Il juke box di Byung-Chul Han ha un unico disco... rotto

 


Le non cose. Come abbiamo smesso di vivere il reale (Einaudi, 2022) è uno degli ultimi saggi di Byung-Chul Han editi in Italia. Il primo libro del filosofo che lessi fu La società senza dolore (Einaudi, 2021), un testo che mi appassionò durante la pandemia e di cui ho parlato qui. Dopo quella prima conoscenza, però, qualcosa si è rotto. Voglio provare a spiegare perché.

Ne La società senza dolore, Han scrive che l’essere umano si contraddistingue per l’algofobia, la paura di provare dolore, che, a differenza degli animali, riveste un’importanza anche sul piano sociale. Per esempio in politica, dove la ricerca di un consenso non è altro che un modo di conformarsi per evitare relazioni emotive troppo impegnative.

Il potere stesso non è più oppressivo, coercitivo o doloroso, bensì permissivo e seducente: ci permette di raccontarci e – aggiunge Han – ci sorveglia con maggiore accuratezza. Il potere di cui parla il filosofo, però, è raramente quello dittatoriale di Kim Jong-un, Ali Khamenei, Vladimir Putin e Xi Jinping. Han è tutto rivolto all’Occidente e a quello che definisce il “dispositivo neoliberista”, che ci renderebbe egocentrati e incapaci di occuparci delle questioni sociali.

 

A rileggere quelle pagine, dopo una prima fascinazione, viene da chiedersi quali siano le argomentazioni addotte da Han. Perché a ben guardare si discute di neoliberismo e di controllo sociale senza però dare una definizione operativa e senza andare oltre la frase a effetto. Non si capisce, per esempio, perché la coscienza privata dal dolore giunga a reificare ogni aspetto dell’esistenza, ovvero: per quale motivo, secondo Han, il rifiuto del dolore ci renderebbe più materialisti? Il filosofo sembra imprigionato nella retorica cristiana della via crucis, ereditata dal pensiero neopuritano d’oltreoceano.

Nel saggio arriva a creare un’analogia tra i campi di lavoro dei regimi dispotici e la quarantena al tempo del Covid, con la differenza che i primi aggredivano fisicamente i corpi, mentre i secondi avrebbero sfruttato “l’ideologia della salute” per ridurre ogni altro diritto e realizzare un regime di sorveglianza biopolitica. Colpevole, ancora una volta, il neoliberismo: eppure che dire delle analoghe chiusure in Paesi come la Russia, per non parlare della politica “zero Covid” cinese? Era neoliberismo anche quello? Russi e cinesi rifiuterebbero l’etichetta con sdegno.

Un altro esempio. Han sostiene che il dolore funga da affidabile criterio di verità, a differenza della nostra società considerata palliativa, ma come può un elemento tanto intimo e individuale, come la percezione del dolore, essere valutato quale criterio obiettivo?

Segue un elogio dell’esperienza del dolore, che fortifica, anima la fantasia e realizza il tragico compimento della vita. E questo in parte è vero, come l’opinione condivisibile che l’arte non dovrebbe anestetizzare il pubblico con il politicamente corretto, ma dovrebbe mostrare il conflitto per quello che è, e magari superarlo in un processo dialettico.

 

Ne La società della stanchezza (Nottetempo, 2012), Han aveva dato un’altra definizione della società contemporanea, distinguendo tra la s. disciplinare, che vieta e obbliga il cittadino, e la s. della prestazione, che invece è permissiva e si basa su un poter fare illimitato. Entrambe hanno dei limiti: la prima produce pazzi e criminali; la seconda depressi e frustrati.

L’esaurimento mentale del soggetto contemporaneo va di pari passo con il suo ritorno a una condizione animalesca. Come un animale deve concentrarsi su più fattori per sopravvivere (la presenza di predatori, la ricerca di cibo, la difesa della prole, etc.), così l’essere umano multitasking non ha spazio per la contemplazione, per l’immersione meditativa. Tutto ciò lo prosciuga.

Ora, il termine “prestazione” assume, negli scritti successivi, l’accezione di Psicopolitica (Nottetempo, 2017), che è il titolo di un altro suo saggio. E il sostantivo si accompagna all’aggettivo “neoliberale”, in un’attribuzione del tutto arbitraria e non spiegata dall’Autore. Di nuovo, come accostare l’espressione “psicopolitica liberale” al sistema marxista-confuciano cinese?

