Antisemitismo e sionismo secondo uno scritto di Abraham B. Yehoshua



Il 14 giugno 2022 è morto Abraham "Boolie" Yehoshua, uno dei più importanti scrittori della letteratura israeliana contemporanea, e non solo. Scoperto in Italia dalla casa editrice Giuntina, le sue opere hanno avuto una vasta eco grazie a Einaudi. Tra i romanzi più famosi, Viaggio alla fine del millennio (1997).

Yehoshua scrisse anche racconti e opere teatrali, nonché saggi, come quello di cui scrivo oggi: Antisemitismo e sionismo. Una discussione, edito da Einaudi. Seguendo il testo pagina dopo pagina, ne ho tratto una sorta di compendio.

 


L'antisemitismo


In apertura, Yehoshua si domanda se vi sia un legame tra l’antisemitismo dell’antichità e quello di epoca moderna. Egli ritiene che gli accademici non prendano in considerazione, come dato analitico, «l’idea di una radice comune all’odio per gli ebrei in ogni tempo e luogo». (5)

Yehoshua ricerca una radice unica a tale odio, senza però fare riferimento a specifici motivi religiosi, nazionalisti, socio-economici. Trova anche che abbia un che di ridicolo il fatto che gli ebrei discutano con tanta foga sulla loro identità, pur essendo un popolo più antico di tremila anni. (9)

L’Autore prende spunto dal Libro di Ester e dalla figura letteraria di Haman ben Hamdata, persecutore di ebrei in quell'opera, da cui emergono due elementi: il popolo ebraico era non solo disperso, ma diviso, ovvero poteva avere costumi e lingue diverse da luogo a luogo. (18) Era però accomunato dalla religione, in forma di leggi e di riti, respingendo le altre fedi e mettendo in secondo piano le leggi locali. (23) Haman – personaggio nato comunque in àmbito ebraico – prevedeva già, come soluzione a questo carattere indomito, lo sterminio.

Yehoshua fa dunque notare che l’antisemitismo esistesse ben prima che lo Stato di Israele fosse fondato (1948) o che facesse conquiste come quella della Cisgiordania (1967). (26) Egli intende quindi approfondire quella che chiama «la pericolosa interazione patologica che talvolta si crea tra gli ebrei e i loro vicini». (29)

Yehoshua condivide l'idea del sionista polacco Leo Pinsker, secondo cui l’odio per gli ebrei fosse dovuto alla paura: da medico, Pinsker riportò il problema sul piano individuale più che sociale, motivo per cui fenomeni religiosi o politici non condizionano per forza l’antisemitismo (p. es. il Cristianesimo non è in sé antisemita, ma in certi momenti storici può aver alimentato quell’atteggiamento). (31)

Meno probabile della paura è il movente dell’invidia, poiché nella storia degli ebrei – perseguitati, impoveriti e sanzionati – non ci sarebbe nulla da invidiare. (33) Per provare il peso della paura, Yehoshua cita lo stesso Hitler, che prima di suicidarsi affermò di aver sottovalutato l’influenza degli ebrei sugli inglesi: «In altre parole, [Hitler], dopo la terribile catastrofe causata a quei poveracci, mostra ancora di temere la loro “immane” forza e attribuisce la sua tremenda sconfitta non ai russi o alle forze alleate, ma all’ebraismo internazionale, dimostratosi impotente a salvare i propri connazionali da uno sterminio senza uguali nella storia umana». (35)

Dal movente dell'antisemitismo, Yehoshua passa all'analisi dello stretto legame, nel popolo ebraico, tra religione e nazionalità: emerge così una spiccata capacità di mantenere viva l’identità, in luoghi diversi, attraverso uno «schema di solidarietà collettiva». (41) L’idea però che vi sia un destino comune di tutti gli ebrei non convince lo scrittore, poiché la comunità, essendo molto varia e distribuita nel mondo, va invece incontro a sorti diverse a seconda del territorio. (47)

Proprio questa identità flessibile, dai confini sottili, porta chi non è ebreo ad affidarsi a pregiudizi o a costruzioni mentali legate alla cultura di appartenenza. Il gentile, interagendo con un ebreo, entra a contatto con quella che Yehoshua definisce la “componente virtuale”: se il gentile ha un’identità travagliata o non ben definita, l’interazione può portare a forti squilibri o a violenza: «L’ebreo diventa quindi una sorta di testo dalle discrepanze enormi che invita a svariati tipi di lettura, conformi ai bisogni intimi del lettore». (50) E talvolta questa patologia del singolo può divenire collettiva. (53)


Il sionismo


Nell’ultima parte di questo libricino, Yehoshua si concentra sul sionismo. Egli non lo ritiene un’ideologia, bensì «una piattaforma comune a ideologie diverse e talvolta contraddittorie». (65) Il sionismo ha rappresentato l’anelito del popolo ebraico a fondare un proprio Stato, pur partendo da differenti visioni socio-politiche del mondo. Per certi versi, esso ha avuto successo in quanto nato nella “periferia” dell’ebraismo, e non nei suoi nuclei (p. es. Varsavia), dove sarebbe stato molto più avversato.

La stessa diaspora viene letta dall’Autore in maniera critica: fu una scelta volontaria, per quanto sofferta e rischiosa, tanto che nei secoli successivi il popolo ebraico, pur potendo tornare nella sua terra, non vi fece ritorno (a metà del XIX secolo vivevano in Israele solo cinquantamila dei circa diciassette milioni di ebrei sparsi nel mondo). (76) E, se vi fece ritorno, poi riprese a migrare. (77)

Yehoshua auspica che vi sia una separazione tra identità nazionale e religiosa, e non solo a livello di Stato e religione, in modo tale che «l’ebraismo si trasformi in un fattore culturale e artistico di primaria importanza per molti ebrei che scelgano di appartenere a una religione diversa o a nessuna religione […]». (87) Ed è così che Israele potrà estendere il diritto di cittadinanza a più musulmani e cristiani, «integrandoli nel suo tessuto sociale». (88)


L'edizione che ho citato è la seguente: Abraham B. Yehoshua, Antisemitismo e sionismo. Una discussione, Einaudi, Torino, 2004. Le pagine citate: 5, 9, 18, 23, 26, 29, 31, 33, 35, 41, 47, 50, 53, 65, 76, 77, 87, 88.

Di antisemitismo ho scritto ancora su questo blog: qui e qui.

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