L'Odissea di Cormac McCarthy è già oltre le Colonne d'Ercole

 

Copertina della prima edizione Palgrave Macmillan

Questa è una di quelle analisi che potrebbero proseguire all’infinito, con continue integrazioni, perché Il passeggero (The Passenger, 2022) di Cormac McCarthy è una di quelle opere universali che al suo interno contiene tutta l’esistenza. In forma di simbolo, di ipotesi, di realtà scientifica e di fantasia.

Ho compiuto questa lettura in tutta calma, durante un mio periodo di ferie, senza toccare alcun altro libro. The Passenger va letto in modo lento; richiede che si torni sulle sue pagine più volte: in molte parti può apparire oscuro, ma a ben guardare l’Autore è più chiaro di quanto il suo stile frammentario possa far credere. Il problema, semmai, è tutto nostro: presi spesso da letture che si accavallano e mescolano tra loro, in nome di poche impressioni sui social su uno dei titoli del momento, rischiamo di non capirci nulla e di imputare la colpa allo scrittore o di limitarci a un ridicolo «interessante».

Nulla potrebbe essere più grave per questo romanzo, che rientra nel calderone della narrativa non di genere, e che invece è una rara perla di letteratura per la quale – si auspica – McCarthy possa presto ottenere il Nobel. Non che a lui possa importare qualcosa: è la Fondazione che non può non riconoscerne il valore.

Ho definito il libro l’Odissea di McCarthy, ma non si tratta del nostos (ritorno a casa) dell’eroe: ci troviamo già al momento successivo, quando Odisseo sceglie di ripartire, oltrepassando le Colonne d’Ercole e andando incontro all’ignoto. Questo è quanto siamo chiamati a leggere.

 

Fato privato, destino comune

 

 

Metto sùbito in fila la cornice narrativa, per poi concentrarmi sul nucleo vivo del testo. Non è stata un’analisi facile e di questo sono grato a McCarthy. Ho inoltre confrontato le mie idee con altre fonti, che trovate alla fine nella bibliografia e nei consigli di lettura.

Il romanzo ruota intorno alla storia di Robert “Bobby” Western e della sorella Alicia, morta suicida e di cui Bobby è innamorato. Figli di un fisico ebreo che prese parte al Progetto Manhattan, Alicia è un prodigio della matematica, mentre il fratello ha condotto un’esistenza “da viandante”: pilota nelle corse automobilistiche, sommozzatore che recupera materiale dai relitti, asceta che si rifugia in un mulino in territorio spagnolo.

Bobby non ha mai elaborato il lutto della sorella ed è un personaggio irrequieto, alla ricerca disperata di un significato, esausto nel ritrovarsi sempre in un vicolo cieco. Siamo nel 1980; il protagonista ha trentasette anni e McCarthy introduce un elemento da thriller: un aereo precipita nel Golfo del Messico e nel relitto manca la scatola nera e un passeggero, segnalato invece sulla carta d’imbarco. Poco dopo, due agenti governativi fanno visita a Bobby e si intuisce che ci sia qualcosa sotto. Ma questo espediente è solo uno dei tanti misteri irrisolti del romanzo: d’altra parte, come è possibile risolvere un problema particolare se è la “struttura” stessa su cui basiamo l’esistenza umana a essere un problema non codificato?

 

Così iniziano i dialoghi filosofici di Bobby con personaggi molto diversi tra loro e The Passenger si mostra per quello che è: un romanzo di idee.

Incontra l’alcoolista Borman, che vive in una baracca; l’amico Sheddan, il cui nome rievoca Long John Silver, fortunato personaggio di Stevenson; la transessuale Debussy; l’investigatore privato Kline e molti altri.

Senza accorgersene, Bobby finisce in un intrigo che non riesce a capire. Gli viene bloccato il conto in banca e comincia a sentirsi pedinato. Fa varie supposizioni: forse qualcuno sta cercando documenti riservati del padre, oppure credono che lui, Bobby, abbia scoperto qualcosa nel relitto. Si sfiorano atmosfere angoscianti o da spy story e ci troviamo dalle parti di Kafka e di Borroughs in Naked Lunch (1959). Il suo destino particolare si intreccia quindi con un’ipotesi internazionale e il suo cognome, Western (Occidentale) lascia intendere questa relazione.

