miglioramento delle conoscenze e delle tecniche mediche fu possibile con la scoperta del patrimonio arabo, in particolare dal filone greco. L’Articella fu un’opera che raccoglieva testi del XII secolo, in cui era presente un compendio del patrimonio culturale greco-arabo. I Greci, a loro volta, non avevano che razionalizzato e approfondito quanto l’Oriente e l’Egitto offrivano, ovvero un tipo di medicina fortemente imbevuta di magia. Non che questo avesse reso meno valide le loro tecniche, anzi: gli Egizi, in particolare, ebbero una conoscenza accurata del corpo umano e le loro operazioni chirurgiche e i farmaci furono molto più di riti magici [17]. E a loro volta, gli Arabi furono influenzati dalla civiltà greca. Il Bīmāristān, termine persiano che indica l’ospedale, fu una struttura medica all’avanguardia, che si occupava persino dei malati di mente, prendendo in considerazione anche l’importanza dell’ambiente circostante nel processo di guarigione (erano quindi presenti giardini con ricchi ornamenti). Nel meridione della penisola italica, questo patrimonio greco-arabo non cessò mai di esercitare la sua influenza, anche dopo la fine dei domini politici. Grazie al contributo del monaco benedettino Costantino l’Africano fu inoltre possibile approfondire la ricerca medica sicula. Tra i testi più consultati, non potevano mancare i detti di Ippocrate, l’Ars medica di Galeno, gli scritti di ‘Alī ibn ‘Abbās al-Majūsī, Il canone della medicina di Avicenna e molto altro ancora.

La formazione di un medico può apparire insolita ai nostri tempi. L’allievo del Medioevo incominciava con lo studio delle arti liberali, che servivano da base: a quel punto poteva scegliere tra teologia, giurisprudenza e medicina.

Marziano Capella aveva anticamente escluso architettura e medicina dalle sette arti liberali, ma già Isidoro di Siviglia, nelle Etymologiae, aveva dedicato alla medicina un apposito libro, affermando che essa comprendeva il tutto, laddove le altre arti si rifacevano ad argomenti settoriali. La medicina si trasformò in una “seconda filosofia”, in questo caso per la cura del corpo. Si riteneva comunque – e Isidoro era tra questi – che le sette arti classiche contribuissero alla formazione professionale del medico: la grammatica per leggere e scrivere con sapienza; la retorica per poter giustificare e difendere il proprio operato; la dialettica per individuare razionalmente le cause delle malattie; l’aritmetica, legata ai tempi e ai ritmi delle malattie; la geometria, collegata a geografia e meteorologia, influenti sull’organismo; la musica per poter armonizzare le “dissonanze” corporee [18]; l’astronomia per la dipendenza del corpo dalle leggi del cosmo.

Le arti servivano a fornire all’essere umano gli strumenti per affrontare e interpretare la natura: questo era necessario dal momento che l’Uomo era considerato un microcosmo, le cui parti avevano tutte una corrispondenza nel Creato (macrocosmo). Abbiamo accennato all’interpretazione astronomica della peste nera: l’intima unione dell’Uomo con il Creato comportava una reciproca influenza; nel dettaglio, la salute variava al mutare delle leggi cosmiche. La tradizione fu conservata e trasmessa ancora una volta dall’arabo; in pieno XIII secolo si riscoprì la Tavola smeraldina, in cui ritornano questi concetti: «Quod est inferius, est sicut quod est superius, et quod est superius, est sicut quod est inferius: ad perpetranda miracula rei unius» [19].

L’insegnamento medievale della medicina non era dunque specialistico; era un sistema educativo concentrato sulle capacità del singolo allievo: le “classi” erano composte da poche unità e il maestro era una via di mezzo tra la figura del saggio e quella paterna. L’atteggiamento era di umiltà di fronte alla tradizione e alla rivelazione, due aspetti – l’umano e il divino – che si poteva allora armonizzare, senza escludere l’innovazione [20]. Così, con le scoperte arabe e occidentali, le sette arti furono affiancate da altre conoscenze, come l’ottica e l’alchimia, che allargarono il campo di ricerca. In Europa, tutto un insieme di saperi stava fiorendo e aprendo nuove prospettive socio-culturali ed economiche; al contrario, nel mondo islamico la stabilizzazione di un patrimonio culturale coltivato nei secoli portò a chiudersi in un dogmatismo sia scientifico che religioso.

In Sicilia, ponte di trasmissione tra i due mondi, la scuola medica di Salerno [21], insieme al Liber Augustalis, promulgato nel 1231 da Federico II, portarono ad una prima legislazione medica, costruendo le basi per una medicina pubblica: il medico dovette seguire uno specifico piano di studi e un apprendistato regolato appositamente per evitare i truffatori.

