Antisemitismo e genocidio. L'identità ebraica dall'Ottocento a oggi
Nell’ultimo decennio dell’Ottocento, lo scrittore Theodor Herzl scriveva nel suo diario che intendeva «risolvere almeno in Austria la questione ebraica con l’aiuto della Chiesa cattolica» [1]. Descriveva quindi una cerimonia di battesimo, al duomo di Santo Stefano, con cui i giovani ebrei austriaci avrebbero potuto convertirsi al cristianesimo.
In questa prima
fase, Herzl pensava che la questione potesse risolversi in termini di identità
e che, integrandosi anche a livello religioso, gli ebrei avrebbero potuto
prendere parte alla società austro-ungarica senza pregiudizi di sorta. La
realtà era tuttavia più articolata e all’identità si aggiungeva il tema della
razza, sempre più determinante a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, in
pieno clima darwiniano e positivista.
La Chiesa stessa
si manteneva su una sottile linea di confine, così come era stato fin dalle sue
origini, alternando a seconda del periodo storico due visioni: da un lato, l’ebreo
come figura scelta da Dio stesso, nell’Antico Testamento, per compiere la
propria volontà in terra e, di conseguenza, come figura da proteggere da parte
dei cristiani, che di quella testimonianza erano eredi. Dall’altro lato,
l’accusa di deicidio, mossa contro gli ebrei in quanto responsabili della morte
di Cristo.
Nel caso
specifico italiano, gli ebrei avevano partecipato attivamente, con spirito
patriottico, al Risorgimento, tanto più «che la posizione degli ebrei nel Regno
d’Italia fu costantemente caratterizzata dalla spinta all’assimilazione, tipica
del resto di una comunità di individui relativamente piccola» [2]. Il
processo risorgimentale coinvolse l’identità degli ebrei italiani e ciò in
parte stimolò le accuse della Chiesa, attraverso giornali come “Civiltà
cattolica”, che associò «in blocco il giudaismo alle eresie dei tempi moderni,
a cominciare dai famigerati “diritti dell’uomo”, dei quali si diceva che
fossero stati “inventati da’ giudei, per fare che i popoli si disarmassero,
nella difesa contro il Giudaismo”» [3].
Parallelamente,
gli ebrei si integrarono anche nella società statunitense e, dal 1910 circa, la
loro situazione cominciò a migliorare insieme all’economia americana, uscita
dalla crisi economica: «Iniziava un lento processo di ascesa al ceto medio di
una parte degli ebrei immigrati […]. A New York, gli ebrei cominciavano a
lasciare l’East End e a spargersi nelle città» e nel primo dopoguerra essi «si
avviavano a diventare un ceto medio fortemente inserito nella vita del paese e
una forza di opinione non indifferente nella successiva storia degli Stati
Uniti» [4].
Tuttavia, anche
negli USA non mancarono le contraddizioni: dal 1932 al 1944, gli ebrei che
avevano votato per Franklin Delano Roosevelt passarono dal 70% al 90%, e il
presidente concesse loro cariche governative prima inaccessibili [5]. Ciò
nonostante, questo non portò mai il presidente ad abrogare la legge restrittiva
sull’immigrazione (Johnson-Reed Act, 1924), affinché i perseguitati dal nazismo
potessero trovare rifugio negli Stati Uniti.
Lo stesso
sionismo americano fu spesso ostacolato, poiché si vedeva in questo movimento
una “incompatibilità identitaria”. Fu l’avvocato Louis D. Brandeis a chiarire
la situazione:
Più lealtà sono
contestabili solo se c’è tra esse incompatibilità. […] Ogni ebreo americano che
si adopera per promuovere la colonizzazione ebraica della Palestina, pur
pensando che né lui né nessuno dei suoi discendenti vi vivrà mai, sarà per
questo un uomo e un americano migliore. [6]
Se però le
situazioni italiana e statunitense erano relativamente positive per gli ebrei,
diversa era la situazione in Russia e nei Paesi dell’Est Europa. Dopo la
parentesi dello zar Alessandro II, che regnò dal 1855 fino al suo assassinio
nel 1881, migliorando in modo significativo la condizione degli ebrei russi, si
scatenò una serie di pogrom, a partire da quello di Elizavetgrad (aprile 1881).