 

McCarthy crea un protagonista dalla storia incredibile, che affronta dialoghi spesso difficili da immaginare, in contesti talvolta inverosimili. Eppure, a questi elementi poco credibili, resi in uno stile tra il medio e l’aulico, lo scrittore alterna un tono più dimesso, quasi quotidiano, che sùbito ci rende plausibile qualsiasi possibilità. A ciò contribuiscono le brevi descrizioni, che intorno a un dettaglio àncorano la realtà di quel momento sospeso.

Di che parlano i personaggi? I temi sono svariati: la guerra in Vietnam, l’esperimento di Alamogordo, dibattiti sulla fisica (quantistica e non solo), sul senso della storia e sul rapporto tra linguaggio e inconscio. E ancora: gli effetti di droghe e farmaci (Alicia è schizofrenica e dialoga con personaggi immaginari dai contorni bizzarri), la discriminazione a cui sono sottoposte le persone transessuali, il suicidio e la solitudine, l’elaborazione del lutto (o il suo fallimento), l’incesto (con la tragedia umana che consegue da quel desiderio, appagato o trattenuto).

 

Nel complesso, però, tutto ciò è funzionale a compiere una riflessione sulla paura e sull’incertezza provocate dall’ignoto e dall’abisso – resi in metafora dal mestiere del sommozzatore – e di come, in un mondo giunto alla fine, non vi sia più una bussola per salvarsi.

Ora, ritengo che la generazione di scrittori maturata nella seconda metà del Novecento e nei primi anni Duemila condivida questo senso di smarrimento. Uno dei temi a cui ricorrono di più è la storia del Progetto Manhattan, che portò alla creazione della bomba atomica, vero spartiacque per la nostra specie, avendo aperto a nuove prospettive non solo militari, ma anche sociali, culturali e morali (come gestire il potere che ci permetterebbe di distruggere la vita sul pianeta così come la conosciamo?). In chiave ironica e postmoderna, è quanto ha fatto, tra gli altri, Kurt Vonnegut in Cat’s Cradle (1963).

Vonnegut lo scrisse nel mezzo della sua vita, mentre questo romanzo di McCarthy arriva al termine di una riflessione durata ben ottantanove anni.

 

Linguaggio e biologia

 

 

The Passenger è anche una riflessione metatestuale sul linguaggio. L’Autore cita con precisione chirurgica i particolari paesaggistici e gli “strumenti del mestiere” nell’àmbito della navigazione, delle immersioni, delle automobili e delle armi. Al netto di ciò, però, questa nominazione non porta i personaggi a impossessarsi della realtà, si potrebbe dire per un vizio di forma.

Il linguaggio allora si articola senza che il soggetto ne ricavi una presa di coscienza e, ormai inintelligibile, diviene un fiume dialogico in cui, a un tratto, riluce una scheggia di verità presto condannata all’oblio. C’è affinità tra questa nuova scrittura di McCarthy e gli stili di Virginia Woolf e di James Joyce (Ulysses è una delle sue opere predilette), con l’aggiunta di un taglio ironico postmodernista.

Il punto è che per lo scrittore se «la sostanza di una cosa resta da dimostrare, difficilmente la forma ha più autorevolezza. Ogni realtà è perdita e ogni perdita è definitiva. Altre non ce n’è. E la realtà che indaghiamo deve prima di tutto contenerci. E cosa siamo noi? Dieci percento biologia e novanta percento mormorio notturno.»

 

McCarthy sembra non avere nessuna fiducia nella capacità del linguaggio di fornirci una conoscenza sostanziale.

