Disordine mondiale. Memorie del Coronavirus. Parte III

John William Waterhouse, A Tale from Decameron (1916)


L’Italia zona protetta


I social, da subito, servirono anche ad altro. Prima però facciamo un passo indietro. Che cosa accadde il 9 marzo? Il Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, firmò il Dpcm che recava nuove misure per il contenimento e il contrasto del diffondersi del Coronavirus.
Di fatto, furono estese le misure del Dpcm dell'8 a tutto il territorio nazionale: l'Italia diventava così "zona protetta". Da quel lunedì, furono vietate tutte le forme di assembramento (questo fu uno dei tanti termini ormai sdoganati nel discorso quotidiano): il 10 cominciò ad avere effetto il decreto, che sarebbe durato fino al 3 aprile.
In poche ore, tutti i media furono invasi da una valanga di persone che ripetevano come un mantra la frase "Io resto a casa". Giornalisti, esperti a vario titolo, politici, celebrità, persone comuni.
Furono soprattutto persone del mondo dello spettacolo a diventare virali con i loro appelli, mentre sui social dilagava la corsa all'insulto violento verso chiunque si mostrasse in un luogo che non fosse casa propria. Si parlò di una questione di responsabilità individuale. Ognuno doveva fare la sua parte; anzi, bisognava agire già prima, ma dato che non era stato fatto, ora più che mai si doveva correre ai ripari.
Pensai in particolare a tutti coloro che erano passati da "Milano non si ferma" a "Io resto a casa", senza passare per una minima auto-critica, come a dire: andiamo là dove tira il vento.
La scelta del governo fu apprezzata praticamente da tutte le parti politiche e sociali, pur con alcuni malcontenti. L'opposizione stessa si disse soddisfatta della chiusura (quasi) totale, ma mosse obiezioni rispetto all'entità degli aiuti a famiglie e ad imprese. Nonostante queste voci critiche, comunque, il governo trovò un generale sostegno e, anzi, Giuseppe Conte finì per diventare un teen idol.
Per capirci, senza nominare giornali noti che spesso fraintesero il fenomeno, il sito 'ginger generation' scriveva il 12: Coronavirus: Giuseppe Conte diventa un teen idol, ecco le sue fancam. Riprendo la stessa spiegazione dell'articolo: «[...] una fancam è, in estrema sintesi, un video dedicato (di norma) ad una star del K-pop. Il termine e il concetto di fancam si è sviluppato su Twitter, dove questi video vengono utilizzati, di norma, per promuovere un artista K-pop di turno».
In qualche modo, si potrebbe dire che le fancam rappresentino una sorta di mescolanza tutta contemporanea tra Pop Art e Art Brut: accessibile a chiunque, popolare, usa e getta e liberamente condivisibile.
Ma all'inizio di questo capitolo dicevo che i social servirono anche ad altro. Per esempio, quale ruolo ebbero gli influencer? Quale contributo apportarono in questa crisi? La risposta è nell'ottima iniziativa portata avanti da Chiara Ferragni e da Fedez, che lanciarono una raccolta fondi per rafforzare l'efficacia della terapia intensiva presso l'ospedale San Raffaele di Milano, e che al 12 aveva superato i tre milioni e mezzo di euro.
E, come loro, citerei anche le varie donazioni, a partire da quella di Giorgio Armani. Un articolo di 'Open' del 9, scritto da Felice Florio, sintetizzò bene l'argomento: Coronavirus, dai Ferragnez a Eataly, passando per D&G, Armani e Bvlgari: le donazioni milionarie di vip e aziende.
Eravamo solo all'inizio, ma queste azioni, dalle piccole donazioni dei singoli a quelle più corpose delle aziende, trasmisero un messaggio positivo alla popolazione. Come scrisse il poeta tragico Eschilo nel Prometeo incatenato (vv. 101-05): «Bisogna sopportare il meglio possibile la porzione di sorte che ci è assegnata, sapendo che invincibile è la forza della necessità».