La situazione degenerò non solo in Russia, ma anche in Paesi come la Romania,
che dal 1899 al primo decennio del Novecento aveva visto emigrare un terzo
della popolazione ebraica negli Stati Uniti. «Un esodo anche illegale, come nel
caso dei fusgeyers (i camminatori),
gruppi organizzati di giovani ebrei che attraversavano clandestinamente a piedi
il confine tentando di raggiungere Amburgo e di là imbarcarsi per l’America» [7].
Qualcosa sembrò
cambiare con la Rivoluzione russa, alla quale presero parte molti ebrei, e nel
1927 Stalin portò avanti un progetto per la formazione di uno Stato ebraico
nell’Urss, in Birobigian. Esso divenne realtà nel 1934, benché la popolazione
ebraica fosse molto ridotta, ma dal 1936 la politica staliniana cambiò:
Venne accelerata
la spinta verso l’assimilazione, con lo smantellamento sistematico di tutte le
autonomie ebraiche e la sezione ebraica del partito fu sciolta. Le grandi
purghe degli anni Trenta colpirono fortemente i dirigenti comunisti ebrei e in
genere quanti avevano sostenuto la politica delle nazionalità. [8]
L’identità
nazionale non fu dunque un fattore che contribuì concretamente a ridurre la
discriminazione nei confronti degli ebrei. I pregiudizi e la vera e propria
mitologia antisemita erano già ben radicati in Occidente e ruotavano intorno a
teorie del complotto, che facevano degli ebrei gli artefici occulti delle sorti
delle nazioni. A ciò si aggiungevano le accuse di omicidi rituali, che spesso
coinvolgevano bambini, e non ultime le teorie razziste. «Le tre mitologie
adempiono alla stessa funzione: additare un responsabile della complessità
della vita moderna, ed additarlo nell’ebreo, interpretato come naturalmente
diverso, come naturalmente ostile al non ebreo […]» [9].
In sostanza,
l’ebreo fu avvertito come sempre più diverso a livello – si potrebbe dire – genetico,
oltre che culturale. In tal senso, gli studi di eugenetica – un termine coniato
dal naturalista Francis Galton nel contesto del darwinismo sociale – si
basavano «sulla credenza che i fattori ereditari fossero assolutamente
prioritari rispetto alle modifiche apportate dall’ambiente e dalle vicende
storiche» [10].
Questi studi
ebbero una vasta eco anche tra le due guerre mondiali e in Italia si
svilupparono inoltre «proposte di miglioramenti della razza fortemente
orientate sulla centralità della politica di natalità destinate a costituire le
premesse di una variante del razzismo tutta italiana» [11], che
si opponeva al razzismo neopagano del Nord Europa. Questa concezione portò
prima di tutto alla discriminazione degli abitanti autoctoni delle colonie
italiane, alla critica della promiscuità tra italiani e indigeni, alla satira e
alla propaganda che tendevano a ridicolizzarne tanto i tratti fisici quanto
l’intelligenza e la personalità [12].
Peraltro, il
razzismo “scientifico” funse da punto di partenza per ulteriori speculazioni,
di ordine filosofico, rintracciabili per esempio negli scritti di Julius Evola,
che individuarono persino una giustificazione superiore, “spirituale”, per
discriminare gli ebrei e le altre razze ritenute inferiori. Uno strano punto di
incontro, purtroppo tutto in negativo, nel rapporto tra scienza e spiritualità.
Ma perché questo
accanimento proprio contro gli ebrei? Si potrebbero citare numerosi precedenti
storici per segnalare questo odio persistente, per esempio del tempo delle
crociate, o durante la Riforma luterana, ma per non allontanarci
dall’Otto-Novecento, basterà citare i Protocolli
dei Savi di Sion.
I Protocolli sono un’opera che si diffuse
alla fine dell’Ottocento, forse attraverso la polizia segreta zarista, e che
rappresenta un plagio di un testo di Maurice Joly contro Napoleone III:
reinterpretato e stravolto con interpolazioni di varia natura, il testo definitivo
dei Protocolli fu inteso dagli
antisemiti come un documento “storico” che dimostrava il complotto ebraico
internazionale. Riproponendo i pregiudizi, le teorie del complotto e gli
omicidi rituali, questo testo rese evidente quel tentativo di semplificazione
della realtà, tutta riconducibile – nei suoi aspetti negativi – ad un
minaccioso capro espiatorio, che mirava appunto a sconvolgere la civiltà
occidentale.
