La tragedia matematica in Stella Maris di Cormac McCarthy

 


Alcuni hanno definito The Passenger e Stella Maris come un dittico, ma a ben guardare ciò è vero fino a un certo punto. Le due storie condividono elementi in comune, a livello di trama, ma lo stile è in parte diverso e le due storie possono essere lette in maniera indipendente l’una dall’altra. Né Stella Maris completa o risolve dubbi e perplessità emersi in The Passenger. E va bene così.

 

Il libro è scandito dai sette dialoghi tra lo psichiatra Robert Cohen e la paziente Alicia Western (il cui vero nome era Alice, poi cambiato tramite documenti falsi), la quale ha scelto volontariamente di entrare nell’istituto psichiatrico Stella Maris, a Black River Falls, Wisconsin.

Nel 1972, a vent’anni, Alicia vi entra per la terza volta. In precedenza, le era stata diagnosticata una schizofrenia paranoide, caratterizzata da ripetuti tentativi di suicidio e da vive allucinazioni (su tutte, il Talidomide Kid e, infine, l’Arcathron).

La diagnosi non rinchiude Alicia in un’etichetta, né lei è propensa a lasciare che questa la definisca: la donna è una brillante matematica, forse una delle prime dieci al mondo, e ha ricevuto in eredità dalla nonna mezzo milione di dollari, la metà dei quali è stata spesa per acquistare un antico violino Amati. Musica e matematica sono per lei strumenti di espressione, ma anche mezzi dolorosi con i quali definire se stessa. Nelle sue ricerche, per esempio, Alicia è giunta a considerare la biologia evoluzionistica come un mero discorso di sopravvivenza.

 

Una delle cose di cui ho preso coscienza è che l’universo è evoluto per miliardi e miliardi di anni nell’oscurità e nel silenzio assoluti e che il modo in cui lo immaginiamo non corrisponde a quello che è. In principio c’è sempre stato il nulla. Le novae che esplodevano in silenzio. Nell’oscurità assoluta. Le stelle, le comete fugaci. Nel migliore dei casi frutto di un’esistenza ipotetica. Fuochi neri. Come i fuochi dell’inferno. Silenzio. Nulla. Notte. Soli neri a guidare i pianeti in un universo dove il concetto di spazio era privo di senso per mancanza di una fine. Per mancanza di una nozione cui contrapporlo. E di nuovo la questione della natura di quella realtà che non aveva testimoni. Tutto questo finché la prima creatura vivente dotata di vista ha acconsentito a che l’universo si imprimesse sul suo apparato sensorio primitivo e tremulo e poi a corredarlo con colore e movimento e memoria. Ha fatto di me una solipsista dalla sera alla mattina e in qualche misura lo sono ancora.

 

Il pensiero – quello che per semplicità potremmo definire la sfera intellettuale – riveste un’importanza centrale nella sua vita. L’eccessivo bisogno di concettualizzare, però, conduce la donna a un punto di non ritorno, una forma personale di nichilismo scientifico.

Persino l’amore cade preda della concettualizzazione. Alicia è distrutta dall’amore (non corrisposto?) per il fratello: questo elemento sentimentale la priva di ogni speranza che la ricerca di significato possa trovare non tanto una soluzione, quanto una “pace concordata” con la propria coscienza.

Nel trattare questo sentimento, McCarthy non impiega solo il linguaggio della matematica, ma spazia nella mitologia e nella spiritualità: l’archetipo che prende forma è quello del rapporto tra Elettra e Oreste, Abramo e Sara, Elios e Selene, Teia e Iperione, Gea e Urano. E la conclusione a cui giunge la protagonista si rivela analoga (analoga, non uguale) alla sorte che si sceglie il fratello in The Passenger, in una dispersione nella natura che mette insieme biologia e poesia, lasciando in bilico il lettore tra la possibilità di affidarsi al mistero della vita o di considerare tutto in chiave deterministica.

 

C’è anche chi – come me – può non risolversi in una delle due possibilità. Per giorni ho continuato a riflettere: imponiamo la matematica all’universo o le sue regole sono un insieme di verità che esisterebbero anche senza una coscienza che le comprenda?

Alicia cita vari matematici come Grothendieck e Godel, oltre che filosofi quali Kant, Schopenhauer e Wittgenstein. È invece molto più scettica – con mio rammarico – rispetto agli studi di Jung.

Eppure, quando lo psichiatra le domanda se abbia ancora le allucinazioni, Alicia afferma di non averle mai avute e definisce i suoi “visitatori” personaggi. Qualcosa di molto junghiano. Parlando dell’inconscio, Alicia sostiene che questo avrebbe accesso al mondo soltanto attraverso il sistema sensoriale (questo la separa da Jung, ma non del tutto) e preferisce comunicare attraverso la metafora e le immagini.

A parte questo, Alicia nutre un rapporto con i numeri che si potrebbe definire ossessivo, in grado di escludere tutto il resto: «E l’intelligenza sono i numeri. Non le parole. Le parole sono cose che abbiamo inventato. La matematica no.» E diverse pagine dopo: «E di nuovo, quando parliamo di intelligenza parliamo di numeri. Un’affermazione che i profani di matematica si affrettano a condannare. È un fatto di calcolo e di natura del calcolo. Con l’intelligenza verbale si arriva solo fino a un certo punto. Poi c’è un muro, e se non capisci i numeri non vedi nemmeno il muro.»

