Il monachesimo e gli ordini cavallereschi in Friuli. Parte II
L'abbazia di Sesto al Reghena |
Gli ordini militari. I Templari nel contesto italiano e in Friuli
Significativamente,
uno dei motivi che condussero alle crociate fu la volontà papale di imporsi
come unico potere politico e spirituale di fronte all’Oriente scismatico, ma
anche rispetto a entità pericolose come il patriarcato di Aquileia (chiaramente,
Aquileia non era tanto pericolosa militarmente, quanto per il ruolo di
“territorio cuscinetto” tra la penisola e l’Impero). Pur con molti limiti, alla
fine gli ordini militari riuscirono a penetrare anche in Friuli. Da un lato, la
loro fedeltà al pontefice li rendeva un ottimo deterrente dinanzi alle
eventuali aspirazioni indipendentiste; dall’altro – come detto qui – il
patriarca stesso ebbe bisogno della loro presenza, per gestire un territorio
che non stava solo allontanandosi dall’autarchia patriarcale, ma era ormai
cambiato in molti settori. Così la rete viaria si era espansa; erano sorti
ospizi, nosocomi, lazzaretti; l’economia si era ripresa dalle devastazioni
ungare e molto lavoro era stato fatto per garantire passaggi più sicuri. Gli
ordini militari servirono dunque a gestire, oppure semplicemente a
supervisionare tutti questi affari: essi mantennero praticabili le vie di
comunicazione; si applicarono nel settore assistenziale, apportando
significativi cambiamenti nelle metodologie di cura, nell’alimentazione e in
altri settori, tra cui l’edilizia. Come era stato per il monachesimo
benedettino, così gli ordini militari resero efficace l’approfondimento di una
sensibilità solidale.
Nella penisola
italica questo fu lo scenario; nel dettaglio, la presenza templare fiorì tra
gli anni Trenta e Sessanta del 1100, favorita soprattutto dalle fondamenta
costruite da san Bernardo. Il suo sostegno ad Innocenzo II contro l’antipapa
Anacleto II, per esempio, contribuì non poco all’emanazione della Omne datum optimum. La penisola ebbe due
province templari: la Lombardia, che comprendeva le regioni
centro-settentrionali e la Sardegna, e la Puglia, con le regioni meridionali,
Sicilia inclusa. Ciò rispondeva chiaramente al frammentato scenario politico
italiano, ma è comunque probabile che in seguito la penisola prevedesse un
unico “maestro”. Con ogni probabilità, il Friuli era comunque al di fuori di
queste suddivisioni e si rivolgeva piuttosto all’area tedesca. Le donazioni che
permisero all’Ordine di crescere riguardarono non solo la cessione di terreni,
«ma anche in alcuni diritti feudali, quali i diritti di fienagione, di pascolo,
di taglio dei boschi, di pedaggio, di traghetto, di pesca, di caccia, di uso
dei mulini, eccetera» (B. Capone, L. Imperio, E. Valentini, Guida all’Italia dei Templari, Edizioni
Mediterranee, Roma, 1989, p. 17).
In Italia, la
fitta rete stradale di origine romana permise ai Templari di svolgere al meglio
l’opera di difesa dei pellegrini e ogni altra attività:
Li troviamo,
dunque, sulle grandi arterie consolari romane, allora ancora in uso: la
Francigena o Romea con le sue diramazioni, che dalla Francia raggiungeva Roma,
ricalcando tratti della Cassia, dell’Emilia, ecc.; la litorale Aurelia, che
arrivava anch’essa a Roma; l’Ongaresca, che in alcuni punti sfruttava la
Claudia Augusta e le strade del Norico; l’Appia, che conduceva
all’importantissimo porto crociato di Brindisi. Merita una menzione particolare
la Postumia, sia per l’alto numero di insediamenti templari su di essa
stanziati, sia per una sua importante caratteristica, quella di essere la sola
strada che, attraversando l’Italia settentrionale da ovest ad est, consentiva
di raggiungere i porti d’imbarco, e di proseguire il viaggio via terra, lungo
la penisola balcanica fino a Gerusalemme. (Ivi,
p. 23)
In merito a
Veneto e Friuli, gli insediamenti erano concentrati soprattutto a Treviso e
Venezia, ma altri centri nevralgici videro la presenza templare. Per esempio a
Vicenza, che si trovava al bivio tra la via Postumia e la strada che portava a
Padova, che a sua volta rappresentava «una stazione di smistamento, che
accoglieva crociati e pellegrini in attesa di imbarcarsi per Venezia o di
continuare il viaggio verso gli altri porti nell’Adriatico, scendendo per la
via Emilia e Popilia» (Ivi, p. 77).
