Disordine mondiale. Memorie del Coronavirus. Parte IV
Nicolas Poussin, La peste di Ashdod (1630-31) |
La quarantena
Come
ho scritto più volte in questo testo, durante l'emergenza comparvero o
ricomparvero una serie di vocaboli dimenticati. "Quarantena" fu forse
quello più utilizzato, a cui si legavano altre espressioni come
"clausura" e "lockdown". Collegato a queste espressioni,
anche il termine "contenimento" conobbe una certa fortuna.
Il concetto di quarantena
aveva un'origine molto antica e nella Bibbia indicava in modo generico un
periodo di quaranta giorni, durante il quale fare di solito penitenza. Nel
corso del XIV secolo, invece, il termine fu impiegato per la prima volta a Venezia,
nel contesto dei provvedimenti necessari ad arginare la diffusione della peste
nera. Finivano dunque in quarantena viaggiatori, mercanti, ma soprattutto
interi equipaggi. Un altro vocabolo collegato a quarantena e che tornò di moda
ai tempi del Coronavirus fu "lazzaretto". Anche qui, l'origine
italiana risaliva alla storia di Venezia, quando su un'isola, poi detta appunto
Lazzaretto Vecchio, fu allestito il primo edificio del genere.
In tempi più recenti, il
termine quarantena continuò ad essere impiegato sempre per indicare un periodo
di segregazione, ma non necessariamente di quaranta giorni. Anche l'uso
figurato trovò un certo impiego, ad indicare appunto una persona o un qualcosa
lasciati in sospeso, in attesa.
Ho già in parte accennato
a come si vivesse in Italia il cosiddetto lockdown nei
primi tempi, sia dal punto di vista delle rinunce che della resilienza. C'era
però il fatto che non tutti vollero seguire scrupolosamente le norme di
contenimento.
Lessi e sentii molte
storie, sia di persone che conoscevo sia di sconosciuti in tutta la Penisola.
Avevo sentito di giovani che facevano grigliate in mezzo ai campi nella mia
zona, anche in più di dieci persone; vidi situazioni assurde, di fidanzati chiusi
in macchina a bordo strada per parlare, come se questo avesse potuto in qualche
modo risolvere il problema del non vedersi in casa; vidi nipoti in visita ai
nonni, accompagnati dai genitori; o ancora anziani che si incontravano tra i
campi per parlare a gruppi di due o tre persone, con la scusa di portare a
passeggio il cane, pur avendo case con giardino e non avendoli mai visti prima
portare fuori il loro animale. Le storie erano davvero senza fine.
A metà marzo, arrivai al
punto di rivalutare la quarantena. Non mettevo in dubbio la sua utilità, ma la
possibilità di realizzarla in uno Stato come l'Italia. Finché si trattava di
una città, come per Codogno, potevo capire; finché si trattava di una regione
cinese potevo capire due volte. Ma forse le persone non si erano rese conto di
quanto fosse inutile una quarantena con un popolo che contava al suo interno
tanti (troppi) individui irresponsabili. Non c'era bisogno di insultarli come
facevano in molti; non c'era poi molto da dire: era proprio una questione di
mentalità e di senso civico, che non sarebbero cambiati certo in poche
settimane.
Il fatto era che non
avremmo potuto nemmeno applicare una strategia sul modello britannico, perché
persino in quel caso avremmo trovato il modo di lamentarci: da un lato giustamente,
perché la parte (mentalmente) sana del Paese avrebbe chiesto provvedimenti a
tutela della salute dei cittadini; dall'altro perché le tensioni seguite al
tracollo sanitario avrebbero offerto il destro ad un possibile colpo di mano.
L'efficacia della
quarantena poteva ancora dimostrarsi, ma ebbi forti dubbi sul fatto che fossimo
pronti ad una simile auto-disciplina. Quantomeno non estesa ad oltre sessanta
milioni di italiani. Non avevamo la disciplina interiore né quel senso dello
Stato tipicamente cinesi, che nel bene e nel male rendono maturo un popolo.
Certo, avevamo le nostre armi culturali e le utilizzammo, come ho già scritto
riferendomi all'ironia, all'arte e alla capacità di saper sorridere alle
avversità.
Tuttavia non fu sempre
facile: da un lato c'erano i menefreghisti, dall'altro i cacciatori di untori,
ovvero coloro che vedevano in qualunque persona per strada un individuo becero
e criminale. Eppure tra i vari menefreghisti, che abusarono di quel minimo
margine di libertà che era stato ancora lasciato a tutti noi, c'erano coloro
che erano costretti ad uscire di casa, chi per fare il pane, chi per pulire le
strade, chi per garantire le farmacie e i supermercati aperti. E tanti altri
come loro, che offrivano a tutti noi servizi essenziali e che dovettero spesso
sentire gli insulti dai balconi e dalle case per il fatto di trovarsi in strada
e di non indossare una mascherina che era ormai spesso introvabile e comunque
non per forza necessaria all'aperto.
