Il monachesimo e gli ordini cavallereschi in Friuli. Parte II


Per la prima parte, si veda qui.


L'abbazia di Sesto al Reghena

 

Gli ordini militari. I Templari nel contesto italiano e in Friuli

 

Significativamente, uno dei motivi che condussero alle crociate fu la volontà papale di imporsi come unico potere politico e spirituale di fronte all’Oriente scismatico, ma anche rispetto a entità pericolose come il patriarcato di Aquileia (chiaramente, Aquileia non era tanto pericolosa militarmente, quanto per il ruolo di “territorio cuscinetto” tra la penisola e l’Impero). Pur con molti limiti, alla fine gli ordini militari riuscirono a penetrare anche in Friuli. Da un lato, la loro fedeltà al pontefice li rendeva un ottimo deterrente dinanzi alle eventuali aspirazioni indipendentiste; dall’altro – come detto qui – il patriarca stesso ebbe bisogno della loro presenza, per gestire un territorio che non stava solo allontanandosi dall’autarchia patriarcale, ma era ormai cambiato in molti settori. Così la rete viaria si era espansa; erano sorti ospizi, nosocomi, lazzaretti; l’economia si era ripresa dalle devastazioni ungare e molto lavoro era stato fatto per garantire passaggi più sicuri. Gli ordini militari servirono dunque a gestire, oppure semplicemente a supervisionare tutti questi affari: essi mantennero praticabili le vie di comunicazione; si applicarono nel settore assistenziale, apportando significativi cambiamenti nelle metodologie di cura, nell’alimentazione e in altri settori, tra cui l’edilizia. Come era stato per il monachesimo benedettino, così gli ordini militari resero efficace l’approfondimento di una sensibilità solidale.

Nella penisola italica questo fu lo scenario; nel dettaglio, la presenza templare fiorì tra gli anni Trenta e Sessanta del 1100, favorita soprattutto dalle fondamenta costruite da san Bernardo. Il suo sostegno ad Innocenzo II contro l’antipapa Anacleto II, per esempio, contribuì non poco all’emanazione della Omne datum optimum. La penisola ebbe due province templari: la Lombardia, che comprendeva le regioni centro-settentrionali e la Sardegna, e la Puglia, con le regioni meridionali, Sicilia inclusa. Ciò rispondeva chiaramente al frammentato scenario politico italiano, ma è comunque probabile che in seguito la penisola prevedesse un unico “maestro”. Con ogni probabilità, il Friuli era comunque al di fuori di queste suddivisioni e si rivolgeva piuttosto all’area tedesca. Le donazioni che permisero all’Ordine di crescere riguardarono non solo la cessione di terreni, «ma anche in alcuni diritti feudali, quali i diritti di fienagione, di pascolo, di taglio dei boschi, di pedaggio, di traghetto, di pesca, di caccia, di uso dei mulini, eccetera» (B. Capone, L. Imperio, E. Valentini, Guida all’Italia dei Templari, Edizioni Mediterranee, Roma, 1989, p. 17).

In Italia, la fitta rete stradale di origine romana permise ai Templari di svolgere al meglio l’opera di difesa dei pellegrini e ogni altra attività:

 

Li troviamo, dunque, sulle grandi arterie consolari romane, allora ancora in uso: la Francigena o Romea con le sue diramazioni, che dalla Francia raggiungeva Roma, ricalcando tratti della Cassia, dell’Emilia, ecc.; la litorale Aurelia, che arrivava anch’essa a Roma; l’Ongaresca, che in alcuni punti sfruttava la Claudia Augusta e le strade del Norico; l’Appia, che conduceva all’importantissimo porto crociato di Brindisi. Merita una menzione particolare la Postumia, sia per l’alto numero di insediamenti templari su di essa stanziati, sia per una sua importante caratteristica, quella di essere la sola strada che, attraversando l’Italia settentrionale da ovest ad est, consentiva di raggiungere i porti d’imbarco, e di proseguire il viaggio via terra, lungo la penisola balcanica fino a Gerusalemme. (Ivi, p. 23)

 

