Disordine mondiale. Memorie del Coronavirus. Parte I

Fotografia di Félix Thiollier, Untitled (1880 ca)


Introduzione


La pandemia di COVID-19 cominciò a diffondersi a dicembre del 2019, nella città di Wuhan, capoluogo della provincia cinese dell'Hubei. Si tratta di una malattia respiratoria causata dal coronavirus SARS-CoV-2.
Si scoprì il virus al mercato del pesce della città cinese, che fu chiuso il 1° gennaio 2020. Il primo decesso confermato risale al 9 gennaio; il 23 dello stesso mese, dato il crescente numero dei contagi, Wuhan fu messa in quarantena, seguita dalle città limitrofe.
I sintomi più comuni sono simili all'influenza: abbiamo quindi febbre, tosse secca, stanchezza e difficoltà respiratorie. Nei casi più gravi, si sviluppano ulteriori sintomi, come per esempio la polmonite e l'insufficienza renale acuta.
A marzo non c'era ancora alcun vaccino e le guarigioni erano spontanee; il trattamento poteva dunque limitarsi al controllo dei sintomi.
Già (almeno) da fine gennaio, il Coronavirus fece la sua comparsa anche fuori dalla Cina: ci furono i primi casi di navi da crociera messe in quarantena, come per la 'Diamond Princess', al largo delle acque giapponesi, nonché i primi provvedimenti di Stati come la Corea del Sud.
Non solo, il virus oltrepassò i confini dell'Asia e raggiunse gradualmente tutti i continenti: l'Italia fu uno dei Paesi colpiti per primi a livello mondiale, al punto che si giunse anche qui ad una chiusura quasi totale, sul modello della Cina.
Le conseguenze del Coronavirus – a pandemia ancora in corso – non sono del tutto quantificabili. Di certo, da sùbito dilagarono le fake news, la xenofobia, il razzismo nei confronti degli orientali, sebbene vi furono anche fenomeni importanti di resilienza.
A livello economico, si sta assistendo a un dibattito serrato, che sta portando anche a rimettere in discussione il modello capitalistico adottato fino ad ora. A livello sociale, la chiusura di diverse attività ha portato molte persone sull'orlo del precipizio, facendo crescere il malcontento. D'altra parte, però, lo smart work (o lavoro agile) ha subìto un'implementazione, aprendo nuove prospettive lavorative. Per quanto riguarda la realtà italiana, persino l'istruzione via web cominciò a regolarizzarsi come metodo educativo già dalla fine di febbraio.
Altre considerazioni, soprattutto a livello geo-politico, si troveranno nei capitoletti successivi. Qual è dunque il suo contenuto? Questo testo ripercorre le principali fasi della diffusione del Coronavirus in Italia, con tutte le reazioni sociali che ha comportato. Il discorso si estenderà anche alla politica estera.
Ho sentito da sùbito l'esigenza di riordinare tutte le idee in merito ad una situazione spesso confusa: ho diviso il discorso in tematiche, identificate dai titoli, rifacendomi alla cronaca e ad altre fonti (letterarie, etc.).
I capitoletti sono volutamente brevi e si occupano di un argomento specifico proprio per comunicare in modo tanto rapido quanto utile. Per ragioni stilistiche, ho scelto di utilizzare spesso il passato remoto, anche per eventi relativamente recenti, sia per dare una maggiore enfasi al discorso, sia per permettere di affrontare i vari temi da una "prospettiva temporale" che richiamasse la dimensione del libro di storia.
L'approccio è in parte giornalistico; in parte storiografico, in parte personale, come in una sorta di memoriale.
A quale scopo scrivere un testo del genere? Come scrisse Cesare Pavese nel suo diario (poi Il mestiere di vivere): «Le cose si scoprono attraverso i ricordi che se ne hanno. Ricordare una cosa significa vederla – ora soltanto – per la prima volta».
L'obiettivo è di ricostruire le fasi di questa emergenza globale, affinché se ne conservi una memoria: fare luce sui fenomeni per non dover soccombere mai all'ignoranza, alla disinformazione e alla paura.