Ma i Protocolli non furono che il risultato
di una serie di teorie che da lungo tempo circolavano per l’Europa, a partire
almeno dai tempi della Rivoluzione francese, un evento visto come il risultato
di una cospirazione secolare che prevedeva ebrei, massoni, illuminati e molte
altre categorie. Una simile idea era condivisa per esempio da un uomo di Chiesa,
l’abate Augustin Barruel, che nei cinque volumi di Mémoire pour servir à l’histoire du Jacobinisme, partendo dallo
scioglimento dell’Ordine dei templari (1314, che egli fa proseguire come
società segreta), si spinge a descrivere una serie di organizzazioni sospette,
dalla massoneria agli illuminati, dagli enciclopedisti Diderot e D’Alembert a
Voltaire, che avrebbero a loro volta fondato una presunta accademia segreta [13].
Un altro
scrittore, Henri Gougenot des Mousseux, scrisse in seguito L’ebreo, il giudaismo e la giudaizzazione dei popoli cristiani
(1869), che si concentrava in particolare sul legame tra ebrei e massoneria,
sebbene «i teorici del complotto non hanno però notato (o forse non hanno
voluto prendere in considerazione) il fatto che originariamente agli ebrei
fosse interdetto l’accesso alle logge massoniche» [14].
Di fronte a un
tale clima fatto di sospetti ed emarginazione, qui appena accennato, non è
difficile comprendere perché Theodor Herzl avesse pensato inizialmente alla
strada della totale assimilazione degli ebrei. In seguito – come è noto –
cambiò opinione e diede un decisivo impulso al sionismo. Un sionismo che era
però spesso intriso di utopia, come in Altneuland
(o Tel Aviv, 1902):
In questo
romanzo Herzl ha dipinto una società idealizzata, in cui ebrei e arabi vivono
in pace fa loro, non esistono quasi conflitti politici e dove si vengono a
fondere tutti gli aspetti migliori dei paesi europei: colleges inglesi, teatri d’opera francesi e naturalmente caffè e
salatini austriaci. [15]
La fuga nell’ideale
era però solamente una parte di un universo più vasto, e furono non pochi gli
scrittori ebrei “disincantati” di fronte a questa prospettiva edenica, come Ahad
Ha’am, il quale viaggiando in Palestina ripetute volte aveva potuto constatare
quali fossero i pregiudizi occidentali rispetto al Medio Oriente, quali le
difficoltà tecniche (terre difficili da seminare, etc.), quali le prevedibili
ragioni di conflitto con gli autoctoni [16].
Senza contare
che gli ebrei occidentali, pur mantenendo vive le proprie tradizioni, si
sentivano parte di specifiche identità nazionali, di una cultura condivisa
anche con non ebrei, e che la prospettiva di emigrare in Palestina non sembrava
così allettante, se non per quella parte di ebrei dell’Europa dell’Est che
subirono i pogrom.
Mentre tuttavia
il confronto all’interno del sionismo si faceva sempre più acceso,
l’intolleranza verso gli ebrei si fece a poco a poco più grave e, con l’ascesa
al potere del fascismo e del nazismo, l’odio anti-ebraico trovò una
legittimazione nelle legislazioni di Italia e Germania.
Nei primi cinque
anni e mezzo di dittatura nazionalsocialista, la condizione degli ebrei
peggiorò drasticamente. Ecco una piccola parte dei provvedimenti: nel 1933 fu
ridotta la quota di ebrei ammessa nelle scuole (Legge contro il
sovraffollamento delle scuole e delle università); nel 1935 gli ebrei furono
esclusi dal servizio militare e furono varate le Leggi di Norimberga, che tra i
vari provvedimenti relegavano gli ebrei a cittadini di seconda classe e vietavano
i matrimoni tra ebrei e non ebrei; nel 1938, i medici ebrei persero
l’autorizzazione all’esercizio della professione, presto seguiti da avvocati e
altri gruppi professionali; nel 1938, fu introdotta una speciale carta d’identità
per il riconoscimento degli ebrei e l’inserimento della lettera “J” sui
passaporti [17].
