Il monachesimo e gli ordini cavallereschi in Friuli. Parte I


Premessa

 

Questo articolo è uno studio dedicato al Friuli, che intende valorizzare la coscienza di un popolo, quello friulano, e dal particolarismo locale poter raccontare una storia più ampia, che aiuti in parte a cogliere come certi fenomeni (p. es. l’importanza del monachesimo, il conflitto tra Cristianesimo ideale e reale, il concetto di crociata) possano essersi inseriti in un contesto circoscritto.

Il Friuli, in questo senso, racconta la storia di martiri, santi e patriarchi che in nome del Dio cristiano hanno lottato per secoli contro le eresie e contro le ingerenze del potere temporale. E che, nonostante tutto, hanno subìto le influenze di una terra antica, abitata da tempi remoti: una terra dalla forte tradizione orale, in cui i miti e le leggende si tramandavano durante le feste e i riti precristiani e cristiani. Una terra silenziosa, almeno apparentemente, poiché raggomitolata nel proprio lavoro e nella propria piccola società.

Quando il Cristianesimo lambì le sue coste e i suoi confini, il Friuli era estremamente vivo: un luogo che non ha mai fatto della ricchezza materiale la sua forza, ma che ha sempre creduto nei valori fondanti di una sana società, dove la spiritualità e la solidarietà ricoprono il ruolo che a loro spetta. Sembrerebbe facile retorica, il racconto mitico di un passato idealizzato: eppure basta poco per scoprire quanta verità ci sia dietro quanto detto. Dalla fitta rete monastica al servizio dei bisognosi, fino al XX secolo, di fronte all’orgogliosa reazione al disastro del Vajont (1963) e al terremoto (1976), il popolo friulano ha sempre fatto la sua parte e spesso è stato ed è tuttora un modello per la Penisola.

Terra di confine, unitamente alla Venezia-Giulia, molti italiani hanno la tendenza a dimenticarsi della sua presenza: sembra che in Friuli non accada mai nulla, che gli eventi nazionali e internazionali lo attraversino con disinteresse, ma in realtà questo luogo agisce, coopera, si tramanda ricordi che ormai sempre più spesso non è più in grado di interpretare. È certamente una terra malinconica, ma mai triste; è all’apparenza estremamente dura verso le influenze esterne, ma una volta accolte è capace di reinterpretarle a modo proprio, facendo dell’esperienza e della sensibilità interiore le sue più grandi virtù. E non stupisce che proprio per esse, il Friuli di oggi appaia all’esterno come un luogo non ben caratterizzato. La risposta al problema risiede nella sua essenza primigenia, che dell’apparenza si fa scherno, per poter invece costruire dall’interno una solida società capace di affondare le sue radici nel cuore dell’esistenza.

 

L'area del foro romano di Aquileia


Dalle origini al Basso Medioevo

 

Ho circoscritto questo articolo al Medioevo e ai processi che lo hanno preceduto e seguito. Perciò partiremo dal IV secolo d.C., quando Aquileia era annoverata tra le città più importanti dell’Impero romano: la parentesi fu relativamente breve, poiché le invasioni barbariche del secolo successivo passarono spesso per il Nord-Est della penisola, mettendo l’area in seria difficoltà. All’indomani dell’invasione di Teodorico (489) e alla fondazione del Regno ostrogoto, il Friuli fu tormentato da tasse, carestie e scontri tra i barbari ariani e il fronte ortodosso. In questi primi secoli la fede fu alquanto combattuta e dibattuta, segno che il dialogo e lo scontro erano decisamente vivi. Nel 553 vi fu lo scisma dei Tre Capitoli: il vescovo di Aquileia Macedonio si oppose alle decisioni del concilio di Costantinopoli, presieduto da papa Vigilio, e fu seguito dal metropolita di Milano. Probabilmente, per garantire la stabilità regionale della nuova fede, il vescovo di Aquileia assunse il titolo di patriarca. La chiesa aquileiese aveva allora ottenuto già un certo peso in seguito allo stoicismo con cui i suoi rappresentanti avevano affrontato il martirio.

I primi martiri aquileiesi risalgono almeno al III secolo; ricordiamo tra i molti Ermacora, Ilario, Crisogono, Agape, Chione e Irene. Nel II secolo non mancò nemmeno un pontefice proveniente da questi luoghi, Pio I. Significativo per i successivi sviluppi aquileiesi è inoltre san Valeriano, vissuto nel IV secolo: vicinissimo al papa, al concilio di Aquileia del 381 combatté con forza l’Arianesimo; il successore, Cromazio, pose le basi spirituali per la costruzione della chiesa di Aquileia.