Tra tutti coloro che
dovevano ancora uscire e che proprio non potevano farne a meno, c'erano
ovviamente i medici, gli infermieri e i vari operatori socio-sanitari, che –
come nel grave caso di Bergamo – erano ormai ridotti a turni estenuanti e
disumani. Anche, ma non solo, a causa di quelli che dovevano uscire a fare una
grigliata tra i campi, prima di portare il virus in casa e trasmetterlo a un
parente. Forse, solo allora, avrebbero preso coscienza del loro egoismo, benché
fosse triste pensare che dovesse andarci di mezzo la salute di altre persone.
Si disse che non tutti
vivevano una situazione domestica ideale e che quindi sentivano la necessità di
uscire di casa. Non mancavano certo le storie di persone costrette a stare tra
le mura domestiche con un genitore violento, con un parente con disturbi
depressivi o con dipendenze, oppure semplicemente con persone che non
sopportavano più da lungo tempo. Ma io credo che alla fine tutto si potesse
ridurre a una questione di determinazione, poiché lessi diverse storie di
persone in situazioni del genere che rimasero a casa, nonostante tutto, forse
consapevoli che fosse meglio sacrificarsi per un mese che dover prolungare per
un tempo indefinito quel tormento quotidiano. Non era tuttavia facile esprimere
una condanna netta su questi casi particolari.
C'era poi un altro
aspetto. Più lunga sarebbe stata la quarantena, più saremmo passati dai puri
menefreghisti a coloro che avrebbero sentito il desiderio di tornare a vivere.
C'era una forza nell'umanità che la spingeva a far prevalere la volontà di vita
sulla morte. La responsabilità avrebbe ceduto a questa pulsione naturale. Il
genere umano, in quanto parte della Natura, era come quel germoglio verde in
mezzo ad una foresta devastata da un incendio.
Le fake
news
Ad inizio
epidemia, si era già parlato del video dei topini vivi mangiati da un presunto
cinese (in realtà un vietnamita, che di fatto nel video non mangiava nulla) e
della questione dell'esercitazione NATO 'Defender-Europe 20' (esagerata dai
complottisti come se si fosse trattato di un'invasione).
Ma le fake news non si fermarono di certo e
proseguirono ininterrottamente per le settimane successive. Ne elencherò
qualcuna, cercando di non trascurare nessuna delle più "virali" e
tenendo conto che praticamente ogni giorno circolarono notizie tendenziose,
false o pubblicate in totale malafede, a partire dai titoli dei più noti
giornali.
La
pena di morte in Cina. A metà febbraio, in effetti, sembra che vi fosse la
possibilità di pena di morte per coloro che avessero nascosto intenzionalmente
o riportato in modo errato i sintomi. Ma diciamo le cose per intero: in questi
casi, a cui si aggiungeva anche l'omissione di particolari significativi come
un viaggio recente nelle zone a rischio, si rischiava – nell'ordine – la
reclusione (di minimo dieci anni), l'ergastolo e solo nei casi estremi la
condanna a morte. Pur essendo contrario alla pena di morte, è innegabile che
una simile prospettiva dovette scoraggiare chiunque dal mentire o dall'omettere
qualsiasi cosa sul proprio conto, con il risultato pratico di limitare il contagio.
Era forse triste pensare che si dovesse giungere a tanto, ma questa era la
situazione cinese e lo Stato utilizzò tutti i suoi poteri, nel bene e nel male.
Su
questo argomento c'erano però i primi tentativi di "speculazione".
Sull''Huffington Post' comparve un articolo dal titolo Prima pena di morte in Cina per uomo che tenta
la fuga dalla quarantena. Il titolo sembrava chiaro e difficile da
fraintendere, dopodiché si leggeva il testo ed emergeva che l'uomo avesse
provato a forzare un posto di blocco e che per farlo aveva pugnalato a morte
due funzionari. Dunque, capiamoci: al di là del fatto che la pena di morte
fosse da abolire, il punto era un altro. Il titolo ci faceva capire chiaramente
che un uomo fosse stato condannato a morte per aver tentato la fuga dalla
quarantena, quando in realtà il reato veramente grave era il doppio omicidio.
Mettiamoci nell'ottica dell'italiano medio, che si limitava a leggere solamente
i titoli e a ricondividere, e poi valutate che effetto poteva avere una notizia
del genere.
Ai
titoli tendenziosi legati alla situazione cinese si univano anche le vere e
proprie fake news: c'era infatti un
video che circolava su 'You Tube' e altrove che mostrava un posto di blocco,
presso il quale un uomo cinese, che stava tentando di forzarlo, veniva fermato
in modo piuttosto brusco, con tanto di "retino da pesca" intorno alla
testa per spostarlo. Si trattava di un'esercitazione. E alcuni siti americani
che lo condivisero lo segnalarono in modo evidente: in Italia, invece, spesso
circolò nelle chat come esempio del modo in cui in Cina facessero rispettare le
regole, immaginando che fosse vero.