In merito a Veneto e Friuli, gli insediamenti erano concentrati soprattutto a Treviso e Venezia, ma altri centri nevralgici videro la presenza templare. Per esempio a Vicenza, che si trovava al bivio tra la via Postumia e la strada che portava a Padova, che a sua volta rappresentava «una stazione di smistamento, che accoglieva crociati e pellegrini in attesa di imbarcarsi per Venezia o di continuare il viaggio verso gli altri porti nell’Adriatico, scendendo per la via Emilia e Popilia» (Ivi, p. 77). La precettoria era inoltre su una delle strade che conducevano ad Aquileia. Treviso, invece, era vicino tanto alla Postumia quanto all’Ongaresca; centro politicamente influente, poteva fungere da luogo di transito tra Venezia e il Friuli. Un’altra precettoria importantissima e oggi ancora in parte visibile nel suo splendore si trovava a Tempio di Ormelle: essa era vicina alla via Tridentina, che collegava Trento e Oderzo, alla Postumia, all’Annia, alla Julia Augusta e alla Claudia. Vicina al fiume Lia, allora navigabile, che dal Navisego entrava nel Livenza nei pressi di Oderzo, per poi scendere fino al mare.

La presenza friulana era invece meno radicata, anche per l’influenza dei cavalieri teutonici, ma comunque importante. L’unica certezza documentale che si possiede riguarda la casa di San Quirino, di cui parleremo a breve. Incerta l’appartenenza di San Giovanni del Tempio, vicino a Sacile, in epoca templare noto come San Leonardo dei Camolli. Questo luogo era vicino alle vie Pedrada, Postumia, Ongaresca; controllava i passaggi sui fiumi Paisa e Livenza; infine, erano presenti alcune importanti fiere, che portavano ricchezza e lavoro in questa zona. L’unica certezza per l’epoca medievale è che, con lo scioglimento dell’Ordine templare, la sede risultò di proprietà degli Ospitalieri. Discorso diverso per la precettoria di Maron di Brugnera di Porcia, al tempo Sant’Angelo di Porcia, che si trovava sul tragitto della Postumia Alta. Qui, nel 1225, la famiglia dei Porcia fondò una sede a conduzione familiare, controllata dal patriarca di Aquileia.

Incerta anche la fondazione della nobile famiglia da Prata, che nel XII secolo istituì un ospizio per pellegrini con chiese, cimitero e convento; forse ne affidarono ai Templari la gestione, conservando lo juspatronato. Le due chiese erano dedicate a san Giovanni dei Cavalieri e ai santi Simone e Giuda. Ad ogni modo, anche Prata si trovava in una posizione strategica, controllando il guado del Meduna e il passaggio per l’Alta Postumia. Altri furono probabilmente gli insediamenti templari, di cui però non rimangono che flebili tracce a causa della damnatio memoriae provocata dai persecutori e dal tempo irrefrenabile. Si può quindi supporre una presenza a Cividale, Campolongo al Torce, Duino, san Giovanni in Tuba e Aquileia. Soprattutto in quest’ultima città dovette almeno esserci, se non una precettoria, almeno una sede per la gestione degli affari e lo scambio commerciale. La città era inoltre visitata da molti pellegrini: l’itinerario di Bordeaux li faceva passare per il porto di Aquileia, per poi proseguire per via di terra, attraverso i Balcani e Costantinopoli.

 

Nel corso del Duecento, i Templari raggiunsero l’apice del loro potere e talvolta agirono anche in maniera perentoria. Se in certi casi si può parlare di orgoglio e arroganza, questo è imputabile all’espansione dell’Ordine e al fatto che esso accolse tra le sue fila anche opportunisti, pronti a tradire la confraternita in seguito all’espulsione. Si parla così di un templare omicida nel 1257, a Ventimiglia, o dell’episodio del castello-convento di Gardeny, in Spagna, dove vi fu un caso eclatante di concubinato che coinvolse alcuni Templari. Furono casi isolati, ma che minarono il prestigio del Tempio, poiché la rinuncia alle migliori azioni e alle virtù comporta sempre le peggiori cadute, quando avviene un abbandono sconsiderato ai vizi. Ma non si trattò solo di questo: bisogna tenere in considerazione anche la precaria – o inconsistente – presenza del potere politico cristiano in alcuni luoghi, sempre più minacciato da quella presa di coscienza laica diffusasi soprattutto nelle città. Se in passato i monaci ebbero quasi l’esclusiva sul potere locale, di fronte a rimostranze civili o ad aperti dissidi, l’unica vera minaccia provenne dalla frangia armata del monachesimo, meno incline ai calcoli politici, per quanto i vertici facessero delle relazioni politiche un punto di forza.