I cittadini di serie B


Di fronte a una crisi, di qualunque genere, i più colpiti sono sempre coloro di cui anche in condizioni normali si parla troppo poco. Mi riferisco a due categorie nello specifico: i senzatetto e i malati.
Partiamo dalla prima. Il decreto del 9 aveva stabilito la chiusura della gran parte delle attività, costringendo a casa milioni di italiani. Ma per chi una casa non ce l'aveva?
Il problema emerse immediatamente. In un articolo dell'11, Pierluigi Frattasi scriveva su 'fanpage': «A Napoli sono circa mille i senzatetto, ma molti rifiutano l'accoglienza. Il Comune ha sanificato i dormitori pubblici e fornito le mascherine al personale. Ma al Centro di Prima Accoglienza di via De Blasis la mattina chiude e ci sono solo 14 dipendenti. La Cisl Fp: "Apriamo i dormitori h24"». Vi ricorda nulla? La situazione era parallela a quella delle carceri e dei tagli alla sanità, temi di cui ho già parlato.
Al danno, ovviamente, si aggiunse anche la beffa. Zita Dazzi scrisse su 'Repubblica': A Milano denunciato un senzatetto per strada: "Violato il decreto coronavirus". Ronda della carità: "Non sanno più dove andare". Fortunatamente, il provvedimento non fu portato avanti e la questura di Milano affermò che non sarebbero più stati sanzionati e denunciati altri senzatetto (circa trecento nel solo capoluogo lombardo).
In altre città, si trovarono persino risposte più concrete. A Genova, per esempio, comune e referenti delle strutture di accoglienza giunsero ad un accordo, che stabilì l'accoglienza notturna continuativa, portando la disponibilità oraria degli spazi a ventiquattro ore.
Passo quindi alla seconda categoria, quella indicata genericamente come "i malati". Nello specifico, il Coronavirus mise a rischio coloro che avevano patologie pregresse, legate soprattutto al sistema respiratorio. Ma l'emergenza colpì anche i soggetti immunodepressi, i pazienti sottoposti a chemioterapia e tutti coloro che erano in attesa di visite mediche o di operazioni.
Il 9, il sito di 'Sky TG24' titolava: Coronavirus, gli oncologi: "È meglio rinviare chemio e visite se non urgenti". Sugli organi di informazione e sui social cominciarono a diffondersi storie piuttosto tristi: bambini con malattie rare; figli disperati perché un loro parente non poteva più fare la chemioterapia; disabili bloccati in casa; immunodepressi nel panico.
Il sistema sanitario era ormai allo stremo e governo ed esperti preannunciarono la possibilità, qualora la situazione fosse peggiorata, di essere costretti a scegliere i pazienti da curare in base alla probabilità di guarigione.
Una piccola ma significativa parentesi di speranza fu leggere la risposta della popolazione: Coronavirus, per anziani e immunodepressi consegna dei farmaci a domicilio (sul sito 'isNews', il 13). Notizie come queste provenivano sempre più da tutte le regioni della Penisola. Non si risolveva il problema di un tracollo del sistema sanitario, ma erano comunque iniziative necessarie e utili a mantenere alto il morale del "fronte interno".


