Un pensatore almohade. Il filosofo Ibn Ṭufayl

 

Copertina dell'edizione Rusconi del 1983


Ibn Ṭufayl è stato un arabo musulmano originario di Guadix, Andalusia. Nato intorno al 1105, fu segretario dei governanti di Ceuta e Tangeri, nonché del sovrano di Granada. Più tardi divenne visir e medico del califfo almohade, al quale raccomandò Averroè come suo successore, dopo averlo sollecitato a tradurre e commentare Aristotele. Ibn Ṭufayl morì nel 1185 in Marocco.

 

Il filosofo fu promotore della svolta andalusa in àmbito astronomico, che portò ad abbandonare le teorie tolemaiche. Come medico, fu tra i primi sostenitori della dissezione e dell’autopsia.

Gli si attribuisce inoltre la nascita del romanzo filosofico, con l’Epistola di Ḥayy bin Yaqẓān, opera influenzata dal sufismo. Racconta la storia di un bambino nato dalla terra su un’isola, «il più perfetto dei luoghi della terra», e cresciuto da una gazzella.

Ḥayy bin Yaqẓān individua nel cuore la sede dell’anima, dopo aver dissezionato il corpo defunto della madre-gazzella: «Allora tutto il corpo divenne miserevole ai suoi occhi, e di nessuna importanza rispetto a quella cosa che, ne era convinto, vi abitava un tempo e poi ne era partita. […] Non pensò più a quel corpo, e anzi lo rinnegò, e comprese che sua madre, che aveva avuto affetto per lui e lo aveva allattato, era soltanto quella cosa che era partita e da cui provenivano tutte quelle funzioni […]. Il suo affetto si trasferì allora dal corpo al padrone e al motore del corpo, e non gli rimase desiderio che di lui.»

 

All’età di trentacinque anni, egli diviene un contemplativo, che medita giorno e notte sull’Essere superiore non causato, motore primo di tutti i corpi, fino a scoprire l’incomunicabile verità ultima.

Dopo anni, il protagonista incontra un naufrago, che lo mette a contatto con la civiltà e con la religione islamica. I due prendono atto di come, con la sola meditazione, Ḥayy bin Yaqẓān avesse aderito a quei princìpi religiosi, come a volerne mostrare la loro naturalità.

Decide poi di voler trasmettere la verità ultima agli altri esseri umani, sopravvalutandoli: «[…] pensava che tutti gli uomini fossero dotati di qualità eccellenti, di menti perspicaci e di anime risolute, e non sapeva fino a che punto potevano arrivare la loro stupidità e la loro imperfezione, la perversione del loro giudizio e la debolezza della loro volontà: essi erano infatti “come le bestie, e anzi più smarriti nel cammino” [Cor. 25,44]».

 

A seguito di un’esperienza fallimentare, riconosce che la vita meditativa è per pochi e che i più non possono far altro che seguire i precetti della religione: «Raccomandò loro che evitassero la dimenticanza della legge e l’attaccamento a questo mondo, comuni alla grande massa dei fedeli, e li mise in guardia contro questi errori con i suoi ammonimenti più calorosi. Lui e il suo compagno Asāl avevano infatti compreso che questa era l’unica via di cui avevano bisogno questi uomini recalcitranti e incapaci, e che se si fossero innalzati da questa via alle altezze del discernimento si sarebbe sconvolto ciò che essi avevano acquisito e non sarebbe stato loro possibile raggiungere il grado dei beati: avrebbero vacillato, sarebbero caduti e avrebbero fatto una misera fine.»

 

Ḥayy bin Yaqẓān torna sull’isola, a contatto con quella conoscenza suprema, inesprimibile a parole, che Ibn Ṭufayl ha provato a raccontare con immagini, per contrastare quelle che definisce le false dottrine della sua epoca: «E quando qualcuno si sforza di farlo [di scrivere secondo verità in un libro], e si assume il compito di parlarne o di scriverne, la realtà di questo modo di percepire si altera e si muta nell’altro modo, quello degli speculativi, poiché si riveste di lettere e di suoni e si avvicina così al mondo sensibile. E non è più ciò che era né nella apparenza né in nessun altro aspetto, le interpretazioni che ne vengono date sono molte e discordanti […] Tutto ciò avviene perché questa è una cosa che non ha confini, poiché circonda e non è circondata.»

La conoscenza mistica per identificazione non è trasmissibile agli altri per mezzo del solo raziocinio: «Abbiamo deciso dunque di far balenare loro qualcosa del segreto dei segreti, per indurli ad avvicinarsi al Vero e distoglierli da quella vita. Sui segreti che abbiamo affidato a queste poche pagine abbiamo avuto cura tuttavia di lasciare un velo sottile e un esile schermo, che si diraderà velocemente per chi è affine a quell’insegnamento, e si farà denso e fitto per chi non è degno di oltrepassarlo, in modo che non lo oltrepassi.»

 

L’Epistola di Ḥayy bin Yaqẓān è una delle sintesi dell’epoca d’oro islamica, nonché un confronto filosofico con pensatori come al-Ghazālī, uno dei principali fautori di un avvicinamento tra il sufismo e l’ortodossia.

In Europa, venne tradotta nel 1671 da Edward Pococke, col titolo Philosophus Autodidactus, divenendo popolare tra il XVII e il XVIII secolo.

Influenzò l’Illuminismo europeo, tanto che alcuni suoi pensieri si ritrovano nei libri di Hobbes, Locke, Newton e Kant. È probabile che l’opera di Ibn Ṭufayl abbia influenzato persino Daniel Defoe in Robinson Crusoe.

La lettura di questo scritto di Ibn Ṭufayl mi trasportato nello spirito di quella terra, dall’Andalusia al Marocco, che nel XII secolo era una delle culle più prolifiche della cultura mondiale. Negli ultimi due anni, ho avuto la fortuna di poter visitare i luoghi di quel sapere, da Granada a Marrakech, da Siviglia a Fes, attraverso altre grandi città. Oggi il mondo, e soprattutto il Medio Oriente, ha bisogno di riscoprire quell’Islām illuminato.

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