È ben noto il trattamento riservato ai Templari durante la persecuzione: nel meridione d’Italia, per la forte influenza francese, i processi furono presenti, con documenti interessanti riguardanti Brindisi, snodo importante per le comunicazioni con l’Oriente. Così al Centro, sia per la presenza della Santa Sede che per gli interessi economici fiorentini e non solo. Invece, al Nord – intendendo nello specifico la Lombardia, il Veneto, la Romagna e l’Istria – sembra che la situazione si presentasse più moderata, al punto che l’arcivescovo di Ravenna assolse i Templari. Nel Nord-Est non risultano arresti, per cui si può pensare ad un passaggio “pacifico”. Oltretutto Ottobuono di Razzi, patriarca di Aquileia (1302-15), al concilio di Vienne fu a capo di una commissione per valutare la situazione dei Templari. Egli si schierò dalla loro parte, ma fu inutile. Ottobuono aveva appena raggiunto una tregua nella lotta contro la minaccia trevigiana, rappresentata dal condottiero Rizzardo II da Camino. La sua valutazione dovette avere certamente a che fare sia con interessi locali che di più ampio respiro, dal momento che alla morte di Clemente V si diresse ad Avignone, quale candidato al soglio pontificio. La morte, tuttavia, lo colse durante il tragitto. Calcolo politico, utilitarismo o reale sentimento: questo non è dato saperlo, ma rimane ugualmente l’ulteriore dato a favore dei Templari da parte di un patriarca.

 

La Maison di San Quirino

 

San Quirino apparteneva alla corte di Naone, un complesso amministrativo di proprietà regia già a partire dall’897. Nella fase di ricostruzione seguita alle incursioni ungare, nel 1028 la corte passò alla stirpe bavarese del nobile Ocino, fratello di Poppone, patriarca di Aquileia. Nella prima metà del XII secolo, la proprietà passò nelle mani dei marchesi stiriani Traungau: a San Quirino e nel pordenonese, in questo periodo, si sentì quindi l’esigenza di una regolarizzazione dei confini. Leopoldo VI richiese un documento che attestasse la delimitazione, alla luce del suo interesse nell’acquisizione di Pordenone, dopo il 1221, e di altri feudi di proprietà patriarcale.

Parlare della presenza templare a San Quirino, in provincia di Pordenone, non è per niente semplice, poiché rimane ad oggi un unico documento che ne attesti la presenza, specificando quali fossero i confini della cosiddetta Maison. Il termine francese deriva dal latino mansio, che in età imperiale indicava un luogo di sosta, utilizzato soprattutto dai funzionari statali. La sede di San Quirino, infatti, non dovette allontanarsi molto da questa funzione di luogo di passaggio, pur prevedendo strutture produttive e di accoglienza non occasionali. Certamente non avvennero capitoli di cavalieri, i quali è probabile che non fossero presenti sul territorio in modo permanente. Come accadeva in Oriente, infatti, è più facile considerare che a San Quirino furono presenti sergenti, scudieri e personale di servizio, limitando alle prime due categorie gli eventuali “capitoli” inerenti a questioni pratiche. La funzione di questa casa fu quindi strategica, posta su un territorio che si volgeva tanto ai Paesi balcanici quanto a quelli nordici. Oltre a questo, a San Quirino si lavorò la terra, forse ci si dedicò anche all’artigianato, il tutto per sostenere come di consueto i fratelli in Terra Santa.

Il documento a disposizione attesta che il 10 novembre 1218 un gruppo di Templari, insieme ad altri personaggi, si radunarono a Rove e Rori, fra la vecchia e la nuova strada che conduce da San Quirino a Pordenone, per riconoscere la delimitazione dei confini dai paesi limitrofi, come Cordenons e San Foca. Il testo descrive elementi naturali presumibilmente riconoscibili e immutabili, oltre alla conferma della donazione della Maison da parte del duca Ottocaro di Stiria, pro remedio animae suae. L’antica sede prevedeva non solo la casa del commendatore o di un suo sostituto, ma anche una serie di altri edifici. Sicuramente la chiesa, poi un ospizio, una stalla o scuderia, gli edifici collegati ai campi, dove poter conservare gli attrezzi e la produzione. E almeno una rudimentale costruzione dedicata all’infermeria. Forse un mulino, elemento chiave e fonte di guadagno per chi lo possedeva, era già presente in epoca templare. Le deduzioni si basano sui documenti successivi, del periodo giovannita: a quel tempo l’intero complesso risultava circondato da un muro, quindi si trovavano i campi, a loro volta recintati. Il borgo circostante dipendeva sempre dalla casa ed era costituito per lo più dalla manodopera laica e dalle relative famiglie.