Accanto a Salerno, altre scuole importanti furono Bologna, Montpellier e Chartres: alle soglie del XII secolo, le sedi di studio si fissarono in un luogo e l’allievo smise di seguire il maestro, che divenne docente universitario a tutti gli effetti.

Nel XIII secolo, poi, esplose la produzione letteraria riservata all’igiene e ad accorgimenti per una buona salute: i regimina non erano altro che regole di vita per mantenersi in salute. Molti di questi scritti furono prodotti per i crociati, i pellegrini e i mercanti, ovvero le persone che più si muovevano nel Medioevo. Si trattò per esempio del problema del mal di mare; di come conservare l’acqua affinché non divenisse stantia; su come mantenere alta la pulizia dei dormitori e via discorrendo.

L’azione di queste persone stimolò quindi un progresso anche nell’igiene: in questo campo gli orientali furono maestri. I bagni turchi favorivano la circolazione sanguigna (si percuoteva il corpo con le frasche) e servivano ad eliminare gli umori in eccesso tramite sudorazione, portando a vari risultati (urina più fluida, catarro che si scioglie, ma anche appetito e molto altro). In questo clima fervente di scoperte, invenzioni e ricerche, la medicina non fu comunque estranea al pensiero cristiano, che anzi coadiuvava l’operato del medico. Quest’ultimo, lungi dall’essere il dominatore della natura, era qualcosa di più: un socio, un suo amministratore. Il medico attendeva alle cure del giardino di Dio, rispettando i frutti della terra, in armonia con il Creato e con il Creatore:

 

In questo mondo medievale l’uomo non è mai raffigurato come il signore della natura, ma piuttosto come un pastore dell’essere, come un giardiniere e contadino che coltiva il campo e custodisce i pascoli, come colui cui è stato affidato il giardino che deve procurare gioia agli occhi del Signore. […] Come Paracelso non si stanca tuttavia di sottolineare, in questo giardino della salute l’uomo deve possibilmente essere e rimanere il medico di se stesso. «Perché come egli aiuta la natura, così essa gli regala il necessario e inoltre gli concede di coltivare il suo giardino». [22]

 

Nel contesto monastico, la cura del malato fu un precetto evangelico e fu vissuto come tale: il monastero fu per secoli il più importante centro di cura medievale e solo nel Basso Medioevo, con la scoperta del tesoro arabo e la presa di coscienza laicale, il medico incominciò a scalzare la figura del monaco guaritore. Ma quest’ultima resistette ancora a lungo: nel XII secolo, per esempio, la mistica Ildegarda di Bingen scrisse opere di farmacologia naturale, includendo nei suoi studi pietre e metalli, in una prospettiva mistico-teologica. Essa mise in relazione guarigione e salvezza dell’anima. E tra XI e XII secolo, il monaco Onorio Augustodunense esaminò il cammino esistenziale dell’uomo e lo interpretò come un pellegrinaggio attraverso le scienze: metaforicamente si dovevano attraversare dieci città e Ippocrate risiedeva nell’ottava, dedicata alle scienze naturali.

Dunque al principio, ma anche per il resto del Basso Medioevo, il monachesimo fu tutt’altro che estraneo ai cambiamenti nel campo della medicina e anzi produsse opere scientifiche e mistiche di grande pregio. Se il mondo occidentale stava riscoprendo il piacere di vivere, di contro alle rigide privazioni ecclesiastiche e ad un’esasperazione del De contemptu mundi, il monachesimo cercò una mediazione, che riuscì se non altro a livello teorico.

Come ovvio punto di partenza di una riflessione di questo genere, la vita dell’uomo doveva essere inquadrata nel disegno divino. A partire dalla fase prenatale: la Madonna, il cui culto divenne centrale grazie ai Cistercensi, fu sublimata nel suo aspetto di Madre. In un tempo in cui la mortalità infantile era alta (ma il tasso di natalità era invece alto), l’importanza di una nascita non era mai sottovalutata: per le donne incinte furono create delle aree riservate in alcune grandi città e le pellegrine partorienti avevano diritto alle migliori cure all’interno degli ospizi cittadini.

Molti furono gli scritti che riguardarono la cura dei bambini e che spiegavano come fasciarli per evitare graffi e lussazioni [23] o come stimolare l’allungamento del corpo. Il medico persiano Avicenna diede istruzioni sull’allattamento e l’allevamento, con curiose prescrizioni: il bambino doveva abituarsi alla luce e guardare le stelle e i colori. L’educazione era all’insegna della misura, tra cure amorevoli e giusta severità: i bambini crescevano direttamente negli ambienti degli adulti, in tutti gli strati sociali, e imparavano presto il loro ruolo nella società.