La
vitamina C. Belén Rodríguez fece un video nel quale consigliava a tutti di
assumere vitamina C per curarsi o prevenire il contagio da Coronavirus. Con il
seguito che aveva provocò molta confusione e certamente un danno. In realtà, la
sua "uscita" non era originale: intorno al 10 marzo, era già da
almeno un paio di settimane che circolava per le chat un messaggio vocale che
come una catena consigliava di assumere alte quantità di vitamina C. Nelle
farmacie ci fu un assalto anche per questa richiesta, nella convinzione che la
vitamina aumentasse le difese immunitarie al punto da evitare il contagio.
Altri "consigli" sulle chat suggerivano di assumere vitamina D e
integratori di vario genere. Inutile dire che ogni esperto smentì questo
effetto e che anzi si evidenziò il pericolo di un'eccessiva assunzione di
vitamina C, che avrebbe inciso sull'aumento dei calcoli renali (si veda per
esempio l'articolo su questo tema sul sito 'farmacovigilanza.eu', del 25
febbraio 2013).
La
presunta cura. Ovviamente, le notizie su cure miracolose e insperate giungevano
quasi ogni giorno e da ogni parte. Talvolta, si trattava solo di titoli
tendenziosi o in vera e propria malafede. Ne cito uno su tutti al riguardo: "Trovata la cura che batte il virus".
Il biologo Grosveld di Utrecht: "L'anticorpo impedisce al Coronavirus di
infettare e aiuta a rilevarlo" (su 'Il Fatto Quotidiano' del 15
marzo). Come per il caso della pena di morte, anche in questo il testo
dell'articolo chiariva meglio l'argomento, ma nel frattempo il risultato era
sempre lo stesso: persone fiduciose che aprivano il link, garantendo
visualizzazioni, e persone che condividevano o commentavano senza nemmeno aver
letto.
Le
dichiarazioni dei politici. Voglio citare solo due discorsi in merito,
riguardanti i primi ministri britannico e francese. Intorno alla metà di marzo,
una frase di Emmanuel Macron fu ripresa praticamente da tutti i mezzi di
informazione: «Noi non rinunceremo a nulla», facendo seguire un elenco di cose
alle quali i francesi non avrebbero rinunciato. Il discorso era reale e c'era
persino un video, ma si era tenuto nel contesto di una commemorazione per le
vittime del terrorismo.
La
seconda frase era attribuita a Boris Johnson: «Abituatevi a perdere i vostri
cari»; così la riportarono i media italiani, per poi riscriverla in modo
decisamente diverso: «Molte famiglie perderanno i loro cari».
In
questi due casi non si trattò solo di disinformazione, ma di aperta malafede
(tanto più che diversi giornali e telegiornali continuarono a mantenere la
frase mal tradotta di Johnson). Dopodiché, che Macron stesse sottovalutando il
problema era tutta un'altra questione, così come il fatto che la scelta
britannica fosse quantomeno opinabile.
I
carri armati per le strade: l'invasione. Questa notizia falsa si ricollegava a
quella citata dell'esercitazione 'Defender-Europe 20': in effetti, molti
cittadini fotografarono e ripresero diversi mezzi dell'esercito in transito per
città e stazioni, tra cui i famosi carri armati. La spiegazione era molto più
semplice di quanto si potesse pensare: il ministro della Difesa, Lorenzo
Guerini, aveva infatti reso noto che i mezzi stessero rientrando normalmente
nelle caserme di appartenenza, dal momento che tutte le esercitazioni nazionali
erano state sospese. L'Italia aveva rinunciato a partecipare alla
'Defender-Europe 2020', poiché la crisi richiedeva la presenza dell'esercito
italiano nei luoghi dell'emergenza. L'esercitazione NATO – come ho già
specificato nel capitolo ad essa dedicato – era stata annullata; risultavano
però sul territorio europeo i ventimila soldati statunitensi che erano stati
già dislocati e che a quel punto avrebbero supportato gli altri eserciti
alleati o avrebbero fatto ritorno negli Stati Uniti, con tutti i disagi (il
blocco aereo di Trump) e i pericoli (l'ulteriore contagio).
Le
date apocalittiche o profetiche: il fascino della numerologia. Tra febbraio e
marzo, circolò un'immagine con una serie di date, in cui emergeva come in ogni
secolo, nell'anno '20, fosse scoppiata un'epidemia o una pandemia. Le date
andavano dal 1320 al 2020 e segnalavano di volta in volta l'epidemia in
questione. Sembra che la fonte di questa notizia falsa provenisse da un articolo
francese: ad ogni modo, le date erano quasi tutte sbagliate. Facciamo dunque
chiarezza.
Nel
Trecento, la peste nera durò dal 1347 al 1353; si diffuse in Asia già intorno
agli anni Trenta, ma di certo non si può dire che fosse del 1320.
Nel
Quattrocento, il vaiolo giunse sulla terraferma sudamericana nel 1520, ma si
trovava già in zona dal 1506, per esempio sull'isola di Hispaniola.