L’importanza di San Quirino si legò soprattutto al periodo in cui i crociati passarono attraverso i Balcani, giungendo da Germania, Svizzera e Francia. Anche in quelle crociate in cui si utilizzò la via di mare, comunque, non mancarono i pellegrini e i combattenti che scelsero la via di terra per le ragioni più diverse, da quelle economiche a quelle di tipo devozionale. San Quirino si trovava infatti nei pressi di una diramazione della via Postumia.

Quando l’Ordine del Tempio fu sciolto, la casa friulana passò agli Ospitalieri, che istituirono una precettoria ed edificarono una chiesa dedicata a san Giovanni Battista. Successivamente i beni dei due ordini passarono alla famiglia Cattaneo e in parte al cardinale Pietro Ottoboni, papa nel 1689 col nome di Alessandro VIII, noto per il suo nepotismo e per le ingenti ricchezze (No xe casa a Pordenon che no sia de Otobon). Oggi, dell’antica sede templare non resta quasi più traccia: saccheggiata e incendiata dai Turchi il 30 settembre 1499, la parrocchia fu svuotata, ma ugualmente rasa al suolo dai razziatori. Ad oggi non resta che qualche parete in pietra, probabilmente l’antico nucleo amministrativo del centro. Una lapide commemorativa e la riproduzione di alcune croci templari ne ricordano l’origine. Il comune, nel corso dei decenni, ha comunque spinto per una valorizzazione di questa appartenenza, con eventi dedicati, dalle mostre alle feste paesane. Entrando nei confini cittadini si legge “San Quirino – Terra dei Templari” e il simbolo del comune, pur con alcune imperfezioni, intende riprodurre il più famoso sigillo del Tempio, quello dei due cavalieri su un solo cavallo. Simbolo di povertà, o meglio, di umiltà; simbolo del dualismo tra bene e male e di molto altro ancora per questo comune, simbolo del rapporto biunivoco tra passato e presente.

 

Il valore della solidarietà. L’eredità monastica e templare in Friuli

 

L’assistenza e la cura dei malati è testimoniata già nelle antiche civiltà, come quella egizia, in cui “medicina” e magia si mescolavano per garantire la salute al paziente. A loro volta i Greci e i Romani svilupparono un sistema assistenziale, che ruotava intorno ad alcuni centri come Ravenna. Con la caduta dell’Impero, però, le notizie in merito all’assistenza medica si riducono fino al silenzio, finché, con l’avvento dei Longobardi, si ricomincia a parlare con una certa regolarità di luoghi di cura (importantissima in tal senso fu Cividale). La vera svolta, anche in questo caso, giunse con i Carolingi, o meglio, con la diffusione dei monasteri benedettini. L’avvento delle crociate, alcuni secoli dopo, non fece che incentivare la creazione di ospizi, ospedali, alberghi, taverne e altre strutture di accoglienza. A lungo andare, anche le confraternite di mestiere (per esempio i sarti o i pellicciai) fecero a gara per offrire servizi assistenziali: tra loro, i cosiddetti Battuti, appartenenti a diverse confraternite laiche, facevano opera di beneficienza e al contempo si auto-flagellavano come segno di penitenza.

Il Friuli fu luogo di passaggio soprattutto nelle prime spedizioni crociate e vide passare per le sue terre personaggi come Raimondo di Tolosa e Ademaro, vescovo di Puy. In un secondo momento, invece, si preferì la via marittima, che partiva dai porti di Aquileia, Latisana, Portogruaro e Trieste. Lo studioso Altàn ricorda inoltre alcuni dei nobili friulani che parteciparono alle crociate: Recindo di Strassoldo militò sotto l’imperatore Federico Barbarossa nel 1189, morendo fra la Cilicia e l’Armenia; vi furono poi i Caporiacco, signori di Zuino e Porpetto; i Cerclaria di San Gallo e molti altri. Non ultimo, il patriarca Wolfger di Ellenbrechtskirchen (1204-1218), che in qualità di vescovo di Passau raggiunse la Terra Santa con l’imperatore: intrattenne buone relazioni con i Mussulmani, con l’intenzione di riuscire a liberare i prigionieri e gli schiavi cristiani. Nel 1218, con le insegne di Federico, conte di Ortemburgo sotto l’armata del re ungherese Andrea, praticamente ogni nobile famiglia friulana poteva vantare almeno un parente lontano che aveva partecipato ad una crociata. Ciò creò una certa rispettabilità nei loro confronti e contribuì a rafforzare l’identità locale. Sono gli anni, non a caso, in cui ad Aquileia si riprodusse il Santo Sepolcro, così come avveniva nel resto d’Europa.