La precettoria era inoltre su una delle strade che conducevano ad Aquileia.
Treviso, invece, era vicino tanto alla Postumia quanto all’Ongaresca; centro
politicamente influente, poteva fungere da luogo di transito tra Venezia e il
Friuli. Un’altra precettoria importantissima e oggi ancora in parte visibile
nel suo splendore si trovava a Tempio di Ormelle: essa era vicina alla via
Tridentina, che collegava Trento e Oderzo, alla Postumia, all’Annia, alla Julia
Augusta e alla Claudia. Vicina al fiume Lia, allora navigabile, che dal
Navisego entrava nel Livenza nei pressi di Oderzo, per poi scendere fino al
mare.
La presenza
friulana era invece meno radicata, anche per l’influenza dei cavalieri
teutonici, ma comunque importante. L’unica certezza documentale che si possiede
riguarda la casa di San Quirino, di cui parleremo a breve. Incerta
l’appartenenza di San Giovanni del Tempio, vicino a Sacile, in epoca templare
noto come San Leonardo dei Camolli. Questo luogo era vicino alle vie Pedrada,
Postumia, Ongaresca; controllava i passaggi sui fiumi Paisa e Livenza; infine,
erano presenti alcune importanti fiere, che portavano ricchezza e lavoro in
questa zona. L’unica certezza per l’epoca medievale è che, con lo scioglimento
dell’Ordine templare, la sede risultò di proprietà degli Ospitalieri. Discorso
diverso per la precettoria di Maron di Brugnera di Porcia, al tempo Sant’Angelo
di Porcia, che si trovava sul tragitto della Postumia Alta. Qui, nel 1225, la
famiglia dei Porcia fondò una sede a conduzione familiare, controllata dal
patriarca di Aquileia.
Incerta anche la
fondazione della nobile famiglia da Prata, che nel XII secolo istituì un
ospizio per pellegrini con chiese, cimitero e convento; forse ne affidarono ai
Templari la gestione, conservando lo juspatronato. Le due chiese erano dedicate
a san Giovanni dei Cavalieri e ai santi Simone e Giuda. Ad ogni modo, anche
Prata si trovava in una posizione strategica, controllando il guado del Meduna
e il passaggio per l’Alta Postumia. Altri furono probabilmente gli insediamenti
templari, di cui però non rimangono che flebili tracce a causa della damnatio memoriae provocata dai
persecutori e dal tempo irrefrenabile. Si può quindi supporre una presenza a
Cividale, Campolongo al Torce, Duino, san Giovanni in Tuba e Aquileia.
Soprattutto in quest’ultima città dovette almeno esserci, se non una
precettoria, almeno una sede per la gestione degli affari e lo scambio commerciale.
La città era inoltre visitata da molti pellegrini: l’itinerario di Bordeaux li
faceva passare per il porto di Aquileia, per poi proseguire per via di terra,
attraverso i Balcani e Costantinopoli.