In questo
crescendo, l’Italia fascista contribuì senza sconti. Per citare un esempio esplicito,
dall’ambiente clerico-fascista proveniva uno scritto di Gino Sottochiesa, dal
significativo titolo Sotto la maschera
d’Israele (1937). L’autore segnalava alcuni “punti fermi”, da considerare
come verità ormai evidenti di per sé: 1) l’ebraismo costituiva una nazione
dispersa nel mondo e non solo una religione; 2) gli ebrei dovevano quindi
essere considerati stranieri e/o nemici dello Stato; 3) gli ebrei,
considerandosi il popolo eletto, avrebbero voluto conquistare tutti i popoli e
la loro minaccia era assimilabile a quella comunista, per il suo
antinazionalismo; 4) l’ebraismo rappresentava l’anti-cristianesimo per
eccellenza; 5) il sionismo era per costituzione nemico del fascismo, per il
legame tra l’agognato Stato ebraico e l’Inghilterra, nonché per il fatto di
rappresentare il bolscevismo sulla sponda orientale del Mediterraneo [18].
Nello stesso
anno, Giovanni Preziosi aveva pubblicato, nella rivista “Vita italiana”, i Dieci punti fondamentali del problema
ebraico, riassumibili in questi concetti: gli ebrei sono comunque fedeli
alla loro tradizione, che si esplicita in un “modo d’essere”; esiste
un’Internazionale Ebraica; l’ebreo rimane tale al di là della nazionalità e
persino nel caso di una conversione al cristianesimo; la razza ebraica è
decretata dalla biologia e dalla stessa legge veterotestamentaria, che
convalida il dominio ebraico sul mondo intero; la legge ebraica impone la
distruzione di ogni società al fine di realizzare il regno ebraico; l’unica
soluzione all’instaurazione di questo regno è contrapporgli un nuovo impero,
sul modello dell’antica Roma [19].
Almeno due sono
i punti di incontro tra i testi di Sottochiesa e Preziosi, ovvero il fatto che
la questione ebraica doveva essere affrontata da un punto di vista razziale,
quindi biologicamente immodificabile, e dalla certezza che gli ebrei agissero a
livello sovrastatale, tramite istituzioni segrete o occulte, per realizzare i
propri scopi. Il tutto mai davvero dimostrato, con evidenti forzature e
controsensi (p.es. il presunto controllo britannico di uno Stato ebraico
definito in realtà bolscevico). Questi discorsi apodittici non sarebbero mai
stati possibili senza un pregiudizio antisemita radicato ormai da lunghi
decenni in tutta Europa, Italia compresa.
A ciò si
aggiungeva un altro problema. Se la convinzione era ormai che gli ebrei
avrebbero potuto controllare il mondo pur essendo dispersi nei vari Stati,
nemmeno la migrazione era un’alternativa possibile. Se nei primi anni della
dittatura nazista fu possibile fuggire, ciò divenne estremamente rischioso,
quando non impossibile, negli anni successivi.
Come accennato,
nel 1938 furono introdotti in Germania particolari passaporti, oltre ad altri
segni distintivi per gli ebrei, che li rendessero facilmente identificabili e
ne favorissero il riconoscimento in caso di fuga. D’altra parte, la confisca
dei beni e l’impossibilità di praticare molte professioni, impoverì gli ebrei e
questo sortì un ulteriore effetto: «Nessun paese di emigrazione è interessato
ad accogliere emigrati poveri, e una delle perfide speranze del regime,
esportando l’antisemitismo, consisteva appunto nel trasformare gli ebrei
cacciati dalla Germania in un problema sociale per i paesi di accoglienza» [20]. E
come esempio su tutti, abbiamo già citato a riguardo il presidente Roosevelt.
Parallelamente,
nella Dichiarazione sulla razza del Gran
Consiglio del fascismo (6-7 ottobre 1938), si stabiliva il divieto di
entrata e l’espulsione degli ebrei stranieri: «Il Gran Consiglio del Fascismo
ritiene che la legge concernente il divieto d’ingresso nel Regno, degli ebrei
stranieri, non poteva più oltre essere ritardata, e che l’espulsione degli
indesiderabili – secondo il termine messo in voga e applicato dalle grandi
democrazie – è indispensabile» [21].
Si delineò così,
sempre più, una “prigionia” degli ebrei all’interno dei singoli Stati, che
divenne effettiva prima di tutto in Germania. Il 20 maggio 1941, una circolare
dell’Ufficio centrale per la sicurezza nazionale, dopo aver ordinato il divieto
di concedere i passaporti agli ebrei tedeschi residenti in Belgio e in Francia,
affermava che fosse necessario impedire ogni migrazione di ebrei, «in
considerazione della certezza di una prossima soluzione finale della questione
ebraica» [22].