Ma nel Medioevo si parlò anche di sessualità e di rapporto tra uomo e donna nel contesto della fede. Il Padre della Chiesa Basilio affermò che l’uomo e la donna avevano pari dignità dinanzi a Dio, dal momento che entrambi partecipavano della resurrezione. Ildegarda osò spingersi oltre e parlò della connessione tra la sessualità umana e la creazione divina. Il filosofo e teologo Alberto Magno definì invece l’uomo un animale coniugale, ponendo in un certo senso la famiglia a fondamento dello Stato.

E dopo la nascita, il lavoro e la vita coniugale e molto altro, il Medioevo ebbe della morte una considerazione estremamente profonda, da non banalizzare in un’analisi superficiale del contemptu mundi. Gli uomini medievali si preoccuparono di definire l’arte di morire bene (ars moriendi): ognuno doveva prepararsi con buono spirito; la morte estingueva la prima natura e diventava garante della generazione della nuova natura (Paracelso). Certamente, il contatto ravvicinato con la morte influì molto su queste riflessioni, soprattutto all’indomani della peste nera, ma questa considerazione non ne attenua il valore. La sofferenza era accettata come parte della vita: essa era vista come una sfida per elevare se stessi, ma anche una prova per la collettività, a cui rispondere con un senso di solidarietà. Che peraltro non mancò mai in questa epoca. «La salute è un sentiero che si forma nel momento in cui lo si percorre. E solo dopo essersi messi in cammino, quest’esperienza ci permette, insieme a tutte le altre esperienze, di scorgere l’orizzonte» [24]. Poveri e malati rappresentavano il corpo mistico di Cristo e la medicina non fu che un sistema per esprimere una funzione religiosa, il servizio offerto agli ultimi.

Il termine terapia rimanda a questo concetto: derivato dal greco θεραπεία, esso indica il “processo che porta alla guarigione”, ovvero la “cura” e l’“assistenza”. Gesù fu così paragonato da Ildegarda al “grande medico”, colui che serve gli umili e ne esalta la potenza interiore. La terapia medica si affiancò all’ufficio ecclesiastico e questo era evidente per esempio negli ospedali laici di città, in cui un sacerdote era sempre preposto alla cura spirituale delle anime. Come su un piano fisico andavano assunti i farmaci e i giusti cibi per alimentare il corpo, così su un piano extrafisico la mente aveva diritto al proprio alimento spirituale. Senza contrasti, senza discrasie: cura del corpo e cura dell’anima erano due volti della stessa medaglia.

 

Anche dopo la caduta, l’uomo rimane al centro del cosmo e si avvia sulla strada della salvazione. Per sua stessa natura egli si trova in cammino insieme a tutto il mondo, in qualità di pellegrino e cercatore (in statu viatoris), al crocevia delle sue pene terrene (in quadrivio saecularium curarum), alla ricerca della sua misura, del centro, della meta, di un senso. Egli vuole riconquistare lo stato di grazia, la pace della salvezza; egli vuole essere «sano»! [25]

 

Ma con lo sviluppo della chirurgia, la Chiesa incominciò a limitare le attività pratiche del corpo ecclesiastico: vi era infatti una differenza tra il physicus, teorico della medicina e delle scienze naturali, e il medicus, che si occupava anche degli aspetti pratici. Nella mentalità della Chiesa il primo termine indicava un’attività più nobile, mentre il secondo si estese in termini pratici, aprendosi infine alla chirurgia.

Tra il XII e il XIII secolo, la Chiesa impose sempre ulteriori restrizioni al corpo ecclesiastico, culminando nei divieti di Gregorio IX (1227-1241). Alle porte dell’età “moderna”, il genio di Paracelso (1493-1541) funse da collegamento tra Medioevo e Rinascimento, nel definire la figura del medico: questi doveva affiancare la pratica alla teoria, ma soprattutto doveva proporre una rappresentazione morale di sé. Etica e metodo: due modi per declinare – ancora una volta – il rapporto tra corpo e spirito.


Nota: per la terza e ultima parte di questo articolo, con l'aggiunta della bibliografia, si veda qui. Su questo blog si trovano anche altri articoli di storia medievale, p. es. Il pellegrinaggio nel Medioevo (qui), Effetti e sviluppi delle crociate (qui), Il monachesimo e gli ordini cavallereschi in Friuli (qui). Per approfondire il tema della salute nel Medioevo, analizzo un caso specifico nel post L'eredità monastica in Friuli. Il valore della solidarietà nell'assistenza sanitaria (qui). Per un ulteriore confronto, si veda Oriente e Occidente. Filosofia e globalizzazione (qui).