Nel corso del
Duecento, i Templari raggiunsero l’apice del loro potere e talvolta agirono
anche in maniera perentoria. Se in certi casi si può parlare di orgoglio e
arroganza, questo è imputabile all’espansione dell’Ordine e al fatto che esso
accolse tra le sue fila anche opportunisti, pronti a tradire la confraternita
in seguito all’espulsione. Si parla così di un templare omicida nel 1257, a
Ventimiglia, o dell’episodio del castello-convento di Gardeny, in Spagna, dove
vi fu un caso eclatante di concubinato che coinvolse alcuni Templari. Furono
casi isolati, ma che minarono il prestigio del Tempio, poiché la rinuncia alle
migliori azioni e alle virtù comporta sempre le peggiori cadute, quando avviene
un abbandono sconsiderato ai vizi. Ma non si trattò solo di questo: bisogna
tenere in considerazione anche la precaria – o inconsistente – presenza del
potere politico cristiano in alcuni luoghi, sempre più minacciato da quella
presa di coscienza laica diffusasi soprattutto nelle città. Se in passato i
monaci ebbero quasi l’esclusiva sul potere locale, di fronte a rimostranze
civili o ad aperti dissidi, l’unica vera minaccia provenne dalla frangia armata
del monachesimo, meno incline ai calcoli politici, per quanto i vertici
facessero delle relazioni politiche un punto di forza.
È ben noto il trattamento
riservato ai Templari durante la persecuzione: nel meridione d’Italia, per la
forte influenza francese, i processi furono presenti, con documenti
interessanti riguardanti Brindisi, snodo importante per le comunicazioni con
l’Oriente. Così al Centro, sia per la presenza della Santa Sede che per gli
interessi economici fiorentini e non solo. Invece, al Nord – intendendo nello
specifico la Lombardia, il Veneto, la Romagna e l’Istria – sembra che la
situazione si presentasse più moderata, al punto che l’arcivescovo di Ravenna
assolse i Templari. Nel Nord-Est non risultano arresti, per cui si può pensare
ad un passaggio “pacifico”. Oltretutto Ottobuono di Razzi, patriarca di
Aquileia (1302-15), al concilio di Vienne fu a capo di una commissione per
valutare la situazione dei Templari. Egli si schierò dalla loro parte, ma fu inutile.
Ottobuono aveva appena raggiunto una tregua nella lotta contro la minaccia
trevigiana, rappresentata dal condottiero Rizzardo II da Camino. La sua
valutazione dovette avere certamente a che fare sia con interessi locali che di
più ampio respiro, dal momento che alla morte di Clemente V si diresse ad
Avignone, quale candidato al soglio pontificio. La morte, tuttavia, lo colse
durante il tragitto. Calcolo politico, utilitarismo o reale sentimento: questo
non è dato saperlo, ma rimane ugualmente l’ulteriore dato a favore dei Templari
da parte di un patriarca.
La Maison
di San Quirino
San Quirino
apparteneva alla corte di Naone, un complesso amministrativo di proprietà regia
già a partire dall’897. Nella fase di ricostruzione seguita alle incursioni ungare,
nel 1028 la corte passò alla stirpe bavarese del nobile Ocino, fratello di
Poppone, patriarca di Aquileia. Nella prima metà del XII secolo, la proprietà
passò nelle mani dei marchesi stiriani Traungau: a San Quirino e nel
pordenonese, in questo periodo, si sentì quindi l’esigenza di una
regolarizzazione dei confini. Leopoldo VI richiese un documento che attestasse
la delimitazione, alla luce del suo interesse nell’acquisizione di Pordenone,
dopo il 1221, e di altri feudi di proprietà patriarcale.