Nell'Ottocento,
il colera a cui faceva riferimento il post era probabilmente quello del 1854, a
Broad Street; in precedenza c'erano stati casi noti dal 1817 (quindi non dal
'20).
Nel
Novecento, l'influenza spagnola durò dal 1918 al 1920. Nel nostro caso, poi, il
Coronavirus era noto come Covid-19: ed era 19 per un motivo piuttosto semplice.
Erano dunque confermate solamente le date del 1620 (l'equipaggio della
Mayflower che arrivò negli odierni Stati Uniti con molti malati) e del 1720
(peste di Marsiglia).
Il
punto centrale non era nemmeno che quelle date fossero giuste o sbagliate,
perché collegare i numeri in una sequenza "logica" era da sempre un
gioco troppo facile. Si prendevano tutte le date col '20 e si escludevano le
altre epidemie dei vari secoli, che pure erano esistite e non solo in
quell'anno. Oltretutto, che cosa si voleva dimostrare?
Per
fare un esempio pratico, avremmo potuto citare la pandemia del 1957-58 (H2N2),
la pandemia a Hong Kong del 1968 (H3N2), l'epidemia di influenza aviaria del
1998, etc., facendo notare come fossero capitate tutte nell'anno '8 di ogni
decennio. Si poteva continuare all'infinito, mettendo anche date parallele nei
secoli precedenti, inventandosi strane teorie numeriche.
Leggere
le date inesatte o sbagliate delle epidemie avvenute nel '20 mi fece tornare in
mente quelle persone che spuntavano regolarmente dopo ogni terremoto, per dire
che loro lo avevano previsto.
Le decisioni a livello internazionale
In
linea generale, la situazione interna al Paese era comunque buona: eravamo
partiti con il piede giusto e bisognava mantenere ora quella linea. Ma che cosa
stava accadendo nel mondo?
Al 14, la Johns Hopkins
University rilasciava un aggiornamento: 145.377 casi di Coronavirus nel mondo;
5.429 deceduti; 71.717 guariti. Gli Stati colpiti erano 129: Cina al primo posto
con ben 81.000 casi; seguivano l'Italia (17.600) e l'Iran (11.364).
Questo per quanto
riguardava i numeri "nudi e crudi". Il Coronavirus ricordò a tutti
una regola molto semplice: la Natura non fa distinzioni di classe, di censo,
etc. Non lo faceva per le calamità naturali come terremoti ed eruzioni,
tantomeno lo fece per questa malattia. Giorno dopo giorno uscivano notizie di
personaggi famosi e politici che avevano contratto il virus: lo scrittore Luis
Sepúlveda, l'attore Tom Hanks (insieme alla moglie), il ministro dell'Interno
australiano Peter Dutton, la moglie del premier canadese Justin Trudeau e molti
altri.
C'erano inoltre voci e
casi incerti: uscì la notizia che il presidente Jair Bolsonaro fosse risultato
positivo al tampone, ma poco dopo arrivò la smentita dal diretto interessato.
Il caso era doppiamente interessante, perché Bolsonaro aveva cenato una
settimana prima con il presidente statunitense Donald Trump e il capo della
comunicazione del presidente brasiliano era risultato positivo.
Molte nazioni europee
presero i primi provvedimenti alla metà di marzo: scuole e università furono
chiuse praticamente ovunque, dalla Norvegia alla Slovenia, dalla Spagna
all'Ucraina e alla Turchia. La settimana successiva, le chiusure si sarebbero
estese ad altri grandi Paesi come Francia, Spagna e Portogallo. In Germania, la
chiusura fu una scelta locale, alla quale aderì la maggior parte
dei Länder.
Un po' ovunque furono
chiusi i confini o limitati gli ingressi a determinate condizioni (controlli
sanitari, auto-certificazioni, etc.). Dopo l'Italia, lo Stato europeo più
colpito fu la Spagna, con oltre quattromila casi. Dagli Stati Uniti giunse
inoltre la notizia che Trump avrebbe sospeso i voli per l'Europa. La staffetta
olimpica si fermò in Grecia.
Due situazioni spiccarono
in particolare a livello europeo. Innanzitutto, il caso francese: l'11, i
giornali italiani citarono un discorso pubblico del presidente francese
Emmanuel Macron: «Noi non rinunciamo a nulla. Non rinunciamo a ridere, a
cantare, a pensare, ad amare. Non rinunciamo alle terrazze, alle sale da
concerto, alle feste nelle serate estive. Soprattutto non rinunciamo alla
libertà».
Sembrava di guardare un
film ambientato prima della seconda guerra mondiale: una boriosa uscita di
vuota retorica, che tuttavia coinvolgeva le vite di milioni di francesi. Poco
dopo, però, cominciò a diffondersi (con meno ricondivisione) la verità su
quelle parole: si trattava di un discorso in memoria delle vittime del
terrorismo, ripreso con malafede (o grave imprecisione) da parte dei media
italiani.