 

Han afferma che il neoliberalismo sia una mutazione del capitalismo e che esso faccia del lavoratore un imprenditore. In questa premessa non c’è nulla di sbagliato di per sé, ma Han presuppone a priori che sia qualcosa di negativo. Il risultato di questa trasformazione sarebbe l’eliminazione della classe operaia, poiché ogni lavoratore diventerebbe padrone e servo di se stesso. Di conseguenza, una rivoluzione collettiva sarebbe impossibile.

Il filosofo attribuisce al neoliberalismo anche la trasformazione del cittadino in consumatore, dimenticando ancora una volta almeno metà del pianeta, che di neoliberalista ha ben poco, eppure continua a consumare e a crescere a ritmi accelerati, come in India e nel Sudest asiatico.

Certo la dimensione del consumatore ha oggi molto più spazio nel definire l’identità del cittadino, in un sistema che si basa sempre più su prestazioni e servizi. Ma la passività del consumatore non è ontologica: l’atto del consumo è sottoposto a una scelta da parte dell’individuo, che può dotarsi degli strumenti opportuni per distinguere il genere di consumo che preferisce. Semmai, il problema da discutere è come acuire il senso critico dell’individuo a partire dall’istruzione scolastica.

Quando Han afferma che pure la politica stia seguendo la logica del consumo e che l’elettore-consumatore reagisca solo passivamente a essa, dimentica per esempio che l’astensionismo alle urne sia tutt’altro che una forma passiva di espressione del non-consenso.

 

Un controsenso che ho riscontrato in questo saggio riguarda poi la definizione dell’odierna società dell’informazione come caratterizzata da un incremento delle parole. Invece di guardare in positivo alla possibilità di incrementare l’espressione linguistica e la qualità della comunicazione, Han vede solo il pericolo babelico di incomprensione e di rumore indistinguibile.

Viceversa, qualche pagina più avanti, afferma che oggi essere libero significhi dare libero sfogo alle emozioni: emozioni sfruttate dal capitalismo consumistico per suscitare lo stimolo all’acquisto, poiché esse, al contrario delle cose materiali, possono essere consumate all’infinito. La conclusione è che dovremmo scoprire la capacità di fare uso dell’inutilizzabile, sganciando l’oggetto dalla catena produttiva e dalla sua funzione utilitaria.

 

Questo concetto mi porta al saggio citato in apertura: Le non cose. Dopo aver attraversato queste letture del filosofo, ho trovato il libro scontato, con frasi che sembrano acute ma sono solo banali. E, soprattutto, apodittiche.

L’ennesima demolizione della società tecnologico-digitale e il disprezzo per la modernità ha ormai il sentore dell’oscurantismo, del luddismo e delle teorie della cospirazione. Colpevole globale, ancora una volta: il neoliberismo. Certo, Han tira una stoccata anche al comunismo, ma con il risultato che, alla fine, non si capisce dove voglia andare a parare. Qual è la pars construens di questo saggio? Non c’è, se escludiamo l’invito a farci guidare da un’emozione altrimenti deprecata da Han – la nostalgia – che ci riporterebbe a utilizzare vecchi oggetti, o forse ad aderire a una comunità amish.

Il filosofo distingue le cose reali dagli infomi, oggetti che ci forniscono dati e informazioni, ma che ci privano dell’esperienza “da contatto” che servirebbe a farci sentire a nostra volta reali. In tutto ciò, non ho potuto fare a meno di pensare che molti degli oggetti nostalgici che cita fossero a suo tempo considerati in negativo da molti intellettuali, a partire dalla macchina fotografica. Per non parlare delle pagine dedicate al juke box, un oggetto tanto amato dall’Autore da scriverne con toni quasi poetici: eppure si tratta proprio di un oggetto che ha ridotto la realtà (i musicisti che suonano dal vivo) in meccanica.

Considerazioni di questo livello mi fanno dire che il terrore di Han per l’universo digitale superi il naturale timore per l’innovazione e diventi un meccanismo irrazionale e, questo sì, da temere. Han è ormai un disco rotto, da ascoltare rigorosamente su supporti vintage che ci facciano sentire in pace con noi stessi e non troppo emancipati dagli oggetti.

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