Parlare della
presenza templare a San Quirino, in provincia di Pordenone, non è per niente
semplice, poiché rimane ad oggi un unico documento che ne attesti la presenza,
specificando quali fossero i confini della cosiddetta Maison. Il termine francese deriva dal latino mansio, che in età imperiale indicava un luogo di sosta, utilizzato
soprattutto dai funzionari statali. La sede di San Quirino, infatti, non
dovette allontanarsi molto da questa funzione di luogo di passaggio, pur
prevedendo strutture produttive e di accoglienza non occasionali. Certamente
non avvennero capitoli di cavalieri, i quali è probabile che non fossero
presenti sul territorio in modo permanente. Come accadeva in Oriente, infatti,
è più facile considerare che a San Quirino furono presenti sergenti, scudieri e
personale di servizio, limitando alle prime due categorie gli eventuali
“capitoli” inerenti a questioni pratiche. La funzione di questa casa fu quindi
strategica, posta su un territorio che si volgeva tanto ai Paesi balcanici
quanto a quelli nordici. Oltre a questo, a San Quirino si lavorò la terra,
forse ci si dedicò anche all’artigianato, il tutto per sostenere come di
consueto i fratelli in Terra Santa.
Il documento a
disposizione attesta che il 10 novembre 1218 un gruppo di Templari, insieme ad
altri personaggi, si radunarono a Rove e Rori, fra la vecchia e la nuova strada
che conduce da San Quirino a Pordenone, per riconoscere la delimitazione dei
confini dai paesi limitrofi, come Cordenons e San Foca. Il testo descrive
elementi naturali presumibilmente riconoscibili e immutabili, oltre alla
conferma della donazione della Maison da parte del duca Ottocaro di Stiria, pro remedio animae suae. L’antica sede
prevedeva non solo la casa del commendatore o di un suo sostituto, ma anche una
serie di altri edifici. Sicuramente la chiesa, poi un ospizio, una stalla o
scuderia, gli edifici collegati ai campi, dove poter conservare gli attrezzi e
la produzione. E almeno una rudimentale costruzione dedicata all’infermeria.
Forse un mulino, elemento chiave e fonte di guadagno per chi lo possedeva, era
già presente in epoca templare. Le deduzioni si basano sui documenti
successivi, del periodo giovannita: a quel tempo l’intero complesso risultava
circondato da un muro, quindi si trovavano i campi, a loro volta recintati. Il
borgo circostante dipendeva sempre dalla casa ed era costituito per lo più
dalla manodopera laica e dalle relative famiglie.
L’importanza di
San Quirino si legò soprattutto al periodo in cui i crociati passarono
attraverso i Balcani, giungendo da Germania, Svizzera e Francia. Anche in
quelle crociate in cui si utilizzò la via di mare, comunque, non mancarono i
pellegrini e i combattenti che scelsero la via di terra per le ragioni più
diverse, da quelle economiche a quelle di tipo devozionale. San Quirino si
trovava infatti nei pressi di una diramazione della via Postumia.
Quando l’Ordine
del Tempio fu sciolto, la casa friulana passò agli Ospitalieri, che istituirono
una precettoria ed edificarono una chiesa dedicata a san Giovanni Battista.
Successivamente i beni dei due ordini passarono alla famiglia Cattaneo e in
parte al cardinale Pietro Ottoboni, papa nel 1689 col nome di Alessandro VIII,
noto per il suo nepotismo e per le ingenti ricchezze (No xe casa a Pordenon che no sia de Otobon). Oggi, dell’antica sede
templare non resta quasi più traccia: saccheggiata e incendiata dai Turchi il
30 settembre 1499, la parrocchia fu svuotata, ma ugualmente rasa al suolo dai
razziatori. Ad oggi non resta che qualche parete in pietra, probabilmente
l’antico nucleo amministrativo del centro. Una lapide commemorativa e la
riproduzione di alcune croci templari ne ricordano l’origine. Il comune, nel
corso dei decenni, ha comunque spinto per una valorizzazione di questa
appartenenza, con eventi dedicati, dalle mostre alle feste paesane. Entrando
nei confini cittadini si legge “San Quirino – Terra dei Templari” e il simbolo
del comune, pur con alcune imperfezioni, intende riprodurre il più famoso
sigillo del Tempio, quello dei due cavalieri su un solo cavallo. Simbolo di
povertà, o meglio, di umiltà; simbolo del dualismo tra bene e male e di molto
altro ancora per questo comune, simbolo del rapporto biunivoco tra passato e
presente.