La psicosi


In Italia, a fine gennaio, il termine Coronavirus si diffuse rapidamente e portò con sé tutta una serie di vocaboli che da tempo erano poco utilizzati, se non dimenticati.
La prima fase fu quella della psicosi. Il termine è medico: come ci dice la 'Treccani.it', esso indica una malattia mentale che sovverte la «struttura psichica nei rapporti tra rappresentazione ed esperienza». In un significato più esteso, indica invece apprensione, persino ossessione, il più delle volte esagerata rispetto al reale problema. Il grave pericolo giunge però quando la psicosi passa dall'individuo alla collettività.
Di fronte a un serio timore, le persone cercano risposte, il prima possibile e senza troppo interesse per un rigoroso fact-checking. Provate a pensare: normalmente circolano fake news, che coinvolgono anche le maggiori firme del giornalismo italiano, e sebbene spesso vengano smentite, le persone tendono a trascurare l'auto-critica su ciò a cui avevano erroneamente creduto.
Così, a fine gennaio, si aprì la caccia alle streghe rivolta agli orientali. Da subito, il mio primo pensiero si concentrò su come fosse stato facile far venir meno tutta la nostra civiltà, l'umanità e la presunta superiorità culturale. Le parole avevano perso la loro apparente efficacia retorica e si erano rivelate gusci vuoti.
Il 29, Maurizio Crosetti titolava su 'Repubblica': Coronavirus, in Italia è psicosi Cina. Clienti in fuga dai negozi e record di mascherine. Nel testo si leggeva l'appello di una giornalista orientale: «Avete idea di quanto soffriamo? Vi prego di non discriminarci specialmente se si tratta di bambini».
Il 30, Erika Nanni scriveva sul 'Corriere della Romagna' l'articolo che titolava: Psicosi da Coronavirus, a Rimini meno clienti nei ristoranti cinesi.
Le istituzioni pubbliche non si tirarono certo indietro rispetto a questa caccia e – quale riflesso delle persone che le costituiscono – adottarono una serie di "precauzioni".
Su 'La Bussola' del 29, lessi un articolo di Simona Lazzaro: Psicosi Coronavirus: cacciato da Pompei un turista cinese. E nello stesso giorno, un altro articolo di 'Repubblica' disegnava uno scenario esteso a tutta la Penisola: Roma, psicosi coronavirus. Il Conservatorio di Santa Cecilia impone: "Visita obbligatoria per tutti gli allievi orientali". L'articolo riportava l'esperienza di una professoressa allibita, che raccontava di come uno studente coreano fosse giunto da lei quasi in lacrime, domandando se potesse ancora venire a lezione.
Ritornò alla ribalta una concezione diffusa, secondo la quale gli orientali sono considerati tutti uguali, che si tratti di cinesi, giapponesi, coreani, vietnamiti e via discorrendo. Da Nord a Sud, da Venezia a Pompei, la caccia agli untori non conobbe particolari distinzioni geografiche.
Eppure lo tsunami era cominciato già almeno un paio di settimane prima. Una ragazza cinese, il cui nome rimase oscurato, riportò la propria esperienza in un post su fb del 23 gennaio. Residente a Venezia, un vicino l'aveva chiamata per chiederle se i suoi parenti erano stati infettati e da quale città provenisse. La ragazza, scossa per lo scarso tatto dell'uomo, rispose che i suoi parenti stavano bene e che abitavano a oltre 550 km da Wuhan. Il vicino, come se non la stesse realmente ascoltando, continuò imperterrito a fare domande su future visite dei parenti e su un possibile viaggio in Cina della ragazza.
In uno Stato in cui si sono sottovalutati per decenni le tensioni sotterranee e l'ignoranza dilagante, un virus, che forse al principio poteva essere non estirpato, ma contenuto con l'informazione diffusa e il buon senso, portò invece una parte non irrilevante della popolazione a pratiche discriminatorie.