Un fatto certo era però
che in Francia, forse ancor più che a febbraio in Italia, si stava
sottovalutando il problema. Si continuavano a svolgere manifestazioni: famoso
divenne il "raduno dei puffi", il sabato precedente, che mirava a
superare il record del più grande raduno del genere e che si trasformò in una
clamorosa occasione di contagio. Solo alcuni giorni dopo, in evidente ritardo,
la Francia cominciò sommessamente a seguire l'esempio italiano, con misure
ancora troppo contenute. Solo per citare un esempio eclatante, i francesi
furono comunque chiamati alle urne per le elezioni municipali.
Il secondo caso
impressionante coinvolgeva il Regno Unito. In un discorso del 13, il premier
britannico Boris Johnson gelò tutti con questa dichiarazione: «Molte famiglie
perderanno i loro cari». Non era black humor inglese: riconoscendo che il Paese
fosse di fronte ad una serissima emergenza sanitaria, sostenne però che
l'adozione di misure draconiane avrebbe potuto provocare più danni che
benefici. Non mancò il sostegno interno, a partire dal Times, che lo descrisse come uno statista,
alla stregua di Winston Churchill, quando all'indomani dello scoppio della
seconda guerra mondiale aveva promesso «sangue, sudore e lacrime». Scuole e college
rimasero aperti, insieme al resto delle attività del Paese.
Come interpretare questa
decisione? Luigi Ippolito, in un articolo del 'Corriere della Sera' del 13, dal
titolo Coronavirus in Inghilterra, il
discorso di Boris Johnson: «Molte famiglie perderanno i loro cari»,
scriveva: «È anche una questione culturale: i britannici vanno fieri del loro stiff upper lip, il labbro superiore rigido,
cioè lo stoicismo (fino all'indifferenza) di fronte alle difficoltà, senza
abbandonarsi a reazioni emotive. E un altro concetto fondamentale è quello di grace under fire, la grazia sotto il fuoco
nemico: ossia mai perdere la compostezza. Resisterà tutto questo all'infuriare
del coronavirus? È presto per dirlo».
Riflettendo su questo
caso, la situazione era stata considerata ormai fuori controllo e non aveva
senso parlare di contenimento. La risposta fu: affrontiamola a testa alta. Se
lo avessero fatto in Italia, questo avrebbe portato ad una guerra civile, ma
nel Regno Unito avrebbe anche potuto reggere. Un punto era certo: le vittime ci
sarebbero state e sarebbe stato un disastro. Bisognava solo osservare se il
loro stoicismo sarebbe stato sufficiente. Ad ogni modo, al di là del giudizio
sulla decisione, Johnson fu piuttosto diretto e realista, molto più del Napoleone
IV che si ritrovavano i francesi.
Messaggi positivi
provenivano infine dalla Cina, dove al 13 i guariti erano all'80% e si
segnalavano solo otto nuovi casi. Anche in Corea del Sud si registrarono per la
prima volta più guariti che nuovi casi. Nel frattempo, in Italia erano giunti i
medici cinesi, che presso l'Istituto Spallanzani di Roma fecero sapere che gli
ospedali italiani stavano facendo un ottimo lavoro. Città che in origine erano
state i primi focolai, come Codogno e Vo' Euganeo, segnalarono di non aver
riscontrato nuovi casi di positività al Coronavirus.
Molti apprezzamenti
vennero dal mondo per l'Italia, a partire dall'OMS, ma ci furono anche diverse
polemiche: secondo alcuni l'Italia stava esagerando con le proprie misure
restrittive; altri cominciarono a fare ironia sul fatto che gli italiani
avessero approfittato del virus per non dover lavorare.
La risposta a queste
insinuazioni stava nell'accordo tra governo e sindacati, il 14, per tutelare i
lavoratori ancora operanti; stava nella riorganizzazione sempre più efficiente
dello smart work e
dell'insegnamento online; stava nella serie di iniziative legate ai
"balconi di casa", dall'inno di Mameli e dalle altre canzoni cantate
e suonate la sera del 13 all'applauso collettivo della mattina del 14, rivolto
a tutti i medici e agli infermieri coinvolti sulla prima linea.
In una nota dell'11, il
presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ammoniva l'Unione Europea a
solidarizzare e a non creare ulteriori ostacoli. Questa prima fase della
quarantena stava facendo molto bene alla coesione interna del Paese, a partire
dai semplici rapporti interpersonali, poiché molti di noi si accorsero di poter
fare a meno di tante persone e di non poter assolutamente rinunciare a molte
altre.
I danni economici
Giovedì 12
marzo, il principale indice della borsa di Milano, il FTSE MIB, perse il 17%
del suo valore: fu la peggior seduta di sempre. Alla luce delle politiche
restrittive tutto questo era ormai preannunciato, ma alcuni interventi della
BCE contribuirono a peggiorare il problema. Proprio una dichiarazione della
presidente, Christine Lagarde, non piacque ai mercati: affermò infatti che il
ruolo della BCE non includesse la riduzione degli spread. Il danno era fatto e
si cercò di correre ai ripari con ulteriori dichiarazioni, ma la situazione
rimase al limite: lo spread tra titoli di stato italiani e tedeschi crebbe di
oltre sessanta punti.