Ma un altro polo cristiano caratterizzò il Friuli di questi secoli, ovvero la chiesa di Concordia, una comunità attiva almeno dal III secolo, colpita duramente dalla persecuzione di Diocleziano nel 304. Tra le figure di spicco della comunità ricordiamo almeno Rufino Turranio, propriamente di Julia Concordia, che studiò a lungo e viaggiò anche a Roma e in Egitto. In quest’ultimo luogo fece esperienza da monaco nei deserti del Basso Egitto. Spostatosi in Palestina, conobbe la matrona romana Melania: insieme fondarono due monasteri a Gerusalemme e Rufino si dedicò alla cura dei pellegrini e agli studi. Il suo modello monacale fu ispirato a san Basilio. In stretto contatto con Girolamo, Paolino di Nola e altri, entrò in disaccordo con il primo, poiché Rufino voleva salvare quanto di buono vi fosse nelle dottrine di Origene, ritenute eretiche. Rufino non si lasciò intimidire e si fece portavoce di una via mediana, di fronte alle ottuse prese di posizione della curia romana. Ritornato nella penisola, trovò infine la morte, ma la sua attività fu fondamentale, per aver aperto all’Occidente la grande cultura spirituale e monastica dell’Oriente (tra le altre cose, tradusse la regola di Basilio). Vi sono poi altri santi che, pur non essendo locali, ebbero un’ampia diffusione in Friuli. Ancora oggi è possibile notare l’influenza di san Giorgio, Vigilio, Michele, Orsola e Martino, presenti in cicli di affreschi, nei nomi di chiese, vie e persino castelli e città.

 

La situazione politica mutò all’indomani della discesa in Italia di re Alboino, fondatore del Regno longobardo, diviso in ducati, il cui duca era a sua volta controllato da un gastaldo. In particolare, il ducato forogiuliese aveva capitale Cividale (Forum Julii). Finalmente, i dissidi tra ortodossi e ariani furono risolti dalla regina Teodolinda, con il contributo fondamentale di papa Gregorio Magno. Infine, nel 669, re Cuniperto ricompose lo scisma dei Tre Capitoli nel concilio di Pavia. Le separazioni, però, non erano ancora finite: nella chiesa aquileiese vi fu una nuova divisione tra la fazione filobizantina, con sede a Grado, e quella filolongobarda, con sede a Cividale. A parte questo, durante il regno longobardo il monachesimo conobbe una significativa diffusione, promossa proprio dal potere politico. Furono così fondate le abbazie di Sesto al Reghena, ad opera di due nobili fratelli longobardi, e di Salt di Povoletto, voluta dalla loro madre.

Il Regno longobardo cadde sotto i colpi dei Franchi, ma il ducato forogiuliese resistette ancora due anni. Tra l’836 e l’866, Everardo ottenne l’elevazione della contea al rango di marca, così Forum Julii diventò Civitas Austriae (Cividale). VIII e IX secolo furono momenti importanti per la regione, sia a livello cultuale, che economico e culturale. Le due dominazioni, longobarda e franca, gestirono al meglio la crescita di queste terre, che erano una sorta di avamposto contro le popolazioni barbariche e ponte di collegamento con i Bizantini. Il momento buio si scatenò a causa delle invasioni degli Ungari, che scesero nella penisola per ben dodici volte nel periodo 899-952: il Friuli si ridusse a Vastata Hungarorum. Solo nel 952 Enrico, duca di Baviera e Carinzia, li ricacciò definitivamente nelle loro terre e l’imperatore Ottone I gli concesse per questo la marca del Friuli. Iniziava così la fase della ricostruzione. Durante l’impero degli Ottoni la chiesa aquileiese fu favorita con privilegi e donazioni di terre, come ringraziamento per la fedeltà dimostrata alla corona. In questo periodo florido, i patriarchi posero le basi dello Stato patriarcale.

Dal regno longobardo a questo momento non mancarono esempi di santità, che coinvolsero anche la parte nobile dei conquistatori. Ricordo così Ratchis di Cividale, duca longobardo poi eletto re, costretto all’esilio e morto da benedettino a Montecassino. O ancora Paolo Diacono, anch’egli morto a Montecassino, dopo una vita dedicata agli studi e alla politica. Paolino di Aquileia, invece, operò soprattutto sotto il regno di Carlo Magno: è riconosciuto come il primo vero teologo della Chiesa latina in Italia, secondo solo a Gregorio Magno. Paolino si concentrò in particolare sulla formazione del clero, la rivitalizzazione della liturgia e la missione agli Àvari e agli Slavi. Infine, cito ancora Everardo, marchese del Friuli, sostenitore dell’imperatore Lotario. Partecipò alle azioni militari nell’Italia meridionale contro i Saraceni, e poi contro gli Slavi; inoltre, intrattenne molti rapporti con la cultura episcopale e monastica dell’epoca. Nel 1194 si ha notizia di una festa a lui dedicata e nel Duecento si parla delle sue reliquie.