L’OMS e gli aiuti dalla Cina


L’11 marzo uscì un nuovo rapporto dell'Istituto Superiore di Sanità, che affermò come tutti i casi italiani di contagio fossero avvenuti in Italia, ad eccezione di quattro casi (tre persone probabilmente contagiate in Cina e una in Iran).
L'età media dei contagiati era di sessantacinque anni; la letalità variava dallo 0,1% nella fascia 40-49 al 13,2% nella fascia al di sopra degli ottant'anni. E il Coronavirus colpì anche moltissimi operatori sanitari (in quel rapporto se ne contavano già 583), coloro che erano effettivamente "in prima linea".
In quello stesso periodo, uscì anche la lettera di Massimo Galli, direttore dell'ospedale Luigi Sacco di Milano, pubblicata sul 'New England Journal of Medicine', in cui si individuava il probabile paziente zero. Un tedesco di trentatré anni, che a fine gennaio aveva incontrato una manager arrivata da Shangai, che lo aveva infettato. Il virus era poi stato trasmesso anche in Italia, facendo scoppiare i primi focolai, a partire da Codogno.
Su questo punto è doveroso fare una distinzione: la legittima e necessaria ricerca scientifica, utile a comprendere le origini e gli sviluppi di una malattia, e la "caccia all'untore" da parte dell'opinione pubblica. Nel tentativo di toglierci di dosso l'etichetta di untori a livello mondiale, quando uscì la notizia del paziente zero tedesco, cominciammo a riversare il nostro disprezzo verso i tedeschi in generale, secondo quegli stereotipi che identificano ogni popolo.
A mio avviso, sarebbe stato più utile smetterla con la ricerca spasmodica del paziente zero (non a livello di ricerca medica ovviamente); così come avremmo dovuto smetterla con la xenofobia e con quell'assurdo pensiero per cui ci avessero infettati per qualche scopo preciso. Di fronte a questi dati, avremmo dovuto prendere atto della situazione e fare auto-critica, perché ad epidemia scoppiata contribuimmo alla diffusione con la nostra iniziale superficialità.
Avevamo la memoria troppo corta: continuavamo ad avere un atteggiamento aggressivo verso gli orientali, dimenticandoci di aver "esportato" il virus in più di un Paese. La sensazione era che nessuno ci avrebbe mai tolto il vizio di puntare il dito.
D'altra parte, la Cina si preparava ad inviare team medici esperti, centomila mascherine, ventimila tute protettive, cinquantamila tamponi e mille ventilatori polmonari. Si stavano firmando i contratti, che avrebbero stabilito una cooperazione tra i due Stati a livello sanitario e tecnologico.
Per comprendere la situazione a livello europeo, è invece sufficiente ricordare come l'Italia avesse fatto la medesima richiesta di mascherine ai partner dell'Unione Europea, ottenendo come risposta un significativo silenzio. Non solo, Francia e Germania bloccarono persino l'export.
Nel timore di rimanere senza mascherine, i partner europei vennero meno alla solidarietà: si parlò solo di avviare un appalto congiunto, ma il tempo stringeva e non potevamo permetterci di attendere oltre. Alla Cina non si poteva nemmeno imputare di essere stato l'unico Paese a tentare di nascondere l'epidemia, poiché la Germania democratica aveva provato a fare la stessa cosa e diversi Stati nel mondo sottovalutarono il problema, non dichiarando nemmeno i numeri dei contagiati.
Oltretutto, era comunque errato discriminare un intero popolo per una scelta politica sbagliatissima. Avremmo dovuto invece rivolgere le nostre critiche a chi governava quel popolo. Ricordando però, nel caso cinese, come l'efficienza di quello Stato stesse contenendo l'epidemia.
Le notizie dell'11 non erano comunque esaurite. L'OMS si dichiarò allarmata dai livelli di gravità del contagio nei vari Stati e di come molti, troppi, restassero ancora inattivi. Solo in Italia, il continuo aumento dei contagi ci fece comprendere quanto fosse in realtà già diffuso il Coronavirus. Nei giorni seguenti i numeri erano destinati ad aumentare, ma era normale, poiché si trattava di persone che si erano contagiate prima del decreto del 9. L'importante era allora raggiungere il picco dei contagi il prima possibile.
Nel frattempo, proprio l'OMS aveva dichiarato ufficialmente la pandemia. E in serata, a conclusione di quella intensa giornata, Giuseppe Conte fece un nuovo discorso agli italiani, stabilendo la chiusura totale di tutti i negozi, ad esclusione di quelli che garantivano i beni di prima necessità. Fu infine nominato un commissario delegato con ampi poteri di deroga, Domenico Arcuri, che si sarebbe coordinato con il capo della Protezione civile, Angelo Borrelli.


Le rinunce


Nei capitoli XXXI e XXXII de I promessi sposi (1827; 1842), Alessandro Manzoni narrò l'arrivo della peste a Milano, nel 1630. Quei due capitoli tornarono molto di moda e in molti sottolinearono i parallelismi con il presente, dalla psicosi di massa ai lazzaretti all'orlo del collasso.
Da un lato, si continuava a dire che dalla lettura e dallo studio del passato si potessero trarre insegnamenti per non ripetere quelle situazioni; dall'altro, di fatto, l'essere umano continuò anche in questo caso ad essere simile, quando non identico, a se stesso. Ancora una volta, il valore della storia – il suo insegnamento – poteva limitarsi alla presa di coscienza dei singoli individui.
Manzoni scrisse del tribunale della sanità che chiedeva invano una cooperazione da parte dei cittadini, i quali al principio tendevano persino a negare l'esistenza del morbo. Quando ci si rese conto che la peste, ormai, fosse giunta in città, era già troppo tardi. Così nella sua opera:
«Ma sul finire del mese di marzo, cominciarono, prima nel borgo di porta orientale, poi in ogni quartiere della città, a farsi frequenti le malattie, le morti, con accidenti strani di spasimi, di palpitazioni, di letargo, di delirio, con quelle insegne funeste di lividi e di bubboni; morti per lo più celeri, violente, non di rado repentine, senza alcun indizio antecedente di malattia. I magistrati, come chi si risente da un profondo sonno, principiarono a dare un po' più orecchio agli avvisi, alle proposte della Sanità, a far eseguire i suoi editti, i sequestri ordinati, le quarantene prescritte da quel tribunale. Chiedeva esso di continuo anche danari per supplire alle spese giornaliere, crescenti, del lazzeretto, di tanti altri servizi».
All'epoca, in prima linea vi furono i cappuccini: «E perciò l'opera e il cuore di que' frati meritano che se ne faccia memoria, con ammirazione, con tenerezza, con quella specie di gratitudine che è dovuta, come in solido, per i gran servizi resi da uomini a uomini, e più dovuta a quelli che non se la propongono per ricompensa».