Il valore della solidarietà. L’eredità monastica e
templare in Friuli
L’assistenza e
la cura dei malati è testimoniata già nelle antiche civiltà, come quella
egizia, in cui “medicina” e magia si mescolavano per garantire la salute al
paziente. A loro volta i Greci e i Romani svilupparono un sistema
assistenziale, che ruotava intorno ad alcuni centri come Ravenna. Con la caduta
dell’Impero, però, le notizie in merito all’assistenza medica si riducono fino
al silenzio, finché, con l’avvento dei Longobardi, si ricomincia a parlare con
una certa regolarità di luoghi di cura (importantissima in tal senso fu
Cividale). La vera svolta, anche in questo caso, giunse con i Carolingi, o
meglio, con la diffusione dei monasteri benedettini. L’avvento delle crociate,
alcuni secoli dopo, non fece che incentivare la creazione di ospizi, ospedali,
alberghi, taverne e altre strutture di accoglienza. A lungo andare, anche le
confraternite di mestiere (per esempio i sarti o i pellicciai) fecero a gara
per offrire servizi assistenziali: tra loro, i cosiddetti Battuti, appartenenti
a diverse confraternite laiche, facevano opera di beneficienza e al contempo si
auto-flagellavano come segno di penitenza.
Il Friuli fu
luogo di passaggio soprattutto nelle prime spedizioni crociate e vide passare
per le sue terre personaggi come Raimondo di Tolosa e Ademaro, vescovo di Puy.
In un secondo momento, invece, si preferì la via marittima, che partiva dai
porti di Aquileia, Latisana, Portogruaro e Trieste. Lo studioso Altàn ricorda
inoltre alcuni dei nobili friulani che parteciparono alle crociate: Recindo di
Strassoldo militò sotto l’imperatore Federico Barbarossa nel 1189, morendo fra
la Cilicia e l’Armenia; vi furono poi i Caporiacco, signori di Zuino e
Porpetto; i Cerclaria di San Gallo e molti altri. Non ultimo, il patriarca
Wolfger di Ellenbrechtskirchen (1204-1218), che in qualità di vescovo di Passau
raggiunse la Terra Santa con l’imperatore: intrattenne buone relazioni con i
Mussulmani, con l’intenzione di riuscire a liberare i prigionieri e gli schiavi
cristiani. Nel 1218, con le insegne di Federico, conte di Ortemburgo sotto
l’armata del re ungherese Andrea, praticamente ogni nobile famiglia friulana
poteva vantare almeno un parente lontano che aveva partecipato ad una crociata.
Ciò creò una certa rispettabilità nei loro confronti e contribuì a rafforzare
l’identità locale. Sono gli anni, non a caso, in cui ad Aquileia si riprodusse
il Santo Sepolcro, così come avveniva nel resto d’Europa.