Lo Stato patriarcale, o Patria del Friuli, nacque ufficialmente il 3 aprile 1077, allorché l’imperatore Enrico IV, nel contesto della lotta per le investiture, concesse al patriarca Sigeardo l’investitura feudale con prerogative ducali. Per tre secoli, questa unità territoriale fu la più vasta e compatta dell’Italia Settentrionale. Dal 1077 al 1251, i patriarchi – di nobiltà tedesca – perseguirono una politica filoimperiale, ghibellina: la rete viaria fu potenziata, i commerci incrementati, insieme agli scambi culturali con Tedeschi, Veneti e Provenzali. La sede patriarcale fu trasferita da Cividale a Udine, ma altri centri importanti furono Gemona (dove fu fondato il primo monastero francescano in regione), Venzone, Spilimbergo, San Daniele. Ma nel 1251 vi fu un cambiamento di rotta: pressato dai confinanti, il patriarca Bertoldo di Andechs strinse un’alleanza con i guelfi, forse alla luce di quanto accaduto con l’“eretico” Federico II. Dal 1251 al 1420, i patriarchi filopapali furono per lo più di origine italiana, ma l’autorità patriarcale era ormai sulla via del declino.

Nella seconda metà del Trecento si tentò di ridare prestigio ad Aquileia e al patriarcato, ma il processo di decadenza era ormai inesorabile: nel 1418, la Repubblica di San Marco invase il Friuli e due anni dopo pose fine alla sua indipendenza. In questi circa tre secoli segnalo solo alcuni dei numerosi santi friulani: Geroldo di Rosazzo, monaco dell’abbazia benedettina di Millstatt, nel 1090 fu inviato dal patriarca al monastero di Rosazzo, per sostituire i canonici regolari di sant’Agostino. Per il resto, in tutta la regione e fino all’Istria e alla Dalmazia, vi fu una grande diffusione dei Francescani, attirati da queste terre di “confine”, in cui si aprivano nuove vie alla predicazione. Tra di loro ricordiamo: Ottone da Pola, Monaldo da Capodistria, Odorico da Pordenone, Giuliano da Valle d’Istria.

In seguito all’occupazione veneziana, il patriarcato sopravvisse fino al 6 luglio 1751, quando Benedetto XIV lo soppresse con la bolla Iniuncta nobis. Diversamente, il patriarcato di Grado, la cui sede era stata spostata a Venezia già dal XII secolo, fu soppresso nel 1451 e al suo posto fu istituito il patriarcato di Venezia. In questi lunghi secoli vale la pena ricordare Marco d’Aviano, che il pontefice definì il taumaturgo del secolo: egli, tra le molte azioni, difese con le armi della fede la città di Vienna, assediata da oltre centocinquantamila Turchi. Molti furono poi i Gesuiti, partiti spesso per l’Estremo Oriente, tra cui: Basilio (Brollo) da Gemona; Giovanni Battista Messari di Gorizia; Tristano d’Attimis; Fulcherio di Spilimbergo.

 

L’influenza materiale e spirituale del monachesimo

 

Si è molto parlato della presenza benedettina in Friuli, che infatti fu predominante, ma altre furono le influenze prima e dopo la diffusione della regola di Benedetto. Ancora una volta, ad Aquileia – capoluogo della Venetia et Histria – si sviluppò una delle prime esperienze monastiche occidentali. Il vescovo san Valeriano (368-387) contribuì fortemente ad organizzare il monachesimo e fondò con ogni probabilità il Seminarium Aquileiense, istituto cristiano di natura ascetica, che essenzialmente preparava i funzionari ecclesiastici. Inoltre, esso fu uno strumento chiave per affrontare l’Arianesimo, che stava ottenendo un nutrito seguito in Illiria e Pannonia: qui si formarono importanti figure come Cromazio, Girolamo e Rufino.