Nella parte del secondo capitolo dedicata ad Alicia, una delle entità che la giovane vede – il Kid – le fa capire come sia tutta una questione «di struttura», che bisogna «individuare la linea narrativa» e «imbastire il materiale dei vari episodi. L’aneddotica.» È come se entrassimo nella mente creativa di McCarthy e questi ci spiegasse come nasca la composizione, ma – ed è un grosso ma – non bisogna mai dimenticarsi che «dove non c’è linearità non c’è delineazione». E la linearità non è più una scelta stilistica, ma una impossibilità esistenziale: quel testo frammentario, con dialoghi senza virgolette, è un mare magnum in cui orientarsi diventa una sfida nella sfida. L’obiettivo ultimo: tentare una comunicazione efficace, trovando se possibile una qualche codifica.

 

Forse non è un caso che McCarthy sia tornato a pubblicare narrativa dopo un lungo silenzio, in cui però si contano altri interventi, come l’importante saggio The Kekulé Problem (2017), scritto per il Santa Fe Institute e uscito nella rivista scientifica Nautilus (lo trovate nella bibliografia a fondo pagina). McCarthy prende spunto dalla "leggenda" del chimico Kekulé, che in sogno vide un uroboro che gli permise di definire la struttura molecolare esagonale del benzene.

Secondo l’Autore, sussiste una separazione tra il linguaggio umano e l’operato della mente inconscia, di cui conosciamo molto poco. Egli teorizza che ogni animale abbia un inconscio e che esso serva a farlo funzionare; al contrario, il linguaggio sarebbe una creazione puramente umana, non determinata dalla biologia.

L’inconscio è «un sistema biologico» che si mostra attraverso immagini, simboli e metafore. Ed è restio a parlarci chiaro con il linguaggio verbale, per il semplice fatto che «se la cava abbastanza bene senza di esso». Il linguaggio è invece un fenomeno culturale non strettamente necessario, e in effetti non lo è per le altre creature come non lo è stato per noi per milioni di anni. Il linguaggio non serve a creare il pensiero, in quanto esso è un «affare inconscio», e non risolve problemi: l’unica cosa che può fare è fissare il punto della situazione. La stessa pronuncia delle parole nasce da un processo a cui non abbiamo accesso.

 

Quando il linguaggio ha fatto la sua comparsa, «non aveva un posto dove andare» nel cervello. McCarthy suggerisce che esso abbia agito come un parassita che ha invaso le aree del cervello meno dedicate. Questa analogia mi ha ricordato l’ipotesi di fondo del racconto Hostess (1951) di Isaac Asimov: un parassita che vivrebbe in simbiosi nell’organismo umano causando la morte per vecchiaia e condizionando il comportamento a livello inconscio.

Per McCarthy, il linguaggio si evolverebbe partendo dal nominare le cose; seguirebbero le descrizioni di queste cose e di ciò che fanno. La sintassi e la grammatica generale di ogni lingua lascerebbe intendere una regola comune: «La regola è che [le lingue] sono incaricate di descrivere il mondo. Non c’è nient’altro da descrivere.»

La comparsa del linguaggio permette di comprendere che una cosa possa essere un’altra; consente insomma l’astrazione e la creazione dell’arte o di un linguaggio matematico per definire l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo.

 

L’inconscio agisce per rappresentazioni perché l’immagine riassume in sé un concetto che un testo scritto non è in grado di fare. Quando cerchiamo di riportare alla mente l’idea di un testo, più che le parole ricordiamo le immagini mentali che ci siamo costruiti. Le sensazioni.

In The Passenger, McCarthy mette in pratica queste sue idee: l’Autore non spiega, non racconta nemmeno; descrive e riporta, abolisce le virgolette nei dialoghi, come nella realtà, quando ascoltiamo suoni diversi e li componiamo in immagini, in un discorso complessivo che non guarda tanto all’oggettività dell’evento ma al significato soggettivo che l’inconscio individua.

Nelle prime pagine del romanzo, compaiono queste parole: «[Detesto] Le situazioni assurde. Che non riesci a decifrare.» McCarthy gioca con il lettore, ma al contempo esprime un disagio, che a tre quarti del libro diventa drammatico: «Sapeva che alla fine è impossibile sapere. Impossibile afferrare il mondo. Puoi solo descriverlo. Che si tratti di un toro sulla parete di una grotta o di un’equazione differenziale non cambia niente.»