L’allarmismo


Bisogna anche saper distinguere. Distinguere coloro che non discriminarono gli orientali, che continuarono ad andare nei negozi e nei ristoranti e che cercarono, anche individualmente, di dimostrare la loro vicinanza, oltre all'estraneità rispetto a certi comportamenti.
Bisogna poi persino distinguere tra la discriminazione razziale e sociale. Quest'ultima è un ramo molto fertile, che, prendendo le distanze da un razzismo biologico nella speranza di non cadere nell'etichetta più classica di "razzismo", sostiene che vi siano differenze sostanziali tra il nostro modo di essere e quello, per esempio, dei cinesi. Queste persone spostano dunque l'attenzione su un discorso culturale, ma – velatamente – sviluppano le loro idee basandosi su stereotipi e pregiudizi.
Già nelle ultime settimane di gennaio, comunque, ci furono i primi – poco ascoltati – anticorpi sociali. Il 26 gennaio, il sito 'Bufale.net' riportò una "catena" che intimava a tutti di non frequentare i negozi cinesi per il rischio del contagio.
La catena, in modo subdolo, faceva passare una discriminazione per una doverosa pratica d'igiene. 'Bufale.net', giustamente, riportò un concetto base: «I virus sono particelle subcellulari che hanno bisogno di un organismo dove riprodursi». I creatori della catena volevano invece far intendere che il virus si "conservasse" negli oggetti, che potesse addirittura attraversare due continenti sopravvivendo, per poi trasmettersi agli italiani. Il concetto non era espresso in modo chiaro ed esplicito, ma con espressioni vaghe che perlomeno insinuavano il dubbio nelle persone.
Il sito anti-bufale fece inoltre notare che le merci non fossero trasportate di persona, tanto meno dai diretti rivenditori, e che ormai, in un mondo globale, tali merci fossero ordinate per via telematica e poi spedite. Sembra un'ovvietà riportare questo discorso, eppure fu solo uno dei tanti messaggi che vagarono nelle chat, alla stregua delle registrazioni apocalittiche fatte da presunti medici in prima linea.
L'articolo si concludeva così: «Echeggiando i tempi oscuri in cui negli anni dell'Olocausto si riesumavano le arcaiche bufale del "Giudeo che avvelena i pozzi", avrete contribuito a dipingere un'intera etnia come degli untori, cagionato allarmismo e paura nelle persone e danneggiato famiglie di onesti lavoratori senza alcuna remora e senza alcuna necessità».
Ecco dunque che un secondo termine cominciò a diffondersi tra le persone e i media: allarmismo. Si potrebbe dire che esso sia un parente stretto della psicosi e che consista nel tentativo di creare un clima di tensione, inventando o esagerando un pericolo. Se dunque la psicosi ha in sé un carattere passivo, benché sia spesso provocata da una mancata volontà di informarsi con senso critico, al contrario l'allarmismo è un atteggiamento attivo, consapevole, che mira a destabilizzare una situazione per uno scopo ben preciso. Quale esso sia, questo è un quesito ancora aperto e dove fare congetture è fin troppo facile.