Tra
le misure assunte dalla BCE, c'era comunque la riduzione dei tassi di prestito
alle banche europee e la volontà di fornire più liquidità alle banche,
concedendo loro una maggiore esposizione nei prestiti anche superando i
requisiti di capitali fissati.
Per
l'Italia, i danni coinvolsero praticamente ogni settore: il turismo fu
azzerato; la vita culturale ridotta al minimo, con l'annullamento di fiere ed
eventi di vario genere; l'export fu in grave pericolo per la riduzione drastica
delle ordinazioni; la produzione interna subì un pesante rallentamento,
dall'agricoltura all'industria.
D'altra
parte, Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna incidevano sul 40% del PIL: con il
loro tracollo portarono con sé il resto del Paese.
Il 18
entrava in vigore il decreto noto come "Cura Italia", il primo
massiccio intervento di uno Stato europeo per arginare i danni economici
derivati dall'emergenza. Furono emessi titoli di Stato per il valore di
venticinque miliardi.
Furono
rinviati a fine maggio i versamenti alla cassa per saldare le ritenute e per
l'IVA da parte di imprese e autonomi. Per gli esercenti di negozi e botteghe fu
riconosciuto un credito d'imposta nella misura del 60% dell'ammontare del
canone di affitto, relativo a marzo. Un'ulteriore sospensione fino a fine
maggio interessò altri settori colpiti, da quello turistico-alberghiero a
quello dell'intrattenimento (cinema e teatri), etc. Fu inoltre stabilita
un'indennità di seicento euro per i dipendenti stagionale legati al settore del
turismo, limitata al mese di marzo. Un premio di cento euro fu riservato ai
lavoratori in sede, con reddito non superiore a quarantamila euro. I
licenziamenti vennero sospesi per due mesi, a partire dal 23 febbraio, così
come i mutui sulla prima casa.
L'INAIL
poté assumere duecento medici e cento infermieri per contratti di durata non
superiore a sei mesi, eventualmente prorogabili in caso di ulteriore emergenza.
Si diede la priorità ai medici e al personale sanitario per la distribuzione
delle mascherine, fornendo incentivi per la produzione di dispositivi medici.
Oltre al decreto, si prese un'altra misura eccezionale: dopo aver richiamato il
personale in pensione, si dispose l'abilitazione dei medici con la sola laurea.
Sulla
questione della cosiddetta "didattica digitale", fu messo a
disposizione un fondo per mettere a disposizione degli studenti meno abbienti,
in comodato d'uso, computer e altri dispositivi digitali.
Ulteriori
cinquanta milioni furono messi a disposizione per la distribuzione di cibo agli
indigenti.
Il
decreto affrontava anche il tema dei detenuti: fu semplificata la procedura per
accedere alla detenzione domiciliare per coloro che dovevano scontare una pena
fino a diciotto mesi, con l'obbligo di utilizzare il cosiddetto
"braccialetto elettronico". Rimanevano tuttavia esclusi i detenuti
che si erano macchiati di reati gravi, tra cui anche i maltrattamenti in
famiglia e lo stalking, che erano considerati delinquenti abituali, che erano
sottoposti a regime di sorveglianza particolare o che avevano preso parte alle
sommosse delle ultime settimane.
Fu
poi nominato un Commissario straordinario per l'emergenza, individuato in
Domenico Arcuri, con ampi poteri nella gestione del personale, degli strumenti
e degli spazi necessari a contenere e contrastare l'emergenza epidemiologica
del Covid-19. Inoltre, il Capo del Dipartimento della Protezione civile poté
disporre di un fondo per la requisizione di presidi sanitari, medico-chirurgici
e di qualsiasi bene immobile per fronteggiare l'emergenza.
In
merito ai numeri dell'economia, i più ottimisti valutarono una riduzione del
PIL dello 0,3-0,4% se l'emergenza fosse durata fino ad aprile-maggio (così
Confcommercio). Cerved Rating Agency si occupò invece del rischio di fallimento
delle imprese, valutando che se la crisi fosse durata oltre un semestre le
probabilità di default sarebbero salite oltre il 10%.
A
livello internazionale, la situazione non era migliore. L'Unione Europea chiuse
le frontiere esterne; Manila chiuse la borsa e fu la prima nazione al mondo a
farlo a causa del Coronavirus (17 marzo); tutta una serie di grandi eventi,
come gli europei di calcio 2020, furono rinviati. Commercio, trasporti e
turismo erano drasticamente ridotti.
Nel
frattempo, altri governi si attivarono per rispondere alla crisi economica. Gli
Stati Uniti stavano ragionando su un piano di addirittura 850 miliardi di
dollari di aiuti; la Germania si attestava sui 550 miliardi di euro e il Regno
Unito sui 330 miliardi di sterline. Era ancora tutto da decidere, ma la
tendenza era di questo genere: al confronto, il decreto italiano sembrava da un
lato poca cosa, dall'altro quello che teneva maggiormente i piedi per terra,
con tutte le critiche inevitabili che ne seguirono.