 

Alicia non riesce a vedere altro di autentico nel mondo, per quanto la sua interiorità si ribelli a una tale fatalità con il pianto: «Non riuscivo a smettere di piangere. E ricordo di aver detto: Cosa siamo? Seduta lì sul letto con l’Amati tra le mani, talmente bello da sembrare irreale. Era la cosa più bella che avessi mai visto e non riuscivo a capire come una simile cosa fosse anche solo possibile.»

Niente suscita più rabbia in lei, perché a suo dire la rabbia nascerebbe dalla consapevolezza di poter riparare le cose. Quando qualcosa è irreparabile, invece, provoca dolore. La gabbia matematica di Alicia è perfetta in sé, sembra poter spiegare e risolvere ogni cosa: non c’è dunque più nulla da riparare, nessuna emozione che valga la pena provare, dato che, prima o dopo, sarà la matematica a scovare la formula per descrivere un qualsiasi fenomeno.

 

Il libro non è comunque un saggio di matematica, né è costruito su formule. È anzi basato sul dialogo (verrebbe a dire su un lungo monologo), ovvero sulle parole. Il fatto che la terapia non sembri funzionare si basa proprio su questo: in questa società, cresce la necessità di avere strumenti psicologici; cresce il bisogno umano di esplorare la psiche con tale strumento, che delle parole fa il suo caposaldo, anche quando si occupa di simboli, immagini, sogni. Tuttavia, le parole presentano limiti di cui pensatori come Wittgenstein erano ben consci.

McCarthy adotta così uno stile spezzato, costituito da periodi brevi o brevissimi, in cui prevale il punto fermo e vengono abolite le virgolette per il discorso diretto. Il dialogo tra psichiatra e paziente si risolve in un magma di parole formalmente corretto, ma che nei contenuti esprime un’evidente incapacità comunicativa, che non dipende dai soggetti, ma dal linguaggio stesso.

Il testo è costellato dalle seguenti espressioni dello psichiatra: «Non capisco cosa vuol dire.»; «Non sono sicuro di capire.»; «Parole difficili.»; «Mi scusi. Mi sono perso.»; «Non sono sicuro di capire che cosa stesse inseguendo.»; «A volte non capisco se dice sul serio.». Frasi a cui Alicia risponde: «Lo so. È solo che non so come metterla.»; «Scusi.»; «È complicato.»; «Non credo che sia una domanda cui si può rispondere.», echeggiando in quest’ultimo caso proprio Wittgenstein.

 

Il tema del linguaggio è fondamentale nel pensiero di McCarthy e rimando alla mia analisi di The Passenger per un approfondimento sul tema. Seguendo le parole di Alicia, il cervello umano ha vissuto piuttosto bene per milioni di anni senza il linguaggio: il suo avvento è stato «come l’invasione di un sistema parassitario», che ha assoggettato le aree del cervello meno attive.

La comparsa del linguaggio ha prodotto una «distruzione creativa»: abbiamo perso altre abilità comunicative, forse persino la grande ricchezza del mondo onirico: «Alla fin fine questo strano nuovo codice deve aver almeno in parte sostituito il mondo con quello che se ne può dire. La realtà con l’opinione. Il racconto con l’approfondimento.»

 

Nella sua ricerca esistenziale, pur breve, Alicia ha raggiunto un grado di consapevolezza che ha finito per distruggerla. La verità, o qualsiasi cosa venga ritenuta tale, è divenuta un fardello insostenibile: in lei non è sorto un orrore lovecraftiano, ma è stata pervasa da una tristezza cosmica irreparabile.

Non le resta che il sogno di una fuga clandestina, tra le montagne della Romania, in un ritorno alla grotta che è il racconto platonico al contrario, un’immersione nel ventre della terra che mi ricorda il finale del video di Daydreaming dei Radiohead. In un vero e proprio ritiro da eremita, Alicia alimenta l’ultima speranza, quella di una visione in extremis, per «poter vedere la verità del mondo prima di morire», prima di diventare il corpo eucaristico degli animali notturni.

Stella Maris è come la grande confessione, o il grande testamento di Alicia: un lungo monologo di fronte allo specchio, per impiegare un simbolo ricorrente. In esso, non sembra esserci il delirio di una folle comune (credo di aver letto una delle pagine più crude sul “suicidio razionale”), perché ciò che percepiamo, con la debita sensibilità, è la vivida raffigurazione del più grande archetipo contemporaneo: il dubbio.

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Bibliografia e consigli di lettura

 

° Battersby D., Stella Maris by Cormac McCarthy: A Sister’s Forbidden Love, The Irish Times, 26.11.2022

° Kelly S., Book Review: Stella Maris, by Cormac McCarthy, The Scotsman, 16.11.2022

° McKernan, M., Stella Maris by Cormac McCarthy Review – This Is a Challenging Portrait of a Young Person at Odds With the World, The Canberra Times, 27.01.2023

° Millay T. J., Mathematical Tragedy: On Cormac McCarthy’s “Stella Maris”, Los Angeles Review of Books (LARB), 05.01.2023

° Rivett A., The Strange Stella Maris Is a Rare Kind of Novel, Even for Cormac McCarthy, The Sidney Morning Herald, 14.12.2022

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