In questo periodo il Friuli, per la sua posizione strategica, fu attraversato da Nord a Sud (si pensi all’importanza del Tagliamento) e da Ovest ad Est, sopra e sotto la linea delle risorgive. Nell’arco alpino i passi principali furono due, quello di Monte Croce Carnico-Plöckenpass e quello di Tarvisio-Coccau. Il primo interessava le relazioni con Tirolo e Baviera, il secondo con l’Austria interna, Stiria e Carinzia. Influenzato dagli ordini monastico-cavallereschi, l’Ordine di Santo Spirito in Sassia, fondato da Guido di Montpellier per l’assistenza agli infermi e agli indigenti, fu attivo in Friuli. Riconosciuto nel 1198 da Innocenzo III, assunse la regola agostiniana e rispose al problema dell’accoglienza insieme agli altri ordini monastici. L’Ordine di Santo Spirito fu quindi presente ad Ospedaletto (presso Gemona), nell’area di Tolmezzo, Cividale, Gorizia, Udine, Fiumicello (presso Cervignano). Anche l’Ordine di San Lazzaro fece la sua parte sul territorio: pare avesse sedi a Portogruaro, Udine, Cividale, Levrons (significativo il nome, legato a “lebbroso”) e Aquileia. In questo caso, il rischio è di compiere errate attribuzioni, poiché si sviluppò la tendenza a dare il nome di “lazzaretto” ad ogni luogo di isolamento delle malattie infettive, incluse quelle strutture che nulla avevano a che fare con l’Ordine di San Lazzaro.

Come già accennato, dal Duecento le associazioni laiche e artigiane fondarono confraternite che resero più sistematica l’assistenza ai bisognosi, pur mantenendo una imprescindibile vocazione religiosa. Oltre all’Ordine di Santo Spirito, l’Ordine di sant’Antonio Abate (l’eremita) nacque per gli ammalati di ergotismo. Fondato già alla fine dell’XI secolo da Gastone, signore di Vienne nel Delfinato, e approvato da Urbano II, dovette attendere il 1218 per la conferma di Onorio III. Infine, Bonifacio VIII riorganizzò la confraternita, che assunse il nome di Canonici regolari di Sant’Antonio di Vienne (Bolla Ad apostolicae dignitatis, 1297). Come i Lazzariti, la confraternita fu influenzata dagli ordini militari.

Anche grazie all’attività di questi gruppi, tra il XII e il XVI secolo, ad Udine vi fu una crescita dell’assistenza pubblica: i medici condotti e stipendiati furono sempre di più e con il passare del tempo crebbe il loro prestigio, tanto che se ne fece richiesta anche in altre città, come Monfalcone, Gorizia, Lubiana e Venezia. Nel momento in cui la spiritualità laica prese il sopravvento, ospedali e confraternite finirono per confondersi. La confraternita del Sacramento nacque proprio ad Udine alla fine del XIII secolo: proponeva agli iscritti il culto del sacramento eucaristico; promuoveva la carità e l’attività culturale. Nati in seno ai Domenicani, nel 1496 se ne staccarono, formulando dei propri statuti. La confraternita dei Battuti, invece, accentuò la devozione alla Madonna, alla quale intitolarono molte chiese, nella volontà di ristabilire un rapporto più sentito con la madre di Cristo. Furono infine i Francescani a proporre il “Monte di Pietà”, un’istituzione finanziaria senza scopo di lucro, che favorendo il microcredito venne incontro ai bisogni delle persone in difficoltà. In regione, tra Duecento e Quattrocento gli operatori toscani (fino al 1450, quando i Veneziani li espulsero), lombardi e soprattutto ebrei ebbero un ruolo determinante.

