Terrorismo islamico e giustificazionismo occidentale. Parte III

 

Una famiglia di profughi ebrei yemeniti, nel 1949

Ostacolare il cammino degli studenti ebrei, marchiare le case di ebrei, vandalizzare un cimitero ebraico, danneggiare le pietre d’inciampo e molto altro: tutto questo non è solo antisionismo. È antisemitismo. Attuato peraltro nel più classico dei modi. Se siete coloro che supportano queste azioni, il prossimo 27 gennaio, Giorno della Memoria, abbiate la decenza di non condividere testi e frasi di Primo Levi, Hannah Arendt, Anna Frank, Liliana Segre e altri.

Se avete sbandierato per Hamas siete una causa persa; ma se lo avete fatto per il popolo palestinese, allora non ha senso non porsi a difesa e condannare, in parallelo, gli atti di antisemitismo che stanno avvenendo nel mondo. Vi è chi vuole la pace e chi sta approfittando della situazione per aggredire e intimidire gli ebrei. Inutile dire che le due cose non sono sovrapponibili.

 

Antisemitismo e fondamentalismo islamico

 

Ho ascoltato persone che si sono dette preoccupate per gli episodi antisemiti di queste settimane. Ho sentito altri minimizzare, oppure sostenere come fosse facile dare risalto a un migliaio di manifestanti, magari con la giusta inquadratura, dimenticandosi quei milioni di individui che in piazza non erano scesi. Ho anche letto di docenti che hanno espresso sostegno alle teorie e alle pratiche di Hitler, come l’insegnante di Roncade, in provincia di Treviso, che è stata sospesa per aver scritto: «Andate all’inferno, Hitler aveva ragione su di voi ebrei.»

Non credo sia un caso che l’insegnante abbia origini libanesi. L’antisemitismo in Medio Oriente è una faccenda ancora più tragica che in Occidente, con Paesi islamici che diffondono falsi storici antisemiti come i Protocolli dei Savi di Sion.

 

Citando alcuni esempi, impiegherò i video del canale YouTube Memri Tv, su cui è giusto fare una premessa. Il Middle East Media Research Institute è un’organizzazione senza scopo di lucro che monitora i media arabi, persiani, russi, etc., con un focus sui contenuti legati alla radicalizzazione religiosa e politica. L’istituto ha sede a Washington ed è stata cofondata nel 1997 dall’ex ufficiale dell’intelligence israeliano Yigal Carmon.

È dunque chiaro che ciò che viene proposto abbia una funzione filoisraeliana, non perché vengano mostrati dei falsi, ma perché vengono selezionati per mostrare la parte più negativa del mondo islamico. Posto quindi che vi sia un Islām moderato, a cui ho fatto riferimento nel post precedente, i video raccolti dall’istituto rimangono validi per comprendere le opinioni di una frangia estremista che, a ogni modo, influenza le scelte del mondo arabo e musulmano. Si aggiunga che i video sono stati filtrati dalla piattaforma X, dove, tramite la funzione di segnalazione delle fake news, è possibile correggere o smentire una traduzione sbagliata. I link che condivido rimandano a video la cui traduzione dovrebbe essere quanto più possibile corretta.

 

Passo ora dalla premessa al merito, riportando dichiarazioni che denunciano l’antisemitismo in Medio Oriente e gli ideali – per così dire – dell’Islām radicale. Due volti della stessa medaglia.

In un video diffuso a novembre, l’alto funzionario di Hamas Mousa Abu Marzook, alla domanda sul perché abbiano costruito cinquecento chilometri di tunnel, ma nemmeno un bunker per proteggere i civili dai bombardamenti, ha risposto che i tunnel servono ai terroristi per nascondersi e combattere, mentre della popolazione civile dovrebbe occuparsi l’Onu.

A settembre dello scorso anno, il comandante di Hamas Mahmoud al-Zahar sosteneva che Israele fosse solo il primo obiettivo, perché «l’intero pianeta sarà sotto la nostra legge; non ci saranno più né ebrei né cristiani traditori.» Questo per chi definiva i terroristi di Hamas “partigiani liberatori”, oppure, come Judith Butler, un movimento sociale progressista, parte della sinistra globale.

 

Talmente proletari che, secondo la rivista araba Al-Majalla, il numero due di Hamas Abu Marzook avrebbe un patrimonio stimato in due-tre miliardi di dollari, mentre l’ex capo politico Khaled Mesh’al controllerebbe quattro miliardi, come l’attuale leader Isma’il Haniyeh.

Gli stessi che avrebbero a cuore la causa palestinese e che la sinistra globale sta acclamando come miliziani che lottano per l’indipendenza. Coloro che dalle loro comode ville, lontanissime da Gaza, lasciano i civili sotto le bombe israeliane o li usano come scudi umani. In oltre dieci anni, Hamas non ha costruito bunker per la popolazione, ma ha scavato centinaia di chilometri di tunnel per sé. Ha ricevuto miliardi da Europa e Stati Uniti per sostenere la popolazione e ha usato quei soldi e i beni di prima necessità per acquistare armi o per costruirle in casa, con mezzi di fortuna come la canna da zucchero. Tutto questo mentre la propria popolazione era in grave crisi. Quei palestinesi bombardati da un lato e costretti a morire a cielo aperto dall’altro, dopo anni in cui i leader di Hamas si sono arricchiti alle loro spalle.