Come cambiarono le vite dei cittadini ai tempi del Coronavirus? Ognuno di noi stava rinunciando a qualcosa che per se stessi era importante. Personalmente, dovetti rinunciare all'idea di fare i tre viaggi che avevo in mente per il 2020: in Puglia, in Inghilterra, persino in Vietnam. Ed era curioso pensare come quelle mete rappresentassero rispettivamente un territorio nazionale, uno europeo e uno extra-europeo. Non rimaneva che viaggiare con la fantasia, la lettura di opere come quella di Manzoni, ma soprattutto con la scrittura.
Ai telegiornali e nei video sui social vidi molte persone nel panico assoluto. Penso per esempio a coloro che affollavano i supermercati prendendo più di quanto fosse necessario: il loro problema era forse la mancanza di informazione. Di sana informazione, perlomeno. Perché non c'era una persona che nei media e nei social invitasse a fare le scorte per l'apocalisse.
Eppure, non c'era molto che potessimo fare per loro, se non augurarci che avessero la decenza di leggere una mezza notizia, di informarsi su siti noti per il rigore giornalistico o scientifico. E che magari leggessero anche le opinioni generali sui social. Perché – ripeto – nessuno aveva lanciato campagne per l'assalto ai supermercati. Tutto questo non faceva altro che confermare quanto detto poco prima sull'insegnamento della storia: a livello di massa, semplicemente non esisteva.
Il virus ci aveva fatto scoprire molte cose, come le condizioni insostenibili delle carceri, le carenze della sanità, la speculazione di ambienti come il calcio sulla vita di tifosi e sportivi, forse persino che il sistema capitalistico non fosse compatibile con la salute pubblica. Ma questa presa di coscienza, in una fase in cui non era possibile muovere un solo dito, rendeva le persone impotenti e fragili. Poteva servire un governo di unità nazionale per calmare gli animi? A metà marzo, la situazione era grave, ma ancora sotto controllo.
Allo scoppio dell'epidemia in Italia, io lavoravo come bibliotecario, a Pordenone e in altre biblioteche minori della pedemontana. A piccoli passi, si era giunti alla chiusura della biblioteca provinciale, ma si riusciva ancora a lavorare in alcune biblioteche più piccole, benché da soli e a porte chiuse, per attività di riordino e catalogazione. A metà marzo, la situazione era prossima all'immobilità. Chi ancora lavorava, poteva farlo compilando un'auto-certificazione che, in caso di informazioni mendaci, avrebbe portato a conseguenze penali. Così chiunque avesse dovuto muoversi, per fare la spesa o per altre attività necessarie, doveva compilare il medesimo modulo.
Pensai a tutti coloro che chiudendo le loro attività non le avrebbero più riaperte. Ebbi la sensazione che molti, soprattutto giovani come o più di me, tendessero a semplificare. Non si trattava "solo" di starsene a casa sul divano: non era così facile. C'erano lavoratori, soprattutto precari, che non avevano di che vivere. L'impatto sociale del Coronavirus non era da sottovalutare.
Circolarono numerose storie: persone che non avevano più incassi, costrette a tirare la cinghia; in particolare, le partite IVA non avevano ancora ricevuto aiuti e le persone si sentirono sole e abbandonate.
Ma, ancora una volta, c'era poco che si potesse fare sul momento. I risultati in merito al calo dei contagi richiedeva una virtù molto rara, la pazienza. Noi, singoli individui chiusi nelle nostre abitazioni, potevamo trovare un qualche conforto nella lettura, persino in quelle opere che sembravano proprio parlare del nostro problema. Leggere un libro come 'La peste' (1947) di Albert Camus poteva insegnare davvero molto sulla fenomenologia del Male, su come in situazioni estreme possiamo diventare esseri umani virtuosi o solamente bestie.