E alcuni tra i paragrafi più riusciti del romanzo sono dipinti su carta, tanto inspiegabili e ineffabili quanto autentici: «I gatti gli ispiravano simpatia. […] Andò con il gatto alla porta d’ingresso e rimase sulla soglia. L’aria era fresca e umida. Rimase lì ad accarezzare il gatto. Ad ascoltare il silenzio. Sotto i piedi scalzi sentiva il martellio sordo del battipalo in lontananza. Il battito lento. La misura.»

 

Se tutto è vano, perché provare?

 

William Turner, Sunset (1845 ca), opera impiegata
come copertina della prima edizione Einaudi de Il passeggero
 

I personaggi del romanzo sono spaesati e incapaci di affrontare il futuro; vivono nell’oscurità, privi di una bussola. C’è un passaggio che sintetizza il rapporto tra il male di vivere, la vanità del tempo e la relatività della nostra esistenza:

 

Quindi quanto è malvagio il mondo? Quanto è malvagio. La verità del mondo costituisce una visione raccapricciante al punto da far impallidire le profezie del più funereo degli indovini che mai l’abbiano abitato. Non appena ne convieni, l’idea che un giorno tutto questo sarà ridotto in polvere e disperso nel nulla più che una profezia diventa una promessa. E adesso consentimi di farti a mia volta una domanda: Quando noi e le nostre opere saremo scomparsi insieme a ogni ricordo che le rievochi e a tutte le macchine in cui quei ricordi potrebbero essere trascritti e conservati e la terra sarà meno di un pezzo di carbone, per chi sarà una tragedia tutto ciò? Dove sarà rinvenuta quest’esistenza? E da chi?

 

Uno dei primi dialoghi si concentra sul tema del male, rappresentato dalla guerra in Vietnam. Il personaggio di Oiler racconta come in guerra non provasse odio per qualcuno in particolare, ma cercasse soltanto di rimanere in vita. La rabbia crebbe vedendo morire i propri compagni: a contatto con un guerrafondaio, si convince a cercare vendetta.

Oiler prosegue nel racconto e Bobby lo incalza fino a stremarlo. Il protagonista vuole sapere tutto: in quella descrizione cerca l’immagine esplicativa. E Oiler lo accontenta, prendendo coscienza di ciò che aveva tentato di reprimere: «Te la posso anche raccontare, ‘sta merda. Ma non ha nessun senso. Non so manco bene che senso ha per me. Se penso alle cose di cui non vorrei sapere niente è sempre roba di cui so tutto.»

 

Il male dell’uomo è conseguenza della tragedia di vivere in un mondo estraneo. Non valgono più le religioni o le filosofie. Tutto si relativizza, fino all’assurdo, alla previsione ironica secondo cui serial killer e cannibali rivendicheranno il diritto a vivere la loro vita. Sheddan, che è l’amico di vecchia data di Bobby, afferma di essere alla ricerca del proprio posto in questo zoo in cui (proprio) tutti reclamano qualcosa e dichiara il tramonto di ogni ideale di giustizia: «Senza malfattori il mondo dei giusti è completamente spogliato di senso.»

A questa condizione si può rispondere con la fede, come fa la nonna di Bobby che ha fiducia nel disegno di Dio, o con le leggi scientifiche. Bobby però non ha fede e questo non è qualcosa che si possa fingere, e nemmeno la fisica offre risposte soddisfacenti: «Credi davvero nella fisica? Non so cosa significhi. La fisica cerca di fornire una rappresentazione numerica del mondo. In effetti non so se spieghi tutto. Non si può illustrare l’ignoto. Qualunque cosa questo significhi.»

La scienza non è che un linguaggio e – come ogni altro linguaggio – non può che essere descrittivo.