A
subire le prime conseguenze della pandemia fu ovviamente la Cina. Al 3 marzo, i
dati ufficiali cinesi parlavano di una produzione manifatturiera calata a 27,8
punti a febbraio, il livello più basso dall'inizio dell'indagine, nel 2004.
L'export crollò, anche per una serie di ordini non rinnovati, e trascinò con sé
prima di tutto i Paesi fortemente dipendenti dalla Cina, come Taiwan, Vietnam e
Singapore. Seguirono a ruota i problemi per i Paesi che esportavano materie
prime per la Cina, tra cui Russia e Brasile. Come scrisse il 6 marzo sul sito
ISPI Alessia Amighini, nell'articolo Le
conseguenze del coronavirus sull'economia globale: «L'epidemia sta
mostrando al mondo quanto fragile sia un modello di globalizzazione fondato su
una dipendenza elevatissima da un solo paese come fornitore per molti settori».
Inoltre: «[...] la Cina stessa vuole ridurre la sua dipendenza tecnologica dai
paesi tecnologicamente più avanzati e aumentare la produzione interna, e ciò
significa che all'orizzonte si profila una fase di deglobalizzazione».
Era
inevitabile pensare che ad emergenza sanitaria conclusa, quando avremmo voluto
tornare alla normalità, una nuova emergenza ci avrebbe atteso dietro l'angolo.
Un'emergenza economica e sociale, che ci avrebbe riportato ad uno stato di
incertezza. Non era affatto pessimismo fine a se stesso, ma quantomeno
preoccupazione alla luce dei numeri.
Tutto
il debito che gli occidentali stavano accumulando doveva essere pagato. Le
conseguenze erano destinate a ripercuotersi su diverse generazioni future. La
crisi avrebbe portato a due grandi possibilità: un drastico e maturo
ridimensionamento del nostro stile di vita consumistico o l'inizio di un nuovo
sciagurato imperialismo. Credo che tutti noi fossimo consapevoli della
risposta: eravamo una società, o meglio, eravamo persone troppo dipendenti dal
sistema del benessere per rinunciarvi. Finché reggeva il consumo, le persone
potevano tollerare una quarantena, dopodiché sarebbe stato tutto da vedere. Il
timore era che qualcun altro, altrove, avrebbe continuato a rinunciare al posto
nostro.
Gli effetti sull’ambiente
«Quando
gli invasori arrivarono e cominciarono a respirare e a nutrirsi, quegli
organismi infinitesimali, che Dio nella sua saggezza aveva messo sulla Terra,
iniziarono a condannarli, annientarli, distruggerli dopo che tutte le armi e
gli stratagemmi umani avevano fallito. Mediante il sacrificio di miliardi di
vittime, l'uomo ha acquisito la sua immunità, il suo diritto alla sopravvivenza
tra le infinite creature di questo pianeta, e quel diritto è suo contro ogni
sfida, poiché gli uomini non vivono e non muoiono invano».
Il discorso è tratto dal film La
guerra dei mondi (2005), per la regia di Steven Spielberg, ispirato
all'omonimo romanzo del 1897 di H. G. Wells. Nel film, gli invasori erano gli
alieni, ma il discorso si presta ad una riflessione diversa. Adattandolo a
questi giorni, si potrebbe dire che gli alieni, rispetto alla Natura, fossimo
noi. Da decenni, in particolare negli ultimi anni, avevamo continuato a fare
conferenze sul clima a non finire, a ribadire la necessità di ridurre
l'utilizzo dei combustibili fossili, di cessare lo sfruttamento degli oceani e
dei terreni coltivabili senza alcun rispetto per il ritmo ciclico della natura,
e via discorrendo.
Con l'avvento del Coronavirus e il rallentamento o il blocco
delle esportazioni, del turismo, dei trasporti e dei consumi il mondo naturale
tirò un sospiro di sollievo. Tuttavia sarebbe meglio dire che noi esseri umani
– almeno quella parte cosciente del reale pericolo – avesse tirato un sospiro
di sollievo. Perché la natura era stata abituata a cambiamenti ben più drastici
nel corso dei suoi miliardi di anni di vita e a rimanere maggiormente colpiti
dai cambiamenti climatici eravamo noi esseri umani, insieme a diverse specie che
stavamo portando con noi all'estinzione.
Ma era vero che il rallentamento delle attività umane stesse
incidendo in positivo sul clima? Alcuni studiosi cominciarono innanzitutto ad
analizzare il legame tra inquinamento e diffusione del virus. Il 17 marzo, un
articolo di Irma D'Aria su 'Repubblica.it' titolava: Coronavirus:
l'inquinamento ha aperto la strada alla diffusione dell'infezione. Nel
testo era riportato uno studio della Società italiana di medicina ambientale
(Sima) insieme alle Università di Bari e di Bologna, che ipotizzava questo
quadro: «"Le alte concentrazioni di polveri registrate nel mese di
febbraio in Pianura padana – sottolinea Leonardo Setti dell'Università di
Bologna – hanno prodotto un'accelerazione alla diffusione del Covid-19. L'effetto
è più evidente in quelle province dove ci sono stati i primi focolai"».