La resilienza


Circolarono moltissime storie sulle rinunce a cui ognuno era stato costretto. Molte di queste si potevano riunire in tematiche specifiche: c'erano coloro che rinunciavano ai concerti dei loro gruppi e cantanti preferiti; chi era in crisi perché avrebbe dovuto affrontare la maturità, senza sapere ancora come, e che nel frattempo aveva rinunciato alla gita dell'ultimo anno; c'erano coloro che non potevano vedere i propri partner; e c'era chi era tristemente costretto a morire in un ospedale senza l'estremo conforto dei propri cari.
Si discusse molto in proposito e si cercò di stabilire una gerarchia, ponendo la propria rinuncia, ovvero il proprio dolore, al di sopra di quello degli altri. Era – inutile dirlo – qualcosa di ridicolo. Ma ci furono moltissimi fenomeni di resilienza che ci fecero bene come comunità. Si utilizzò spesso l'ironia e si crearono trend particolari, come quello della coppia di fidanzati che si incontrava al supermercato e che a distanza si diceva frasi (modificate dalle persone che condividevano) per dire come quello fosse vero amore. Erano piccole trovate per sorridere durante giornate che erano diventate quanto mai lunghe ed estranianti.
Dovevamo contrastare il panico che serpeggiava, perché un conto era parlare di qualche giorno a casa, ma un altro era affrontare un obbligo forzoso di isolamento per quasi un mese. E forse più. Le persone diventavano sempre più irrequiete.
Un'altra lettura intramontabile e ritornata di moda era non a caso il Decameron (1350-53) di Giovanni Boccaccio, che nella sostanza raccontava proprio la storia di un gruppo di giovani che, volendo fuggire dalla peste nera, si rifugiò per dieci giorni fuori Firenze per raccontarsi novelle e distrarsi in un ambiente bucolico. Così scrisse Boccaccio nell'introduzione alla prima giornata:
«E erano alcuni li quali avvisavano che il viver moderatamente, e il guardarsi da ogni superfluità avesse molto a così fatto accidente [la peste] resistere: e fatta lor brigata, da ogni lato separati viveano; e in quelle case ricogliendosi e rinchiudendosi dove niuno infermo fosse, e da viver meglio, dilicatissimi cibi e ottimi vini temperatissimamente usando, e ogni fuggendo, senza lasciarsi parlare ad alcuno, o volere di fuori, di morte o d'infermi alcuna novella sentire, con suoni e con quelli piaceri che aver poteano si dimoravano».

Diverse iniziative sembravano rispondere ad un'esigenza simile di (pur parziale) normalità. Nacquero inoltre liste su liste di consigli di lettura o di film e serie tv da guardare. Scrissi io stesso una lista di dieci film: 1) L'invasione degli ultracorpi (1956); 2) 28 giorni dopo (2002); 3) Io sono leggenda (2007); 4) La città verrà distrutta all'alba (2010); 5) Contagion (2011); 7) World War Z (2013). A cui si aggiungeva la trilogia di Cabin Fever (2002-2014, con l'eventuale aggiunta del remake del 2016).
Certo, da amante dell'horror, si trattava di una serie di film a tema non adatti a coloro che si facevano prendere dall'ansia. Ma titoli che al contempo, al pari della lettura delle opere di Boccaccio, Manzoni, Camus e altri, potevano anche avere una funzione esorcizzante rispetto all'angoscia stessa.
Come diceva la locandina di uno dei film citati (che è oltretutto un remake, ovvero La città verrà distrutta all'alba), «La pazzia è contagiosa»: parlare di epidemie in questa fase significava anche aprire un discorso metaforico sul significato stesso della paura e su come combatterla.
In merito ai libri, oltre agli autori già citati, consigliai una lettura a tema davvero poco conosciuta: Epidemia! (1961) di Frank G. Slaughter. Il quale, oltre che scrittore, fu anche medico, come testimoniano proprio i suoi libri. Persino nel mio piccolo, mi accorsi che un racconto che avevo pubblicato sulla piattaforma Wattpad, dal titolo La grande pioggia, si prestava a quel periodo di quarantena da Coronavirus, sebbene nella mia storia fosse una pioggia lunga un anno a costringere le persone in casa.
Tra liste, eventi in videochiamata e altre iniziative, ci fu per molti di noi anche il tempo di chiudersi in se stessi, in un significato positivo. Se la vita quotidiana ci aveva reso automi, ci aveva sfiancato e trasformati in esseri frenetici ed irritati, questa sospensione di ogni attività esterna ci permise di rallentare. Era ironico: pensare che quel virus ci avesse fatto respirare, recuperare un ritmo più consono alla nostra natura di esseri umani e alla nostra ispirazione interiore.
Nel frattempo, rinchiusi nelle nostre attività domestiche, il grande aumento dei contagi ci fece capire quanto fosse già diffuso il Coronavirus. Nell'attesa che si raggiungesse un picco, l'arte, o meglio, le arti ci fecero un gran bene. E l'ironia ci aiutò a sdrammatizzare. Poteva provenire da ogni contesto, persino dalla storia: circolò un'immagine che ritraeva Simeone Stilita, un asceta cristiano siriaco che visse oltre trent'anni su una colonna. Il messaggio era chiaro: era così difficile stare a casa? A ognuno le proprie considerazioni.

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