Una sintesi e un’interpretazione della società senza dolore di Byung-chul Han
William Blake, The Agony in the Garden (1799-1800 ca) |
Nota: premetto che, in tempi più recenti, ho avuto modo di rivalutare il pensiero di Han, per cui rimando anche alla lettura di questo post.
Nel saggio La società senza dolore, edito in Italia da Einaudi nel 2021, il filosofo Byung-chul Han parte dal presupposto che vi sia una paura generalizzata del dolore, che definisce algofobia. (p. 5) Esso viene rifiutato, dal singolo alla comunità, per cui siamo sospetti, a livello emotivo, di fronte alle relazioni troppo impegnative e, in politica, ci si conforma alla ricerca di un consenso. In altri contesti la situazione non cambia; un esempio è dato dall’arte contemporanea: questa si adegua all’estetica del consumo; l’artista è spinto a divenire marchio; la creatività è asservita alla strategia economica. (p. 10) Viene così meno la spinta rivoluzionaria dell’arte, ovvero la capacità di fare esperienza del diverso e di poter generare, nel processo, una spaccatura.
Per anestetizzare il dolore, esso viene medicalizzato,
togliendogli ogni rapporto dialettico con la cultura e con la politica. Sono
cresciute le aspettative rispetto all’onnipotenza della medicina e il soggetto
si aspetta che questa lo liberi in ogni istante dal dolore. Gli analgesici
agiscono sul corpo, ma non fanno scomparire la sofferenza, che – diluita – si
manifesta in una serie infinita di dolori cronici. (p. 38)
Una volta guarito da un male, il soggetto non appagato
inizia ad avvertire un nuovo dolore, sempre più insignificante: a fare male è
in realtà la percezione dell’insensatezza della vita. (p. 34) Secondo il
filosofo Ernst Jünger, citato spesso da Han, «la noia non è altro che dolore
diluito nel tempo.» (p. 38)
L’imperativo odierno recita: sii felice. In tale ricerca, il
soggetto crede di agire in totale libertà, coadiuvato da “sistemi di benessere”
che lo accompagnano, o lo condizionano. Il rischio è evidente: «Il Sii libero crea una costrizione più
disastrosa del Sii obbediente.» (p.
16)
Han non cita Huxley, forse perché è ormai divenuta una moda,
o forse perché non è del tutto aderente al suo pensiero, eppure – alla base –
la società che ha abolito il dolore è molto simile nei due autori. Huxley
potrebbe essere letto come una possibile declinazione concreta delle teorie di
Han.
Il potere non è più doloroso; non è oppressivo. Il potere è
permissivo e seducente; ci permette di raccontarci, di esprimere i nostri gusti
e interessi. Tanto più ci mettiamo a nudo, con il nostro consenso, tanto più
informato diviene il potere: «La libertà e la sorveglianza diventano
indistinguibili.» (p. 17)
La felicità si riduce a una questione solo privata e ogni
dolore è interpretato dal soggetto come un suo personale fallimento (p. 19):
Il dispositivo neoliberista della felicità ci distrae dai
rapporti di dominio vigenti costringendoci all’introspezione. Fa sì che ognuno
si tenga occupato solo con se stesso, con la propria psiche, invece di indagare
criticamente le questioni sociali. (p. 17)
In questo quadro, a livello socio-politico, distinguo tra
idealizzazione e ideale. Quest’ultimo trova le sue radici nella realtà, mentre
la prima è un concetto ottenuto per via teorica, dopo una dieta all’ingrasso in
un loop di feedback positivi. Uno dei problemi odierni è l’idealizzazione della
causa, che porta ad atteggiamenti mentali poco flessibili e assolutizzanti. I
social alimentano l’ego; la rete stessa è costituita da algoritmi che mirano a
fornire conferme rassicuranti al soggetto, che quindi non si confronta con
l’Altro, ma interagisce solo e soltanto con i suoi simili. Così
l’idealizzazione della causa progredisce e si trasforma in un feticcio,
indiscutibile e inattaccabile, in quanto ci fa sentire rassicurati.
D’altra parte, il fatto che si ripudi il dolore non equivale
ad averlo eliminato. Solo, diviene più complicato affrontarlo come una naturale
parte della vita. E la coscienza si atrofizza, non prova più nulla, fino a reificare
ogni aspetto dell’esistenza. (p. 11)
L’odierna inesperienza nel riconoscere i rapporti di dominio
nella società porta anche ad altri errori grossolani. Di recente abbiamo visto
i video dei manifestanti contrari al Green Pass, alcuni dei quali vestiti da
deportati dei lager nazisti. Leggendo un passaggio di Han, credo di aver
individuato la fonte del loro gesto inqualificabile: una generalizzazione di un
pensiero che il filosofo ha espresso in modo molto più profondo.