Eppure, tutto questo sembra non contare: nella guerra informativa, raccontata in un articolo del New York Times, abbiamo perso il lume della ragione. E nelle piazze ho visto attivisti trans e Lgbtq+ che manifestavano per la Palestina e non ho potuto non chiedermi che fine avrebbero fatto se avessero manifestato la loro identità a Gaza, o in qualsiasi altro Paese islamico simile all’Iran. Una risposta, un po’ datata ma ancora attuale, è data da questo scambio di opinioni tra Rula Jebreal e Bill Maher.

 

Caos e resistenza

 

Lungo la strada, in mezzo a questo rumore, tra tali contraddizioni, si perdono le storie più autentiche. Come quella di Na’ama, una giovane donna che faceva parte di Hands of Peace, un’organizzazione no-profit che consente ai giovani americani, israeliani e palestinesi di diventare “agenti del cambiamento”. Il 7 ottobre 2023, i terroristi di Hamas l’hanno rapita, tagliandole i tendini in modo tale che non potesse fuggire.

Dall’altra parte del pianeta, una studentessa ebrea, in quello che dovrebbe essere il libero Occidente, denunciava i soprusi subìti da altri studenti alla Columbia University.

Ma come chiedere alle istituzioni che i suoi diritti vengano tutelati, quando dal 1° novembre 2023 l’Iran presiede il Forum Sociale del Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite? Un regime che tortura i dissidenti, massacra le donne senza velo e finanzia i gruppi terroristici. Quale garanzia possiamo offrirle se le istituzioni dell’Onu sono tanto miopi?

 

Una voce di speranza proviene proprio da quegli iraniani, fuori e dentro al Paese, che formano la resistenza al regime. Darya Safai è stanca di essere definita islamofoba per il solo fatto di aver riconosciuto un problema sociale nell’Islām fondamentalista. Quale membro del Parlamento belga, cresciuta in Iran, cerca di far capire che il conflitto non riguarda soltanto Israele e Hamas, ma che l’obiettivo di un certo Islām è quello di realizzare la promessa del Corano, la conquista del pianeta.

A un occidentale fanno sorridere queste idee, perché ormai le riconduciamo a creazioni di fantasia, ma per i terroristi «questa è una guerra tra musulmani e Israele/Occidente per formare e conquistare una grande umma quale obiettivo finale.» Safai ribadisce che la critica a un’ideologia religiosa non possa essere paragonata al razzismo, né a una fobia, che sarebbe una paura irragionevole di qualcosa: «Chiunque sia cresciuto in un Paese in cui la legge della Shari’a è la legge, e l’abbia sperimentata in prima persona, ha ragioni sufficienti per temere la distruzione che l’Islām può creare.»

 

In queste settimane, in Europa sono state sventolate bandiere dell’Isis, come in Germania. E il vicecancelliere tedesco Robert Habeck ha detto una cosa che dovrebbe essere ovvia: non è proibito difendere il popolo palestinese, ma è vietato celebrare la violenza contro gli ebrei. Temo che la sua lucidità non sia più sufficiente di fronte a un attacco ai valori occidentali che è sempre meno complottistico e quantomai concreto. Che cosa avrebbe a che fare con la faccenda, come racconta la radio francese Europe 1, la coppia di moldavi arrestata per aver dipinto circa sessanta stelle di David sugli edifici parigini e che, pare, agisse per conto dei russi?

Nella guerra dell’informazione e della disinformazione, nella strategia del caos, non abbiamo abbastanza strumenti critici per muoverci. E così persino un’intervista-scherzo, in cui si chiede di firmare una petizione a sostegno di Hamas e delle sue azioni terroristiche, ci mostra come il cittadino medio europeo non abbia ben chiaro che cosa stia difendendo, o perché.

 

Se siete antisionisti, ovvero contrari all’esistenza di una nazione del popolo ebraico, non capisco come si possano sventolare le bandiere palestinesi. Se il popolo ebraico non ha diritto a uno Stato, perché dovrebbero averlo tutti gli altri popoli, come i palestinesi, i curdi, etc.?

Oltretutto, non solo il popolo palestinese, così come lo conosciamo oggi, è nato in reazione alla nascita di Israele, ma l’evidenza che in Palestina vi siano arabi non smuove le convinzioni di chi sostiene la cancellazione di Israele. I diritti dei popoli valgono per tutti o solo per chi non è sostenuto dall’Occidente? Perché, quando ai primi di novembre il Pakistan ha avviato la massiccia espulsione di un milione e settecentomila afghani, residenti nel Paese da decenni, le piazze occidentali non si sono indignate?