Come in molte altre aree occidentali, anche in Friuli – nell’VIII secolo – la vita monastica conobbe una crescita significativa, in concomitanza (e grazie) alla diffusione della regola benedettina. Così i Longobardi favorirono le fondazioni dei monasteri, in una duplice prospettiva di devozione e calcolo politico, aspetti che non si escludevano a vicenda. Alla fine del secolo, il patriarca Paolino di Aquileia si fece promotore di questo cambiamento e il Friuli subì le influenze franche, dal momento che lo stesso Paolino ebbe molteplici contatti con il Regno franco e in particolare con Alcuino, abate di san Martino di Tours. Nel 791, organizzò anche un concilio provinciale a Cividale, per fare il punto della situazione in merito alle attività dei monasteri. Il patriarca non si limitò a questo: incentivò la penetrazione cristiana nel mondo slavo, attraverso lo strumento della persuasione, anziché con l’imposizione; promosse infine l’esenzione della giurisdizione ecclesiastica sui monasteri. Anche in Friuli, quindi, il monachesimo funse da avamposto e avanguardia della fede e della società, e certamente la posizione di terra di confine incoraggiò di per sé questo processo. Peraltro, non mancarono figure lungimiranti di patriarchi e abati, che espressero il loro estro su di una base già ben radicata sul territorio e che anzi ne costituiva il centro nevralgico.

Questo quadro di una società fiorente, sebbene politicamente decentrata, subì un brusco colpo con le invasioni degli Ungari. Le loro devastazioni e razzie si concentrarono ovviamente sui centri più floridi e fu così che innumerevoli abbazie, prima tra tutte quella di Sesto al Reghena, furono rase al suolo. Per non parlare della distruzione di intere diocesi, come avvenuto nel caso di Concordia. Eliminata però la minaccia con la dinastia ottoniana, il riassetto politico fu inevitabile: la marca friulana fu assorbita in quella veronese, per poi essere assoggettata – come detto – al ducato di Carinzia (989). Sotto gli episcopati di Rodoaldo e Giovanni di Ravenna, il patriarcato di Aquileia e la diocesi di Concordia – con il sostegno del potere laico – si adoperarono per la ricostruzione. Ottone I donò i resti dell’abbazia di Sesto, possedimenti inclusi, a Rodoaldo (967), costituendo le basi del principato ecclesiastico di Aquileia. Agli inizi del XII secolo, la rinascita benedettina in regione poteva dirsi conclusa: Rosazzo, Moggio, Millstatt (Carinzia) e Arnoldstein sono solo alcune delle realtà monastiche più rilevanti.

 

Ma tra XII e XIII secolo, gli ordini militari prima e gli ordini mendicanti poi crebbero spesso a discapito della presenza benedettina, che aveva accolto ma circoscritto la precedente ondata riformista cistercense e cluniacense. In ogni caso, però, con la mutata sensibilità a cavallo tra XIII e XIV secolo, anche in merito a tematiche spirituali, il monachesimo friulano si avviò sulla strada di un lento ma deciso declino, in cui accanto alla minore partecipazione popolare e nobiliare si affiancò un certo lassismo da parte degli stessi monaci. In merito alla presenza benedettina, questa sopravvisse fino al Settecento, per poi scomparire nel silenzio senza particolari rimpianti. Eppure, così tanto diedero alla società friulana, a tal punto da esaltarne l’indole caritativa e la dedizione al lavoro della terra e per la terra. È difficile dire se furono proprio i monaci a creare questa coscienza o se essa era già parte della collettività. Certamente, anche prima del Cristianesimo e forse persino prima dell’arrivo dei Romani esistette un patrimonio comune, fatto di leggende, costumi, condivisione di medesime tecniche produttive e via discorrendo, ma l’impatto del monachesimo in Friuli fu qualcosa di ancora più potente e caratterizzante. Esso non solo aprì alla regione le porte per un nuovo modo di vivere lo spirito, ma rese inoltre possibile uno scambio di conoscenze pratiche, tecniche, culturali e cultuali, che spesso filtravano in questi luoghi proprio grazie a modelli di vita, prima rappresentati da martiri e eremiti, poi da personalità come Rufino, che resero possibile una connessione senza precedenti con l’Oriente. Infine, arrivò la regola benedettina, in qualche maniera sintesi dell’esperienza monastica occidentale, con radici profonde nell’Oriente cristiano (si pensi almeno a Basilio e a Pacomio).

Con i Benedettini, il Friuli cambiò volto e almeno due furono le direzioni dello sviluppo, che nel corso dei secoli si tradussero in una progredita etica del lavoro e in una pietas che definiremo “societaria”, poiché coinvolse tanto i ricchi quanto i poveri. La chiave di lettura per leggere questi due processi richiede di non separarli mai l’uno dall’altro, dal momento che insieme definiscono appunto l’identità friulana. Ed è così che non ho remore nell’affermare che ancora oggi tale identità conservi le sue origini nel monachesimo.