Han distingue i campi di lavoro dei regimi dispotici dalla
quarantena al tempo del Covid: quest’ultima è una variazione neoliberista, che non aggredisce fisicamente la dignità
e i corpi, ma sfrutta l’ideologia della salute come strumento indiscutibile, da
cui far dipendere ogni altro diritto. (p. 23)
Il vantaggio del dolore è di essere «un affidabile criterio
di verità», per cui la «società palliativa è una società senza verità, un
inferno dell’Uguale.» (42)
La paura è un concetto che Han non pone esplicitamente in
relazione al dolore. Essa però appare una chiave di lettura per spiegare per
quale ragione il soggetto, in nome della sopravvivenza
confortevole (p. 43) rifiuti la vita, che è anche esperienza del dolore. Questo
la articola, evitando di scadere nell’indifferenza.
«Il dolore anima la fantasia» e permette la realizzazione
del tragico, come inteso da Nietzsche, ovvero il compimento della vita non
nonostante il dolore, ma grazie a esso. (p. 49) E così nella letteratura,
ritroviamo scrittori quali Kafka, Proust e altri che, pur soffrendo, furono
consapevoli che il dolore li rendeva vivi tramite la loro arte. (p. 47)
Nella concezione odierna, invece, il dolore è visto come un
vicolo cieco. Non una possibilità di avviare un racconto, ma un elemento da
guarire prima di poter procedere
oltre. Ciò si risolve, però, in una crisi di idee (p. 50): per mezzo della
digitalizzazione, siamo in grado di comunicare, pubblicare e condividere come
mai prima nella storia, eppure lo stato di anestesia in cui viviamo permette al
massimo di suggerire un’idea nuova, ma non di portarla alle sue estreme
conseguenze. Per farlo, si dovrebbe accettare una spaccatura, dolorosa, che non
si accorda con il contemporaneo “ecumenismo sociale”, con quella che Han chiama
la prosa della compiacenza. (p. 51)
Riprendendo Hegel, Han afferma che lo spirito si conservi
nella contraddizione, quindi nel dolore. (p. 52) Un modo per affrontare il
dolore è riconoscere la sua natura di indisponibilità. Nella società liberista,
ci fa rabbrividire l’idea di non poter avere tutto a disposizione. Per Han, lo
vediamo anche nel concetto di sostenibilità ambientale. Essa prevede comunque
un intervento umano, talvolta a tutti i costi, purché rispetti determinati
standard, un certo limite della decenza. Ma salvare la Terra, oggi, presuppone
un altro rapporto con essa: significa risparmiarla,
riconoscerne l’indisponibilità per mantenerla inalterata. (p. 62)
La cura per la natura richiede anche la distanza, un altro
concetto che ci fa inorridire nell’éra digitale. Han distingue l’ordine
terragno (narrativo) dall’ordine digitale (numerico), quest’ultimo basato sulla
trasparenza dei dati e sulla totale messa a disposizione. (p. 63)
In ultima analisi, il filosofo sostiene che la società
palliativa non presuppone per forza la democrazia liberale. Ritiene anzi che la
pandemia comporti un regime di sorveglianza biopolitica, poiché le necessità
sanitarie della società della sopravvivenza obbligano a rinunciare ai princìpi
liberali. (p. 75) Qualcosa che stavamo già vivendo negli ultimi anni, nelle
piattaforme digitali, che trasformano il comportamento umano in dati che
permettano di prevedere le azioni e i pensieri. (p. 76)
Per il cosiddetto “ultimo uomo”, la tutela della comfort zone ha un valore superiore
della libertà, che può comportare invece una lotta dolorosa. Al contrario, il
soggetto «costruisce dentro di sé una dittatura
interiore, un regime di controllo
interiore.» (p. 77) Nessuna parata militare per le strade; nessun leader
minaccioso sulle pareti di cemento; nessun campo di concentramento. Quella era
un’altra storia, diversa. Oggi il soggetto si chiude in casa, ordina un nuovo
vestito su uno store online, mentre guarda la serie tv del momento. Sta bene,
vuole continuare a stare bene, perché la prospettiva di qualcos’altro, qualcosa
di incerto, fa paura. Fa paura l’idea di poter provare dolore.
«L’ultimo uomo si sente quindi libero, nel regime
biopolitico. Dominio e libertà tornano a collimare.» (p. 78)
Secondo Han, non ci sarà una regressione nel passato: ci
attende l’éra postumana. Per il transumanista David Pearce, il futuro sarà
privo di dolore, perché anche la noia dell’ultimo uomo sarà sconfitta con la
biotecnica. (p. 79) A quel punto, la vita, privata del dolore, non potrà però
più considerarsi vita umana.
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