In questo
periodo il Friuli, per la sua posizione strategica, fu attraversato da Nord a
Sud (si pensi all’importanza del Tagliamento) e da Ovest ad Est, sopra e sotto
la linea delle risorgive. Nell’arco alpino i passi principali furono due,
quello di Monte Croce Carnico-Plöckenpass e quello di Tarvisio-Coccau. Il primo
interessava le relazioni con Tirolo e Baviera, il secondo con l’Austria
interna, Stiria e Carinzia. Influenzato dagli ordini monastico-cavallereschi,
l’Ordine di Santo Spirito in Sassia, fondato da Guido di Montpellier per
l’assistenza agli infermi e agli indigenti, fu attivo in Friuli. Riconosciuto nel
1198 da Innocenzo III, assunse la regola agostiniana e rispose al problema
dell’accoglienza insieme agli altri ordini monastici. L’Ordine di Santo Spirito
fu quindi presente ad Ospedaletto (presso Gemona), nell’area di Tolmezzo,
Cividale, Gorizia, Udine, Fiumicello (presso Cervignano). Anche l’Ordine di San
Lazzaro fece la sua parte sul territorio: pare avesse sedi a Portogruaro,
Udine, Cividale, Levrons (significativo il nome, legato a “lebbroso”) e
Aquileia. In questo caso, il rischio è di compiere errate attribuzioni, poiché
si sviluppò la tendenza a dare il nome di “lazzaretto” ad ogni luogo di
isolamento delle malattie infettive, incluse quelle strutture che nulla avevano
a che fare con l’Ordine di San Lazzaro.
Come già
accennato, dal Duecento le associazioni laiche e artigiane fondarono
confraternite che resero più sistematica l’assistenza ai bisognosi, pur
mantenendo una imprescindibile vocazione religiosa. Oltre all’Ordine di Santo
Spirito, l’Ordine di sant’Antonio Abate (l’eremita) nacque per gli ammalati di
ergotismo. Fondato già alla fine dell’XI secolo da Gastone, signore di Vienne
nel Delfinato, e approvato da Urbano II, dovette attendere il 1218 per la
conferma di Onorio III. Infine, Bonifacio VIII riorganizzò la confraternita,
che assunse il nome di Canonici regolari di Sant’Antonio di Vienne (Bolla Ad apostolicae dignitatis, 1297). Come i
Lazzariti, la confraternita fu influenzata dagli ordini militari.
Anche grazie
all’attività di questi gruppi, tra il XII e il XVI secolo, ad Udine vi fu una
crescita dell’assistenza pubblica: i medici condotti e stipendiati furono
sempre di più e con il passare del tempo crebbe il loro prestigio, tanto che se
ne fece richiesta anche in altre città, come Monfalcone, Gorizia, Lubiana e
Venezia. Nel momento in cui la spiritualità laica prese il sopravvento,
ospedali e confraternite finirono per confondersi. La confraternita del
Sacramento nacque proprio ad Udine alla fine del XIII secolo: proponeva agli
iscritti il culto del sacramento eucaristico; promuoveva la carità e l’attività
culturale. Nati in seno ai Domenicani, nel 1496 se ne staccarono, formulando
dei propri statuti. La confraternita dei Battuti, invece, accentuò la devozione
alla Madonna, alla quale intitolarono molte chiese, nella volontà di
ristabilire un rapporto più sentito con la madre di Cristo. Furono infine i
Francescani a proporre il “Monte di Pietà”, un’istituzione finanziaria senza
scopo di lucro, che favorendo il microcredito venne incontro ai bisogni delle
persone in difficoltà. In regione, tra Duecento e Quattrocento gli operatori
toscani (fino al 1450, quando i Veneziani li espulsero), lombardi e soprattutto
ebrei ebbero un ruolo determinante.
L’“ospedale”,
inteso come luogo di ricovero e di cura, esistette già nell’antichità, ma fu
grazie al Cristianesimo che si introdusse l’elemento caratteristico della pietas. L’ospedale come lo intendiamo
oggi nacque dalla commistione di elementi etici dell’antichità greco-romana e
dalla forza propulsiva del monachesimo benedettino. Inizialmente, la struttura
non era altro che un hospitium con
annessa l’infermeria, che poi si ingrandì in foresteria per accogliere sempre
più viandanti. Dall’iconografia vediamo letti con pagliericcio, sottili
lenzuola probabilmente di lino, pasti contenuti, ma comunque sufficienti a
sfamare. Dal X secolo, con l’aumento dei pellegrinaggi e con una maggiore
mobilità commerciale, gli ospedali si diffusero capillarmente in regione. Ho
ricordato monaci, monaci-guerrieri e confraternite laiche e riformiste: cito
dunque alcuni antichi ospedali che furono l’avanguardia della solidarietà
friulana.