I monaci, nati per una volontà di rinuncia al mondo, lo hanno invece segnato nel profondo, sia nelle forme occidentali che in quelle estremo orientali, di cui qui non ho che accennato. Grazie a loro, una parte del patrimonio culturale antico è stato tramandato, pur nei rimaneggiamenti e nella ricontestualizzazione in seno al Cristianesimo. Custodi del sapere, hanno tramandato anche la storia: questo può sembrare antitetico rispetto alla loro vocazione. In realtà, considerando il valore che la storia possiede nell’immaginario ebraico, è più facile comprendere come essa fu analizzata nel suo aspetto di rivelazione divina. La storia era dunque per loro magistra vitae, ma non più in un senso filosofico, quanto mistico-esistenziale.

In Friuli, la storiografia fu meno presente in àmbito monastico, ma sarebbe riduttivo affermare che fu completamente assente o di scarsa importanza, a patto però di estendere quello che è il nostro concetto di storia, che soprattutto nell’Alto Medioevo si mescolava ad altri modelli, dall’agiografia alla cronaca, dal racconto mitico alla più fredda catalogazione. Tutto ciò rappresenta la Storia del Friuli di allora, in cui l’elemento eccezionale o l’interesse per la palingenesi danno la misura di un modo di vivere meno rigido e codificato, più acuto rispetto alle sfumature e al messaggio complessivo. Secondo le ricerche di R. Härtel, l’unica opera benedettina propriamente storiografica, redatta in Friuli nel Medioevo, sarebbe la cronachetta di Ossalco, che narra episodi dell’ospedale di sant’Egidio e dell’abbazia di Rosazzo, tra il XIII e il XIV secolo. In seguito, sulla scia del riformismo monastico del XII secolo, che voleva accentuare l’indipendenza della Chiesa dal potere laico, furono scritti molti testi riguardanti le diverse fondazioni monastiche, quale conferma dei privilegi ottenuti. D’altra parte, questa tendenza era anche legata, in àmbito benedettino, all’arrivo degli ordini riformati e poi dei mendicanti, per cui anziché creare una distanza dalla nobiltà laica, se ne riaffermarono gli intimi legami plurisecolari.

Per quanto poco si parli di eventi storici, locali e non, la stretta unione di nobili e ecclesiastici fu una costante sin dall’Alto Medioevo. In quel periodo si formò il sistema delle pievi; le abbazie crearono una rete che favorì lo sviluppo economico e spirituale. Questo sistema fu messo a rischio dagli Ungari, ma durante la ricostruzione fu subito riorganizzato. In questo modo, le abbazie funsero da intermediarie tra la popolazione e il potere centrale, con una grande capacità “contrattuale” data appunto dall’influenza sulla massa dei lavoratori. Anche per questo, con il passare dei secoli, la fondazione di monasteri, tutelata per varie ragioni dagli imperatori, si tradusse in uno strumento di controllo da parte dei patriarchi. Tanto era il peso dei monasteri friulani, che essi compaiono nel Parlamento come terzo membro accanto alla nobiltà e ai rappresentanti delle comunità.

Gli abati amministravano la giustizia, giuravano fedeltà al patriarca di Aquileia, riscuotevano le decime, oltre alle varie entrate interne al sistema-monastero. Costituirono, in definitiva, una vera e propria signoria feudale. Alla lunga, questa aderenza marcata al potere temporale, unita ad un diverso atteggiamento nei confronti della Chiesa, portò il monachesimo friulano in crisi, a partire dal XII secolo, in anticipo rispetto ad altre aree peninsulari in cui gli interessi papali erano più marcati delle istanze particolaristiche. Nel frattempo, il patriarcato non godeva più dello stesso prestigio: Treviso cominciò seriamente a minacciarne i confini; Venezia continuò a crescere senza freni, limitando la possibilità di espansione commerciale via mare; l’autorità imperiale era messa in forte discussione e la nuova tendenza neutrale, quando non apertamente filopapale, minò la sicurezza del patriarcato. Questo si ritrovò a dover gestire la propria sopravvivenza, rispondendo anche alle pretese interne dei laici e ad un indebolimento della posizione giuridica e istituzionale dei monasteri. In risposta a queste problematiche, il patriarca Wolfger di Erla (1204-1218) indirizzò la politica del patriarcato a favore delle fondazioni e del sostegno degli ordini monastico-cavallereschi.


Nota: per la seconda e ultima parte di questo articolo, con l'aggiunta della bibliografia, si veda qui. Su questo blog si trova anche un altro articolo di storia locale del Friuli (e dintorni), dal titolo Napoleone tra Veneto e Friuli. L'eco della Rivoluzione (qui).

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