I nove mesi di Carrère al V13

 

La copertina dell'edizione Adelphi (2023)

Osservo l’opera Concetto spaziale (1966-67) di Lucio Fontana, presente nella copertina di V13 proposta da Adelphi. Si tratta di un’idropittura, con graffiti e buchi su tela: solo al termine della lettura, mi rendo conto di come, in forma simbolica, quell’opera possa raffigurare un massacro all’interno di uno spazio delimitato.

Quello spazio è il Bataclan di Parigi, i corpi martoriati quelli delle persone che nel 2015 erano andate ad ascoltare il concerto di una band americana, gli Eagles of Death Metal. Quel 13 novembre, gli attentati di Parigi si concentrarono nel I, X e XI arrondissement e allo Stade de France.

Ma andiamo con ordine: che cos’è e che cosa non è V13? È in parte un libro di cronaca giudiziaria. Non è un saggio antropologico sul fenomeno del radicalismo islamico. È però una buona introduzione al tema, con testi e autori citati nel corso del libro. Non è, infine, un giudizio tranchant sul terrorismo di matrice islamica, benché l’Autore sia netto su alcuni princìpi e sia tutt’altro che accomodante o “giustificazionista”.

Lo scrittore Emmanuel Carrère è tornato a occuparsi di fatti di cronaca e ha scelto, per nove mesi, di seguire il processo seguìto alla strage del Bataclan, affiancato da giornalisti esperti del settore.

 

Intorno alla giustizia

 

Una rappresentazione della Giustizia


Carrère non è estraneo alla scrittura di libri che trattino la giustizia, non soltanto sotto il profilo etico, ma soprattutto pratico. Nella sua carriera – come lui stesso ricorda – ha descritto una Corte d’assise e in un altro il lavoro di un tribunale d’istanza.

In merito al V13, termine con cui si indica il processo dedicato agli attentati di Parigi del 2015, lo scrittore inizia circoscrivendo il campo d’azione: non si tratta di un processo in stile Norimberga, poiché lì «gli imputati erano alti dignitari nazisti, qui sono figure di secondo piano» rispetto ai jihadisti che morirono quella sera.

Carrère era però conscio della novità di quel processo ed è stato ispirato da diverse motivazioni: capire dove iniziasse il fattore patologico connesso alla religione, dove si celasse dio in tutto ciò e che cosa passasse nella mente dei terroristi. E voleva soprattutto ascoltare i sopravvissuti e i loro cari: sentire che cosa avessero da dire.

 

Con questi presupposti, l’Autore rimane colpito dalle azioni della difesa, che attinge al concetto di “difesa di rottura”, promosso dall’avvocato Jacques Vergès, che nella sua carriera difese terroristi di destra e di sinistra, dal criminale nazista Klaus Barbie all’ex capo di Stato dei khmer rossi Khieu Samphan.

Spiegata in parole molto semplici: avete presente quando si cerca di spiegare a qualcuno le responsabilità oggettive della Russia nell’invasione dell’Ucraina e l’interlocutore ti risponde con la classica frase «e allora l’Iraq?». La difesa, magari conscia della colpevolezza dell’imputato, punta così a uscire dal merito della faccenda, relativizzando l’atto d’accusa e ponendolo nella logica legittima dello scontro tra valori opposti e inconciliabili.

Carrère sembra affascinato dalla capacità degli avvocati difensori nel riuscire a trovare il coraggio di difendere posizioni morali indifendibili. Negli ultimi capitoli, domanda all’avvocato Xavier Nogueras se ci fossero cause che si sarebbe rifiutato di difendere. La sua risposta suona anche come una soluzione ai dilemmi che Carrère si pone nel corso del libro: «Io non difendo nessuna causa, ma non rifiuto nessun imputato. Vergès, lui sì che difendeva delle cause. Non difendeva soltanto Pol Pot o Carlos, ma quel che avevano fatto Pol Pot o Carlos. Era d’accordo con loro. Noi, per fare l’esempio dei reati più odiosi, naturalmente non difendiamo la pedofilia o il terrorismo, ma siamo disposti a difendere un pedofilo o un terrorista. Devono essere difesi, è la legge.»