Partiamo da San
Tomaso di Maiano: qui esisteva la commenda di san Giovanni di Susans, risalente
al 1199, che prevedeva un ospedale, la casa del priore, la chiesa, le mura e
forse una stalla. Bene organizzato anche l’ospizio-ospedale di San Daniele, del
XIII secolo, gestito dall’Ordine di Sant’Antonio Abate. A Spilimbergo, invece,
esistevano due ospedali dedicati a san Giovanni: l’uno era precedente al
Trecento; l’altro del XIV secolo, appartenente ai Battuti. Questa confraternita
ebbe anche un ospedale a San Vito al Tagliamento, nel XIV secolo, mentre a
Pordenone si parla di un ospedale nel 1319, ma la fondazione dev’essere di
molto precedente.
All’inizio del
Duecento, il patriarca Wolfger fondò un ospedale a San Nicolò di Levata, o di
Ruda, organizzando inoltre la manutenzione e la difesa della strada che
congiungeva Aquileia e Cividale. Nel 1249 il priorato dell’ospedale fu affidato
agli Ospitalieri, che si occuparono della difesa della strada, supervisionando
la manodopera addetta alla manutenzione. Ad Aquileia, invece, ricordiamo
l’ospedale di sant’Ilario e Taziano, forse risalente all’XI secolo. Fuori le
porte, poi, esistette un lebbrosario dedicato a sant’Egidio. Avamposto del
patriarcato di Aquileia, la città di Pontebba ospitò un lazzaretto, le cui
fonti risalgono però agli inizi del XVII secolo: la città era importante poiché
da qui passavano spesso le merci di contrabbando e si avvertì la necessità di
introdurre regolari certificati sanitari. Anche Tolmezzo si trovò al centro di
strade, corsi d’acqua e montagne di grande valore strategico: sebbene è
intuibile la presenza di un antico ospedale, il primo centro noto risale al XIV
secolo e si trattava di un ricovero della confraternita di sant’Antonio.
Molto più
antico, invece, lo xenodochio di Cividale, fondato nel VII secolo dal duca
Rodualdo e dedicato a san Giovanni: esso si può forse considerare il primo
esempio di ospedale cristiano in Friuli. Ma la vera svolta in àmbito sanitario
fu compiuta dalla città di Udine, che alla fine del Medioevo emerse come il più
importante centro politico dell’area. Nel XVII secolo si segnalavano ben
tredici ospedali: tre derivavano da confraternite di mestiere (Calzolai,
Fabbri, Pellicciai); due da confraternite nazionali (Slavi nell’XI secolo,
Alemanni nel XV); almeno due collegati a monasteri (Santa Lucia, San Gervasio),
etc. Non poteva ovviamente mancare un ospedale di san Lazzaro, lebbrosario
restaurato dal patriarca Pellegrino II già a cavallo tra XII e XIII secolo
(perciò la sua fondazione è antecedente).
La portata di
questo sistema, che dal monastero si spostò agli ospedali cittadini, è
difficilmente comprensibile oggi, poiché la sua progressione si è svolta per
piccoli passi, secolo dopo secolo, fortificando il senso di appartenenza del
popolo friulano, nonché la sua capacità di essere tanto accogliente quanto
intransigente, tanto pragmatico quanto idealista. Indagando la storia friulana
è dunque possibile osservare come il monachesimo abbia influenzato un’identità
specifica, al punto da essere riconoscibile ancora nel presente, benché in
forme nuove e apparentemente irriconoscibili.
Nota: per la prima parte di questo articolo si veda qui. Su questo blog si trova anche un altro articolo di storia locale del Friuli (e dintorni), dal titolo Napoleone tra Veneto e Friuli. L'eco della Rivoluzione (qui).
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