 

Un altro tema ricorrente è il rapporto tra tempo, storia e memoria. McCarthy ne parla soprattutto nella seconda metà del libro e risulta ancora più disilluso. Bobby pensa a quando, con la morte della nonna, la proprietà sarebbe stata messa in vendita, facendo scomparire per sempre i ricordi del posto, «stralciati dal registro del mondo». Il tema della caducità coinvolge tanto il singolo quanto la memoria collettiva: «La storia è una collezione di carta. Qualche ricordo scolorito. Dopo un po’ quello che non è scritto non ha mai avuto luogo.»

Il lettore avverte un sentimento nostalgico, che tuttavia non viene nominato. D’altra parte, Bobby è incapace di vivere a pieno ogni tipo di sentimento; è un morto vivente che dice di non avere la forza di suicidarsi. È vissuto dalla vita: «Presumo dovrebbe essere di consolazione capire che non si può essere morti in eterno se non esiste un eterno in cui esserlo.» È l’unico sollievo, come commenta Sheddan.

 

Allora perché continuare a vivere? In parte per istinto, perché l’essere umano vive nella speranza che le storie possano ripetersi, non esaurirsi mai sopravvivendo in esse. E poi perché «peggio del perdere c’è solo il non giocare.»

A Bobby rimane un’ultima possibilità prima della morte: il ritiro, la solitudine. Nel silenzio abolisce il linguaggio e i suoi pensieri possono tentare di organizzarsi, ma il cammino dell’asceta non può che essere solitario e le sue scoperte rimangono ignote agli altri.

Forse però Bobby trova una sua dimensione, un posto per lui in questo zoo, e certo la commovente lettera di Sheddan, verso il finale, ha il potere di scuoterlo. In particolare, con queste parole: «Sai che ho sempre considerato la tua storia inutilmente avvelenata. La sofferenza fa parte della condizione umana e bisogna sopportarla. Ma l’infelicità è una scelta.»

Anche se nulla avesse significato e non ci fosse realmente qualcosa da scoprire, resta in nostro potere il modo in cui scegliamo di prendere la realtà.

Bobby sembra giungere a una conclusione che possiamo solo intuire: «Sapeva che quando sarebbe morto avrebbe visto il suo volto e sperava di portare con sé quella bellezza nelle tenebre, ultimo pagano sulla terra, cantando piano sul suo giaciglio in una lingua sconosciuta.» Mi ha ricordato tanto una frase che viene attribuita a Franco Battiato: «Forse nell’antichità avrei potuto cantare la natura e accompagnare i ritmi della giornata, cantare prima di addormentarmi.»

McCarthy torna alla narrativa per contrastare l’angoscia di vivere, nella speranza di essere contraddetto. Canta in modo oscuro, ma il suono dei suoi versi restituisce il battito lento, la misura.


L'analisi prosegue con la seconda parte di questo dittico: Stella Maris.

 

Bibliografia e consigli di lettura

 

° Brooks X., The Passenger By Cormac McCarthy Review. A Deep Dive Into the Abyss, The Guardian, 26 ottobre 2022

° Grady C., Cormac McCarthy’s Two New Novels Are Deliberately Frustrating, Vox, 26 ottobre 2022

° Lagioia N., “Il passeggero” di Cormac McCarthy è destinato a restare, a differenza di noi, Lucy sulla cultura, 16 maggio 2023

° Longo F., Cormac McCarthy, la scrittura totale, Rivista Studio, 9 maggio 2023

° McCarthy C., The Kekulé Problem, Nautilus, 17 aprile 2017

° Meschiari M., L’eccesso e la gloria. Il passeggero di McCarthy, Doppiozero, 13 maggio 2023

° Redazione, Com’è il nuovo romanzo di Cormac McCarthy, Il post, 1° maggio 2023

° Sullivan J. J., Cormac McCarthy’s New Novel: Two Lives, Two Ways of Seeing, New York Times, 19 ottobre 2022

° Valenti F., Far sopravvivere la memoria per forzare l’impossibile. Il passeggero di McCarthy, Tempi, 2 maggio 2023

° Wood G., Cormac McCarthy Has Never Been Better, The Atlantic, 5 dicembre 2022

° Wood J., Cormac McCarthy Peers Into the Abyss, The New Yorker, 19 dicembre 2022

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