Un altro concetto giuridico controverso è quello della “giustizia riparativa”, che apre al dialogo tra vittime e carnefici, se le due parti lo desiderano, senza implicazioni penali o pubblicità, con l’obiettivo di indagare le verità e di ricostruire la propria versione dei fatti.

 

Intorno alle vittime

 

L'esterno del Bataclan nel 2008

Carrère affronta poi un fenomeno terribile: le storie delle false vittime. Persone che si trovavano intorno a place de la Bastille o a molti chilometri di distanza, ma che raccontavano esperienze traumatizzanti inventate di sana pianta. L’Autore riprende le parole di Christine Villemin, madre del piccolo Grégory, protagonista di un altro caso di cronaca nazionale, la quale afferma che la gente sembri invidiosa delle disgrazie che capitino agli altri.

In effetti – nota Carrère – all’indomani degli attentati, «la gente non faceva che raccontarsi quella notte d’inferno. Dov’era al momento dell’attacco, con chi. […] Prendono forma delle leggende.» Non mancano nemmeno i dettagli macabri, che rivelano l’interesse morboso insito in molte persone.

Proseguendo la lettura, mi ha fatto riflettere il concetto giuridico di danno da lucida agonia, ovvero quel sentimento di terrore che colpisce chi è consapevole di stare per morire e che serve a «trasformare l’emotività in diritto» (ha a che fare con il risarcimento ai parenti delle vittime). Così, mi sono immaginato quelle persone agonizzanti, affiancate a coloro che, settimane e mesi dopo, avrebbero sentito il bisogno egocentrato di dichiararsi come loro.

 

Lo scrittore dedica comunque un’intera sezione del libro alle vittime reali e ai testimoni. Dice di ammirare quelle persone che si sono presentate alla sbarra dicendo di non provare rabbia, di volere un processo equo e non una vendetta. Ma non si ferma qui. Cita le dichiarazioni del padre di una vittima, Patrick Jardin: «Dicono che io sono di estrema destra, e forse sono di estrema destra, non so. Ma non è che mia figlia sia meno morta perché io sono di estrema destra.» Forse – suggerisce Carrère – alcuni hanno messo a tacere troppe volte quel Patrick Jardin che, umanamente, è dentro ciascuno di noi.

Su una cosa però è certo: con quelle centinaia di testimonianze, all’apparenza ripetitive, si è costruito un mosaico di storie raccontate non come semplici fatti, ma in quanto vissuto personale. Carrère ha visto il coraggio di chi ha cercato di ricostruirsi, e l’anima di chi non è più uscito da quella sera: «Ho letto, sentito dire e qualche volta pensato che viviamo in una società vittimaria, che alimenta una compiacente confusione tra lo status di vittime e quello di eroe, può darsi, ma gran parte delle vittime che ascoltiamo giorno dopo giorno mi sembrano davvero degli eroi.»

 

Propongo questa conclusione di Carrère, che potrebbe apparire retorica, ma invito a indagare il percorso che ha portato l’Autore a maturarla.

Oggi, per un occidentale, il concetto di eroe è più comprensibile rispetto a quello del martirio. E lo scrittore non dimentica di sottolineare che tra le vittime degli attentati ci furono anche mussulmani, che da decenni sentono gli estremisti islamici parlare di martiri terroristi. La figura di Nadia, che ha perso la figlia Lamia nell’attentato, è centrale per capire la distinzione. Non a caso, il finale è dedicato a lei. Nel 2018, la donna torna in visita al Cairo, sua città natale. Si intrattiene al parco al-Azhar, vicino a una moschea molto importante per l’Islam sunnita, e ascolta gli Allahu Akbar provenienti dai minareti. Un poliziotto le si avvicina per dirle che il parco sta chiudendo; Nadia gli racconta la sua storia e l’uomo definisce le vittime shuhada, martiri: «e sentire dalla bocca di quel poliziotto egiziano che i martiri erano loro, e non gli assassini che nella loro crassa e strumentalizzata ignoranza si attribuivano quel titolo, è stato come se il mondo si raddrizzasse.»