La narrazione


Una cosa però è certa: il bisogno di una narrazione da parte delle persone. La stragrande maggioranza di noi – come è normale – vive delle esistenze tutto sommato regolari, senza particolari momenti epici o anche solo degni di nota. Il Coronavirus cambiò in parte tutto questo. Rese le persone partecipi, le coinvolse in un racconto di cui potevano essere le protagoniste.
I media stessi e gli esperti intervistati continuavano a dirci che ognuno di noi fosse in grado di fare la propria parte e che il contributo di tutti fosse fondamentale.
Da un lato, dunque, il virus ci spaventava e ci faceva assumere spesso atteggiamenti discriminatori, ma dall'altro contribuiva a renderci responsabili. Da società individualista quale siamo, a cui si aggiunge una mentalità – quella italiana – poco incline ad assumersi una responsabilità in modo chiaro e definito, l'emergenza ci diede l'occasione di poter dimostrare che quando la situazione lo richiedeva, potevamo fare la differenza.
Ma ascoltammo davvero questa richiesta delle istituzioni e degli esperti? Fino a febbraio inoltrato, no. Nonostante fossero scoppiati diversi focolai, tra cui il più celebre era diventato quello di Codogno, i cittadini – giovani in testa – continuarono le proprie attività. Nel migliore dei casi, con qualche precauzione, come l'utilizzo di gel antibatterici, il particolare lavaggio delle mani e l'auto-quarantena nell'ipotesi di un sospetto contagio. Nel peggiore, vedemmo persone continuare a fare feste, aperitivi in centro e incontri di vario genere.
Che cosa stava succedendo? Prima di tutto, c'era stata una sottovalutazione della capacità del COVID-19 di diffondersi; questo portò ad una serie di iniziative deleterie, portate avanti anche da politici di rilievo, e che si riassume nella formula adottata al Nord, ovvero "Milano non si ferma". Poi, al momento della effettiva diffusione, i più giovani sottovalutarono l'incidenza che il virus poteva avere per i propri familiari più anziani. La mortalità rimaneva bassa rispetto ad altre malattie e il fatto che colpisse la fascia anziana della popolazione, portò molti a minimizzarne l'impatto complessivo.
La narrazione cambiò lentamente, a piccoli e incerti passi. Coinvolgendo le vite di ognuno di noi, il Coronavirus ci permise di dare un significato ulteriore alla nostra esistenza. In un futuro, avremmo forse potuto raccontare alle nuove generazioni di come avessimo vissuto durante la più grande epidemia degli ultimi decenni, raccontando del valore della libertà, narrando i piccoli e grandi eroi di quella epopea di cui eravamo stati parte.
Ovviamente, parte attiva. Perché la necessità di una narrazione rispondeva all'esigenza umana e soprattutto contemporanea di dare un significato a noi stessi, in un contesto che ci facesse apparire il più possibile come gli eroi che sapevano fin da subito come comportarsi e come agire. Tuttavia la realtà ci dimostrò che i survivalisti si contavano sulle dita di una mano. E che il loro stereotipo apparteneva solo e soltanto ai film.


Il Carnevale


A fine febbraio, non sembrava che il contagio fosse partito da cinesi residenti in Italia, bensì da italiani che, tornando dalla Cina, non avevano adottato le necessarie cautele.
Ad ogni modo, anche se il contagio avesse avuto origine da orientali nel nostro Paese, questo non avrebbe giustificato comunque le discriminazioni che avevano subìto in quelle settimane.
Oltre ad attribuire un certo buon senso ai cinesi, che si erano spesso messi in quarantena da sé, criticai la superficialità tipicamente italiana nell'affrontare con le dovute precauzioni queste situazioni. Il risultato era alla luce del sole.
E allora, nell'impossibilità di discriminare noi stessi, che cosa avremmo fatto? Da un discorso razziale ci saremmo spostati a discriminazioni di altro genere (politico, sociale, etc.).
Serve sempre un capro espiatorio di fronte all'impotenza e all'incertezza sul futuro. E io penso che la vera malattia avesse già colpito molti di noi, ma ben prima e in maniera più grave del Coronavirus.
Non c'era solo questa ironia della sorte, che dimostrava per assurdo la "democrazia" del virus e quindi della Natura, ma anche altri problemi urgenti. Perché chiudere scuole e università, mettere paesi in quarantena, ma non annullare il Carnevale di Venezia? Come si poteva chiamare tutto questo di preciso? Priorità agli interessi economici prima ancora che alla salute?
Fortunatamente, benché già in ritardo, una serie di feste di carnevale minori furono cancellate e questo portò poi le maggiori città a seguire tale tendenza. Ma quel fine settimana lungo, dal 21 al 23 sera di febbraio, il danno era stato fatto e non era quantificabile sul momento.
Quella domenica pomeriggio, nei vari telegiornali, avevano intervistato alcune persone in piazza San Marco, a Venezia. Dicevano frasi come «Sì, abbiamo paura»; «Si sono mossi in ritardo, andava fatto prima». E si trovavano in piazza per il Carnevale, ripeto.
A questo seguì una corsa in massa per acquistare gel antibatterici; non mancarono le speculazioni, che portarono a cifre esorbitanti anche per l'acquisto via web, ma per fortuna il trend fu subito sanzionato. Nello sconforto, faceva comunque sorridere il pensiero di come normalmente molte persone non si lavassero le mani nemmeno quando uscivano dai bagni pubblici, mentre ora avessero improvvisamente questa urgenza impellente.