[1] Dopotutto l’Eden era vegetariano (e i monaci aspiravano a quel modello di purezza) e Dio concesse a Noè di mangiare la carne solo perché colse la debolezza dell’uomo. Manichei e Catari furono vegetariani e il loro rapporto con questo ideale edenico non fu certo superficiale.

[2] M. Montanari, Alimentazione e cultura nel Medioevo, Laterza, Bari, 1988, p. 4.

[3] Ivi, p. 32.

[4] Non solo, nel Medioevo si affermò la consuetudine di offrire pranzi da parte dei vescovi. La pratica era tanto sentita che chi non la adempiva subiva reclami ufficiali.

[5] M. Montanari, Alimentazione e cultura…, op. cit., p. 65.

[6] Ivi, p. 77.

[7] Ivi, pp. 86-87. A p. 127 della stessa opera, l’Autore ricorda anche di una carestia avvenuta in Calabria nel 1058. L’importanza del pane era vitale a tal punto che la popolazione produsse il pane con farine ricavate dalla corteccia degli alberi e da altre fonti. A questo si aggiunse il consumo di carne fresca, che portò a infezioni intestinali e dissenteria.

[8] Ivi, p. 191.

[9] Lv 2, 13.

[10] Mc 9, 49-50.

[11] M. Montanari, Alimentazione e cultura…, op. cit., p. 184.

[12] Ivi, op. cit., p. 9.

[13] H. Schipperges, Il giardino della salute. La medicina nel Medioevo, Garzanti, Milano, 1988, p. 15.

[14] Ivi, p. 69.

[15] Vi erano dei giorni migliori per fare i salassi, individuati grazie all’interazione degli astri e dei segni zodiacali. Il salasso era praticato da più specialisti, anche in maniera “casalinga”, ma esisteva comunque una corporazione addetta alla flebotomia.

[16] H. Schipperges, Il giardino…, op. cit., p. 113.

[17] Anche in Occidente, nel periodo medievale, non mancarono pratiche alquanto insolite, legate più alla magia e molto meno ad un approccio empirico. In un antico libro di rimedi inglesi troviamo p. es.: «Certuni raccomandano contro il morso della vipera di pronunciare una parola: Faul; può renderlo innocuo. Contro il morso del serpente, se l’uomo saprà procurarsi e mangerà una scorza che cresce in paradiso, nessun veleno potrà danneggiarlo. Aggiunge chi ha scritto questo libro che la scorza la si è trovata di rado». Cit. in C.H. Haskins, La rinascita della scienza, in M. A. del Torre (a cura di), Interpretazioni del Medioevo, Il Mulino, Bologna, 1979, p. 265.

[18] 1 Sam 16, 23: «Quando dunque lo spirito sovrumano investiva Saul, Davide prendeva in mano la cetra e suonava: Saul si calmava e si sentiva meglio e lo spirito cattivo si ritirava da lui». Isidoro fu forse il primo in ambito cristiano a collegare musica e medicina. Ancora oggi, la musicoterapia studia questo legame.

[19] «Ciò che è in basso è come ciò che è in alto e ciò che è in alto è come ciò che è in basso per fare i miracoli di una sola cosa».

[20] P. es., Lanfranco da Milano fu uno dei più grandi chirurghi del XIII secolo, autore della Chirurgia magna (1296, dedicato a Filippo il Bello), ma egli riteneva che fosse meglio curare con le medicine che con la chirurgia. E quando era costretto a operare, Lanfranco si affidava a Dio: «Dovendo procedere in tal modo, chiedevo aiuto al Signore, ed Egli guidava la mia mano quasi fosse stata un suo strumento, salvando la maggior parte di coloro che altrimenti sarebbero senz’altro morti», in H. Schipperges, Il giardino…, op. cit., p. 117.

[21] La leggenda fa risalire la sua fondazione a quattro sapienti: un greco, un ebreo, un arabo e un cristiano. In particolare, per l’influenza cristiana, basti segnalare le relazioni tra Salerno e Montecassino e la presenza di un monastero benedettino nei pressi della città. Qui fu redatto il Regimen sanitatis Salernitanum, che facendo tesoro dell’apporto arabo introdusse in Occidente alcune fondamentali norme igieniche (celebri furono tra l’altro le terme di Salerno).

[22] H. Schipperges, Il giardino…, op. cit., p. 259.

[23] L’usanza di fasciare i bambini era già praticata nell’antica Grecia e serviva a garantire una crescita armonica dell’organismo, secondo alcuni passaggi talvolta complessi che posizionavano gli arti in maniera ottimale. La fasciatura dei bambini si protrasse almeno fino all’Ottocento, ma ne restano tracce consistenti anche nella prima metà del Novecento.

[24] H. Schipperges, Il giardino…, op. cit., p. 61.

[25] Ivi, p. 22.

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