Come si domanda in maniera retorica Wolfgang Benz:
Quale altro
scopo avrebbe potuto avere l’impedimento dell’emigrazione di ebrei se non la
volontà di trattenerli nell’area di influenza tedesca per poterne disporre e
quindi per sterminarli? [23]
La persecuzione
e lo sterminio degli ebrei nel corso della seconda guerra mondiale segnarono
uno spartiacque per il mondo e in particolare per l’Occidente. Ciò nonostante,
già nell’immediato dopoguerra vi furono episodi che fecero comprendere come in
effetti il nazi-fascismo avesse portato alle estreme conseguenze
l’antisemitismo, ma che quest’ultimo fosse comunque radicato in tutte le
società occidentali (si pensi all’esempio emblematico di Henry Ford, che
finanziò la pubblicazione di mezzo milione di copie dei Protocolli e scrisse numerosi articoli contro gli ebrei).
Il caso della
nave Exodus è significativo. Per la convinzione che molti profughi ebrei
fossero in realtà nazisti in fuga dall’Italia, gli inglesi si rifiutarono di
far partire prima le navi Fede e Fenice, poi la Exodus. Per le prime due, la
minaccia di un suicidio collettivo da parte dei profughi e lo sciopero dei
portuali di Genova permisero la partenza. Diverso il caso della Exodus: partita
dalla Francia nel luglio del 1947, fu attaccata dagli inglesi, che causarono
due vittime. Costretti a sbarcare in Francia, i profughi si rifiutarono e
furono obbligati con la forza a sbarcare ad Amburgo, per poi essere internati
in due ex campi di concentramento nazisti, a Lubecca e a Poppendorf.
«Un membro della
delegazione Unscop [United Nations Special Committee on Palestine], Bartley
Cramm, dichiarò che la vicenda dell’Exodus avrebbe avuto lo stesso effetto
della rivolta del tè a Boston nel 1776» [24]. La
nuova sensibilità verso i perseguitati e certo anche il senso di colpa della
società occidentale contribuirono alla nascita dello Stato di Israele, dopo
decenni di tentativi incerti.
Dall’altro lato,
il mondo occidentale dovette cominciare a riflettere su quanto fosse accaduto,
a partire anche dal fatto che molti nazisti coinvolti direttamente nello sterminio
riuscirono a fuggire e a vivere impuniti talvolta fino alla morte.
Particolarmente
importante fu il processo, tenutosi fra il 1947 e il 1948, contro ventiquattro
ufficiali delle Einsatzgruppen,
responsabili dell’assassinio sul fronte orientale di oltre mezzo milione di
ebrei, che si concluse con quattordici condanne a morte, di cui solo quattro,
tuttavia, eseguite. Alla fine degli anni Cinquanta tutti i condannati erano già
in libertà. Molti dei principali responsabili, compreso il famoso dottor
Mengele, che diresse gli esperimenti sui prigionieri ad Auschwitz, erano
riusciti, spesso grazie all’aiuto del Vaticano, a fuggire e a trovar rifugio in
America Latina. [25]
Fu peraltro
proprio la Chiesa a voler rivalutare in modo diverso il rapporto tra cristiani
ed ebrei. Dal Concilio Vaticano II giunse un cambio di prospettiva non del
tutto inedito nella storia della Chiesa. Nel paragrafo 4 della dichiarazione Nostra Aetate, fu cancellata la colpa
del deicidio, sebbene non senza forti contrasti durante i lavori, e
nell’incipit fu scritto: «Scrutando il mistero della Chiesa, il sacro concilio
ricorda il vincolo con cui il popolo del Nuovo testamento è spiritualmente
legato alla stirpe di Abramo» [26].
Ciò nonostante,
questa enunciazione non diceva nulla a proposito delle responsabilità del
Vaticano stesso e di come avesse sempre mantenuto rapporti quantomeno ambigui
con il nazi-fascismo.
La Shoah rimane tuttora un problema aperto, benché se ne
parli con frequenza, oltre ad essere una ferita aperta per molti ebrei che
attraverso l’arte, il cinema, la storia e molte altre attività sono in qualche
modo spinti ad un confronto con un evento che ha stravolto in modo indelebile
la coscienza collettiva, ebraica e non.