L’“ospedale”, inteso come luogo di ricovero e di cura, esistette già nell’antichità, ma fu grazie al Cristianesimo che si introdusse l’elemento caratteristico della pietas. L’ospedale come lo intendiamo oggi nacque dalla commistione di elementi etici dell’antichità greco-romana e dalla forza propulsiva del monachesimo benedettino. Inizialmente, la struttura non era altro che un hospitium con annessa l’infermeria, che poi si ingrandì in foresteria per accogliere sempre più viandanti. Dall’iconografia vediamo letti con pagliericcio, sottili lenzuola probabilmente di lino, pasti contenuti, ma comunque sufficienti a sfamare. Dal X secolo, con l’aumento dei pellegrinaggi e con una maggiore mobilità commerciale, gli ospedali si diffusero capillarmente in regione. Ho ricordato monaci, monaci-guerrieri e confraternite laiche e riformiste: cito dunque alcuni antichi ospedali che furono l’avanguardia della solidarietà friulana.

Partiamo da San Tomaso di Maiano: qui esisteva la commenda di san Giovanni di Susans, risalente al 1199, che prevedeva un ospedale, la casa del priore, la chiesa, le mura e forse una stalla. Bene organizzato anche l’ospizio-ospedale di San Daniele, del XIII secolo, gestito dall’Ordine di Sant’Antonio Abate. A Spilimbergo, invece, esistevano due ospedali dedicati a san Giovanni: l’uno era precedente al Trecento; l’altro del XIV secolo, appartenente ai Battuti. Questa confraternita ebbe anche un ospedale a San Vito al Tagliamento, nel XIV secolo, mentre a Pordenone si parla di un ospedale nel 1319, ma la fondazione dev’essere di molto precedente.

All’inizio del Duecento, il patriarca Wolfger fondò un ospedale a San Nicolò di Levata, o di Ruda, organizzando inoltre la manutenzione e la difesa della strada che congiungeva Aquileia e Cividale. Nel 1249 il priorato dell’ospedale fu affidato agli Ospitalieri, che si occuparono della difesa della strada, supervisionando la manodopera addetta alla manutenzione. Ad Aquileia, invece, ricordiamo l’ospedale di sant’Ilario e Taziano, forse risalente all’XI secolo. Fuori le porte, poi, esistette un lebbrosario dedicato a sant’Egidio. Avamposto del patriarcato di Aquileia, la città di Pontebba ospitò un lazzaretto, le cui fonti risalgono però agli inizi del XVII secolo: la città era importante poiché da qui passavano spesso le merci di contrabbando e si avvertì la necessità di introdurre regolari certificati sanitari. Anche Tolmezzo si trovò al centro di strade, corsi d’acqua e montagne di grande valore strategico: sebbene è intuibile la presenza di un antico ospedale, il primo centro noto risale al XIV secolo e si trattava di un ricovero della confraternita di sant’Antonio.

Molto più antico, invece, lo xenodochio di Cividale, fondato nel VII secolo dal duca Rodualdo e dedicato a san Giovanni: esso si può forse considerare il primo esempio di ospedale cristiano in Friuli. Ma la vera svolta in àmbito sanitario fu compiuta dalla città di Udine, che alla fine del Medioevo emerse come il più importante centro politico dell’area. Nel XVII secolo si segnalavano ben tredici ospedali: tre derivavano da confraternite di mestiere (Calzolai, Fabbri, Pellicciai); due da confraternite nazionali (Slavi nell’XI secolo, Alemanni nel XV); almeno due collegati a monasteri (Santa Lucia, San Gervasio), etc. Non poteva ovviamente mancare un ospedale di san Lazzaro, lebbrosario restaurato dal patriarca Pellegrino II già a cavallo tra XII e XIII secolo (perciò la sua fondazione è antecedente).

La portata di questo sistema, che dal monastero si spostò agli ospedali cittadini, è difficilmente comprensibile oggi, poiché la sua progressione si è svolta per piccoli passi, secolo dopo secolo, fortificando il senso di appartenenza del popolo friulano, nonché la sua capacità di essere tanto accogliente quanto intransigente, tanto pragmatico quanto idealista. Indagando la storia friulana è dunque possibile osservare come il monachesimo abbia influenzato un’identità specifica, al punto da essere riconoscibile ancora nel presente, benché in forme nuove e apparentemente irriconoscibili.


Nota: per la prima parte di questo articolo si veda qui. Su questo blog si trova anche un altro articolo di storia locale del Friuli (e dintorni), dal titolo Napoleone tra Veneto e Friuli. L'eco della Rivoluzione (qui).

 

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