Gli untori


Durante la peste di Milano del 1630, si generalizzò l'utilizzo del termine "untore", ad indicare chi era sospettato di diffondere il contagio ungendo persone e oggetti (porte di casa, panche della chiesa, etc.). Spesso l'ira popolare si scatenò contro queste persone, talvolta attuando vere e proprie persecuzioni anche per un semplice sospetto.
Il 25 febbraio, si diffuse la notizia del primo caso di Coronavirus a Barcellona: una trentaseienne italiana che risiedeva in Spagna, ma che era stata da poco in Lombardia.
In quei giorni, si diffusero altre notizie di italiani all'estero risultati positivi al test, al punto che finimmo sotto la lente di ingrandimento del mondo.
La triste ironia della sorte: diventare i cinesi di altri Paesi. La discriminazione ha sempre avuto questo effetto "di ritorno", ma in Italia non mancarono le reazioni di difesa. Dal governatore del Veneto in poi, si propagarono una serie di bufale. La più nota riguardava un presunto cinese che in un video mangiava dei topini vivi.
Ancora una volta, il sito 'Bufale.net' analizzò il video originale, intitolato Vietnam Food Man eats mouse e che, nelle varie ripubblicazioni, era infine diventato Ragazzo cinese mangia topi, il Video è virale. Una bufala per quale motivo? Il giovane era vietnamita, non cinese (così come noi non siamo tedeschi o francesi); inoltre, si trattava di una challenge – stupida – probabilmente mai realizzata a pieno, dato che infatti il video si interrompeva un attimo prima di mangiarli per davvero e che un istante dopo il ragazzo dovesse aver vomitato.
Guardare agli altri per non guardare a se stessi, come a voler dire "sono comunque peggio loro". Inevitabilmente, il rancore verso i cinesi trovò un rapido sfogo e si passò anche alle mani. In un articolo del 26 febbraio, 'Open' titolò: L'incubo di essere cinesi in Italia con il coronavirus: «Un ragazzo preso a bottigliate in Veneto».
Aggressioni e insulti pesanti furono registrati in diverse zone della Penisola. Soprattutto in quei giorni, cominciarono le prime chiusure in massa delle attività cinesi, dai negozi ai ristoranti. "Per ferie", così come si trovava scritto; "Per paura" era il sottotitolo. Non si ribadirà mai abbastanza come non vi sia emergenza o timore che potrà mai giustificare questo disprezzo per altri esseri umani, dal momento che non si possono assolvere le persone perché "hanno solo paura".
Dopotutto, in quei giorni il governo diceva agli italiani che potevano continuare a viaggiare nel mondo; si cercò dunque di rassicurare gli altri Stati, minimizzando. Ricordo però quando, a parità di fase, fummo i primi in Unione Europea a chiudere le frontiere con la Cina, benché la Cina stessa chiedesse clemenza in tal senso. E, giunti a quel punto, gli "altri" non avrebbero forse dovuto fare lo stesso con noi?
La 'CNN' sembrò avere le idee piuttosto chiare, quando mostrò una mappa in cui dall'Italia partivano una serie di frecce rosse verso altri Paesi, dove si erano verificati casi di Coronavirus. Partendo dal presupposto che l'immagine fosse estremamente tendenziosa, penso si potesse considerare una sorta di "trapasso dantesco" per come trattammo gli orientali.

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