Il concetto di
memoria è diventato parte integrante del pensiero occidentale, aprendosi
inoltre anche al ricordo delle altre vittime dello sterminio, dai rom agli
omosessuali, fino a minoranze di cui spesso ancora oggi si ignora la
persecuzione, come i massoni internati ad Auschwitz. Persino il concetto di
identità è oggi cambiato e di conseguenza anche il significato di essere ebrei
o di rappresentare comunque una minoranza. Significativamente, Anna Foa
conclude con le seguenti parole il suo libro sulla diaspora; parole che
sottolineano alcune domande ancora aperte a distanza di decenni, che possono
però contare oggi su società multiculturali che hanno gli strumenti critici, storici
e sociali per affrontare le minacce sempre presenti del razzismo, del
pregiudizio etnico e della discriminazione:
Chi è ebreo
oggi? Colui che si mantiene dentro i confini dell’identità religiosa, come gli
ebrei della tradizione, colui che si identifica con la storia del mondo
ebraico, come gli ebrei tedeschi della fine dell’Ottocento, chi si trasferisce
a vivere in Israele, chi domanda al proprio ebraismo di rappresentare l’uomo
nella sua universalità? È forse il momento di pensare a quali valori si
vogliono trasmettere, a quali sono soltanto oggetti in una vetrina di museo, a
quali possono essere vitali forme identitarie che contribuiscano a costruire il
mondo di oggi e ad inventare quello di domani. [27]
Bibliografia
Benz W., I Protocolli dei Savi di Sion. La leggenda
del complotto mondiale ebraico, Mimesis, Milano, 2009
Benz W., L’Olocausto, Bollati Boringhieri,
Torino, 1998
Brenner M., Breve storia del sionismo, Laterza,
Bari, 2003
Collotti E., Il fascismo e gli ebrei. Le leggi razziali
in Italia, Laterza, Bari, 2003
Foa A., Diaspora. Storia degli ebrei nel Novecento,
Laterza, Bari, 2011
[1] M. Brenner, Breve storia del sionismo, Laterza,
Bari, 2003, pp. 27-28.
[2] E. Collotti, Il fascismo e gli ebrei. Le leggi razziali
in Italia, Laterza, Bari, 2003, p. 10.
[3] Ivi, p. 6.
[4] A. Foa, Diaspora. Storia degli ebrei nel Novecento,
Laterza, Bari, 2011, p. 7.
[5] Dati tratti da A. Foa, Diaspora…, op. cit., p. 42.
[6] M. Brenner, Breve storia…, op. cit., p. 111.
[7] A. Foa, Diaspora…, op. cit., p. 16.
[8] Ivi, p. 39.
[9] Ivi, p. 54.
[10] Ivi, p. 70.
[11] E. Collotti, Il fascismo…, op. cit., p. 29.
[12] Cfr. E. Collotti, Il fascismo…, op. cit., p. 34.
[13] Cfr. W. Benz, I Protocolli dei Savi di Sion. La leggenda
del complotto mondiale ebraico, Mimesis, Milano, 2009, p. 49.
[14] W. Benz, I Protocolli…, op. cit., p. 33.
[15] M. Brenner, Breve storia…, p. 51.
[16] Cfr. A. Foa, Diaspora…, op. cit., p. 121.
[17] Per una
ricostruzione più dettagliata, cfr. Benz W., L’Olocausto, Bollati Boringhieri, Torino, 1998, pp. 27-28.
[18] Testo completo riportato in E.
Collotti, Il fascismo…, op. cit., pp.
54-55.
[19] Per il testo citato, cfr. E.
Collotti, Il fascismo…, op. cit., pp.
50-51.
[20] W. Benz, L’Olocausto, op. cit., p. 34.
[21] Documento citato in Appendice a
E. Collotti, Il fascismo…, op. cit.
p. 188.
[22] Cit. in W. Benz, L’Olocausto, op. cit., p. 56.
[23] Ibidem.
[24] A. Foa, Diaspora…, op. cit., p. 175.
[25] Ivi, p. 165.
[26] Per maggiori informazioni, cfr.
A. Foa, Diaspora…, op. cit., p. 227.
[27] A. Foa, Diaspora…, op. cit., p. 251.
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