Vi era poi un altro problema: non solo si ipotizzava una
maggiore diffusione del virus a causa dell'inquinamento, ma anche una maggiore
mortalità per i luoghi con maggiori problemi di smog. In un articolo del 16 ("Lo smog aumenta la mortalità del
coronavirus", l'allarme degli esperti UE), su 'Europa Today', Dario
Prestigiacomo scriveva: «Secondo uno studio del 2003 sulle vittime del
coronavirus Sars, infatti, i pazienti delle regioni con livelli moderati di
inquinamento atmosferico avevano l'84% di probabilità in più di morire rispetto
a quelli nelle regioni con basso inquinamento atmosferico». Si trattava di
ipotesi di lavoro, i cui primi dati sembravano dare risposte convergenti su questi
punti, sebbene la ricerca avesse ancora molta strada da fare per comprendere
ogni aspetto del Covid-19.
Altri studi si occupavano della capacità di diffusione del
Coronavirus a diverse temperature. Un articolo del 18 di Carlo Migliore, su
'3Bmeteo', riportava una ricerca secondo la quale il Covid-19 preferisse il
freddo per la propria diffusione e che oltre i 10°C cominciasse a rallentare.
L'articolo metteva comunque in guardia dal non confondere l'attività del virus
con la sua distruzione; inoltre si precisava: «Va da sé che l'ingresso nella
stagione più fredda comporterebbe per il sud emisfero un crescente numero di
casi mentre contemporaneamente nell'emisfero settentrionale l'ingresso nella
stagione estiva potrebbe favorirne una diminuzione».
Di fatto, però, il rallentamento delle attività umane stava
migliorando il clima. Il 12, il sito di 'TGcom24' segnalava che in un mese
fosse calato lo smog nel Nord Italia e che all'inizio di marzo, in Cina, i
livelli di biossido di azoto fossero calati del 30%. I dati erano forniti dalle
immagini satellitari fornite da NASA ed ESA: lo strumento si chiamava Tropomi e
si trovava sul satellite Copernicus Sentinel-5P, in grado di mappare moltissimi
inquinanti atmosferici. Altri dati confermavano questa tendenza ad una
riduzione degli inquinanti nell'aria: il tutto rischiava però di essere solo
temporaneo, per cui per il momento si poteva parlare solamente di un fenomeno
transitorio. Anche le altre ipotesi necessitavano ancora di ulteriori conferme,
perché vi erano molti fattori da considerare, come la situazione meteorologica
favorevole di quel periodo, che contribuì a ridurre l'inquinamento.
Nel frattempo, c'erano problemi che riguardavano anche gli
animali. In particolare, al Safari Park di Pombia, nel novarese, centinaia di
animali avevano bisogno di alimenti, integratori e medicinali. La chiusura
forzata aveva messo a rischio le loro vite, tanto che a metà marzo – secondo la
direzione del parco safari – rimanevano solo due settimane di autonomia
alimentare.
Mi venne in mente una scena del film The
Day After Tomorrow (2004), quando gli animali fuggivano dallo zoo. In
questo caso, non si trattava di uno zoo o di un circo, ma di un parco safari
che collaborava con la facoltà di Medicina veterinaria dell'Università degli
Studi di Torino, in merito a progetti di ricerca sulle patologie e il benessere
degli animali allevati, con un'attenzione ad alcune specie a rischio di
estinzione. In breve si attivò una campagna per l'invio di cibi di scarto (e
non), nonché per l'acquisto di biglietti e si cercò di porre rimedio a questa
situazione: purtroppo non tutti ebbero una tale visibilità mediatica e il mio
pensiero andò anche a tutti gli altri parchi safari. In fondo, quegli animali
erano una responsabilità di tutti noi.
D'altra parte, in quei giorni, fummo noi esseri umani a
comprendere almeno un poco che cosa significasse sentirsi chiusi in gabbia,
come in uno zoo o in un circo. E per ironia della sorte lessi diverse storie di
animali che si muovevano indisturbati per le città italiane, dai pavoni ai
comuni gatti. In molti parlarono di come la Natura stesse ripristinando un
equilibrio. In un articolo su 'il Post' del 18, dal titolo I nuovi virus non arrivano solo per caso, si
parlava di un rapporto del WWF che sosteneva come lo spillover (il
"salto di specie" fatto dal virus) fosse più comune se non si
rispettavano gli ecosistemi. Si parlava sempre di ipotesi, ma questo genere di
ricerche servì a ribadire il nostro impatto negativo sul pianeta e le sue
conseguenze. Si diceva che la Natura stesse utilizzando i propri anticorpi per
salvarsi dall'Uomo. Ma a guardare le immagini satellitari, penso invece che la
Natura ci stesse offrendo il dono di una seconda possibilità.
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