Si fa un gran parlare, giustamente, del colonialismo occidentale, ma non avviene lo stesso per quello arabo, che ha segnato per secoli milioni di vite, dall’Africa all’Asia. Federico Rampini ha scritto un buon articolo al riguardo, dal titolo Perché i leader occidentali chiedono scusa per il loro colonialismo, e quelli arabi non lo fanno?

Alcuni critici degli Stati Uniti parlano ancora oggi dell’inglese come una lingua coloniale, ma che cosa dovrebbe rappresentare la lingua araba, per esempio, per un marocchino? Come dovremmo reagire a quei leader islamici che parlano di un califfato in Europa, o di una riconquista della Spagna?

 

In Europa ci siamo riempiti la bocca di “Memoria”, ma abbiamo dimenticato il suo valore. Nelle città occidentali ho visto video ricorrenti di persone che strappavano i manifesti degli ostaggi fatti da Hamas il 7 ottobre. Quando si chiede loro perché lo facciano, spesso rispondono con rabbia, senza portare una ragione valida o proponendo il classico “ma allora gli israeliani”? Come se la cancellazione del dolore dell’altro sostenesse il dialogo. Ma quale dialogo?

Il profilo X dell’Auschwitz Memorial ha segnalato di aver perso migliaia di follower in queste settimane, invitando le persone a sostenere il loro lavoro di conservazione della memoria. In queste giornate stanno facendo un lavoro difficile. Tra il 9 e il 10 novembre c’è stato l’ottantacinquesimo anniversario della Kristallnacht, la notte in cui nella Germania nazista del 1938 furono devastate le proprietà degli ebrei, un’anticipazione di quanto sarebbe accaduto di lì a poco tempo. E alcuni giorni dopo, il profilo dell’Auschwitz Memorial ha citato un profilo che riproponeva uno dei cavalli di battaglia dei negazionisti dell’Olocausto, ovvero che i numeri con cui venivano marchiati gli ebrei non arrivassero mai a sei milioni. Solo che quella cifra non comprende coloro che furono uccisi in luoghi diversi da Auschwitz, perché ogni campo di concentramento gestito dalle SS aveva un sistema di numerazione diverso e talvolta i numeri venivano riutilizzati per sostituire un prigioniero morto. Ad Auschwitz esistevano inoltre diverse serie di numeri, a seconda della categoria specifica in cui veniva inserito il prigioniero. Infine, circa novecentomila ebrei furono assassinati nelle camere a gas di Auschwitz sùbito dopo la selezione all’arrivo, non ricevendo quindi alcun numero.

 

La miseria morale, umana e intellettuale dei negazionisti, o di chi oggi strappa i manifesti degli ostaggi di Hamas, mi porta a chiedermi come sia possibile che la legge dell’occhio per occhio, dente per dente non sia ancora finita. Mi chiedo come un male compiuto in reazione a un male subìto possa renderti migliore.

Non posso che rivolgermi a occidentali come me, che vivono, nonostante tutto, nel benessere e in una relativa pace. Ma a coloro che vivono fuori dall’Occidente ricordo la loro resistenza. Quella delle donne iraniane, riunite intorno ai simboli di Mahsa Amini e di Armita Geravand, e della Premio Nobel per la Pace Narges Hammadi, in sciopero della fame in un carcere del regime.

E penso anche a quei singoli individui in Medio Oriente che non si sono ancora organizzati in un fronte antiterrorismo, ma la cui coscienza sta maturando, osservando i video dei miliziani di Hamas che sparano dal tetto di un ospedale, rendendo l’edificio un obiettivo militare, o le dichiarazioni del leader religioso palestinese Yousef Makharzah, che sulla televisione libanese Al-Waqiyah promuove i matrimoni precoci con le bambine. Voglio credere che in loro, uomini e donne, nasca lo sdegno per un’élite musulmana che li ha privati di servizi, risorse economiche e libertà.

Tutto ciò non significa giustificare Israele sotto ogni punto di vista, perché le democrazie, anche quelle sotto pressione come Israele, funzionano anche attraverso la critica al potere. E il presidente israeliano Benjamin Netanyahu, con la frangia ultraconservatrice, sa di avere le ore contate in termini politici. Questa è la forza della democrazia, anche nel corso di una crisi: un sistema che non è possibile esportare, ma che deve essere un modello a disposizione di tutti coloro che respingono e combattono l’uomo solo al potere, i dogmi e l’oppressione.

 

La prima parte di questo approfondimento d’attualità si trova qui.

 

Consigli video

 

1. Rick DuFer, L’antisemitismo: radici, mito, propaganda, attualità con Parabellum

2. LiberiOltre, Come arrivare alla pace tra israeliani e palestinesi? Proposte con Vittorio Emanuele Parsi

3. Parabellum, Guerra in Israele – “Assalto a Gaza” con Mauro Indelicato & Amedeo Maddaluno

4. Parabellum, Guerra in Israele – La strategia israeliana con generale Paolo Capitini & colonnello Orio Giorgio Stirpe

5. Ivan Grieco, Quali sono i reali obiettivi di Israele a Gaza? Analisi con Mauro Gilli

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