 

Intorno ai carnefici

 

La moschea di al-Azhar, al Cairo, Egitto

Carrère coglie un aspetto precipuo della propaganda islamista: di solito, la propaganda mira a mostrare un Paese o un partito come potente, virtuoso e vantaggioso. Dai lager nazisti ai gulag staliniani, fino ai centri di tortura dei khmer rossi: questi luoghi sono sempre stati esclusi dalla visione che i regimi volevano dare di sé.

Diverso il discorso dello Stato islamico, che «rivendica il sadismo» e lo esibisce per attirare nuovi adepti. L’Autore riporta le storie di quei genitori che hanno assistito alla radicalizzazione di un figlio, famiglie che si confidano tra loro, condividendo le poche notizie che ricevono.

Introduce poi un altro elemento, quello della taqiyy, principio che consente ai mussulmani di “nascondersi” in una società non islamica, adeguandosi all’apparenza (e in realtà nei fatti) alle abitudini del luogo in cui risiedono. Carrère paragona il loro agire agli alieni de L’invasione degli ultracorpi, che hanno assunto le sembianze dei terrestri per non farsi notare.

Uno jihadista che non vuole farsi scoprire è pronto a bere alcolici, a fumare, a giocare al casinò e a fare tutto ciò che gli sarebbe altrimenti vietato. Posto che, a livello personale, mi ha sempre fatto sorridere l’applicazione della taqiyy, essa costituisce in realtà un grave pericolo e una costante incertezza per tutti i non mussulmani, a partire da chi ha amici credenti in questa fede.

 

Carrère parla infine di Salah Abdeslam, il terrorista che ha scelto di non farsi esplodere e che, forse con il pretesto della taqiyy, viveva all’occidentale.

Anzi, le prospettive di vita di Abdeslam non erano tanto orribili prima dell’attentato. Raccomandato dal padre, era entrato nella società dei trasporti di Bruxelles. Tuttavia, il lavoro nella manutenzione dei tram, con uno stipendio che non gli permetteva di farsi un bel weekend, lo deprimeva.

Dal processo che ci racconta Carrère, emerge – a mio avviso – come Abdeslam e gli altri non fossero vittime di questo mondo, non più di tanti europei che vivono condizioni di vita dal tenore medio o basso.

In effetti, i terroristi «non si considerano né vittime né casi sociali», ma l’avanguardia di un movimento destinato a conquistare il mondo. I jihadisti considerano vittime i mussulmani moderati, i kuffar (i “miscredenti”), «che si credono aperti e tolleranti».

Carrère fa un’analogia azzardata, ma in parte utile: nel I secolo dopo Cristo, un programma di scristianizzazione nell’Impero romano non avrebbe avuto successo, esaltando i martiri. Così si spiega perché i programmi di deradicalizzazione in Europa abbiano funzionato altrettanto male. I jihadisti sono orgogliosi di essere tali e, per loro, non c’è motivo per cedere alla fazione dei perdenti.

 

Oltre a questo, penso che conti molto l’errata percezione che molti, nel mondo, abbiano dell’Occidente e dell’Europa, considerata un paradiso sceso in terra da dover convertire o conquistare. La biografia di Abdeslam, emersa nelle pagine di V13, mi è sembrata la storia di qualcuno che si sia svegliato nel mondo reale, scoprendo lavoro, fatica, frustrazioni, anche nella florida Europa.

A mio modo di vedere, la questione di deislamizzare l’Europa rimane comunque mal posta. Perché è superficiale, di pancia, basata su pregiudizi e su un razzismo strisciante. Gesti come il rogo del Corano, in Svezia, non risolvono nulla e andrebbero trattati per quello che sono, ovvero casi isolati e che non descrivono i princìpi di un popolo europeo. Il concetto della deislamizzazione sarebbe più corretto se si parlasse di deradicalizzare l’islamismo europeo, facendo squadra con le componenti locali e moderate dell’Islām. Altre soluzioni aprirebbero soltanto alla violenza indiscriminata, facendo il gioco dei terroristi.

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