Conoscere e capire il Libro Rosso di Jung
Scritto tra il 1913 e il 1930, il Liber Novus
(o Libro Rosso) di Carl Gustav Jung è un’opera difficile da definire.
Non era stata pensata per la pubblicazione, benché Jung avesse curato
l’originale nei minimi particolari, dall’ottima rilegatura alla qualità della
carta, fino ai pregevoli disegni, perlopiù nello stile delle miniature dei
manoscritti medievali o dei mandala indù.
Perché il doppio nome? Il volume nasce da un
manoscritto in folio, rilegato in pelle rossa, che Jung aveva titolato Liber
Novus.
Accessibile al pubblico dal 2009, grazie alla
collaborazione degli eredi, venne pubblicato da W. W. Norton in traduzione
inglese, con tre appendici e oltre 1.500 note editoriali. Nella Reader’s
Edition del 2012, vengono omesse le riproduzioni in facsimile del
manoscritto calligrafico originale e l’edizione, che include il testo completo,
presenta un’introduzione e le note di Sonu Shamdasani.
L’originale si sviluppò a partire dai Libri
Neri, taccuini scritti nel periodo 1913-32, al cui interno vi sono sezioni
poi confluite nel Libro Rosso, ovvero quelle dal 12 novembre 1913
all’estate del 1914. Altre voci furono aggiunte fino agli anni Trenta, come gli
Scrutini.
Con il titolo Septem Sermones ad Mortuos,
invece, si indica una raccolta di sette testi mistici, di stampo gnostico, realizzati
e autopubblicati in tiratura limitata nel 1916. Il sottotitolo è: Scritti da
Basilide di Alessandria, città dove Oriente e Occidente si incontrano. Lo
scritto è considerato parte del Libro Rosso e designa il materiale che
Jung condivise con amici e studiosi. Alla fine del 1914, cominciò la stesura in
un manoscritto pulito, appunto il Liber Novus con rilegatura rossa. È
qui che nasce un nuovo dio nell’anima di Jung, Abraxas, che è l’unione del Dio
cristiano e di Satana, come precisato nelle Prove:
È la probabilità
improbabile, l’elemento irrealmente operante. Se il pleroma avesse un’essenza,
la sua esplicazione sarebbe Abraxas. […] Dal Sole l’uomo trae il summum
bonus, dal Diavolo l’infimum malum, mentre invece da Abraxas trae la
VITA, indeterminata sotto ogni aspetto, la quale è la madre del bene e del
male.
La creazione, o coscienza, di Abraxas non è facile
da tollerare per l’essere umano, abituato a mentire a se stesso. L’inferno che
ne scaturisce è per certi versi la sua reazione a quella consapevolezza:
Inferno è
quando il profondo arriva a voi con tutto ciò di cui non siete più o non siete
ancora padroni. Inferno è quando non potete raggiungere ciò che potreste. Inferno
è quando dovete pensare, sentire e fare tutto ciò che sapete di non volere. Inferno
è quando sapete che per voi dovere è anche volere e che ne siete responsabili. Inferno
è quando sapete che tutte le cose serie che vi proponete di fare sono anche
ridicole, che ogni cosa raffinata è anche grossolana, che tutto il bene è anche
male, che tutto ciò che è elevato è anche basso, e che ogni opera buona è anche
un’azione infame.
Jung prese le mosse dalla rottura con Sigmund
Freud per avviare una serie di osservazioni psicologiche su se stesso. A
quell’evento personale si mescolò lo scoppio della prima guerra mondiale.
Per questa fase, alcuni hanno parlato di un
esaurimento psicotico di Jung, altri di “malattia creativa”, altri ancora di un
periodo di follia. In una nota in forma di epilogo, del 1959, scrisse: «All’osservatore
superficiale sembrerà una follia.» Eppure, a tale lavoro notturno affiancò le
consuete attività professionali diurne (incontri con pazienti, ricerche,
conferenze, etc.) e fece l’ufficiale nell’esercito svizzero, rimanendo in
servizio attivo per periodi prolungati nel corso del conflitto.
Parlando dell’esperimento con la psicologa Aniela
Jaffé, nel 1957, definì quegli anni i più importanti della sua vita, quelli da
cui tutto derivava. In epigrafe all’edizione italiana del 2010, viene riportato
questo pensiero:
Gli anni più
importanti della mia vita furono quelli in cui inseguivo le mie immagini
interiori. A essi va fatto risalire tutto il resto. Tutto cominciò allora, e
poco hanno aggiunto i dettagli posteriori. La mia vita intera è consistita
nell’elaborazione di quanto era scaturito dall’inconscio, sommergendomi come
una corrente enigmatica e minacciando di travolgermi. Una sola esistenza non
sarebbe bastata per dare forma a quella materia prima. Tutta la mia opera
successiva non è stata altro che classificazione estrinseca, formulazione
scientifica e integrazione nella vita. Ma l’inizio numinoso che conteneva ogni
altra cosa si diede allora.
L’opera è anche un’analisi dei propri limiti e del
rapporto tra azione e impotenza. Jung adotta il simbolo dell’eroe per designare
quella volontà di intraprendere tutto ciò che è possibile. La parte eroica di
ciascuno di noi è dominata dalla distinzione tra bene e male, dal senso del
dovere e dal giudizio perentorio. Jung però sottolinea come non sia possibile
eliminare il nostro non-potere, ovvero l’impotenza umana che emerge dallo
spirito del profondo. L’eliminazione simbolica di Sigfrido, attuata nel libro,
è il primo passo per prendere coscienza del non-potere, per liberarsi da un odioso
«ideale di forza e di efficienza», per cessare di giudicare ciò che si trova
fuori di noi e venire a patti con se stessi.
Il Liber Novus rappresenta la cattedrale
edificata da Jung, un luogo immateriale sacralizzato, in cui esplorare
l’inconscio per trovare una relazione tra sé e gli archetipi, tra macro e microcosmo.
I particolari tecnici ci forniscono un indizio
importante. Jung impiegò una penna calligrafica, inchiostro multicolore e
pittura a guazzo. Il testo è in tedesco, con citazioni della Vulgata in
latino, iscrizioni e nomi scritti in latino e greco, una breve citazione della Bhagavadgītā in inglese. I sette fogli iniziali
sono noti come Liber Primus e sono in pergamena, scritti in stile
medievale altamente miniato. Si rese però conto che l’inchiostro trasudava e
così commissionò la rilegatura in pelle rossa con accenti dorati, che conteneva
seicento pagine bianche di una carta tale da trattenere inchiostro e pittura.
Un simile impegno e una tale dedizione al manufatto, oggi conservato nel caveau
di una banca di Zurigo, rendono l’idea del valore inestimabile che gli aveva
attribuito Jung. Il volume diviene opera artigianale plasmata dall’autore,
solco nella materia per definire un’esperienza, nella migliore tradizione delle
neoavanguardie artistiche del Novecento. D’altra parte, in gioventù Jung aveva
visitato a più riprese il museo d’arte di Basilea, concentrandosi sulle opere
di Holbein, Böcklin e dei pittori olandesi, e, verso la fine degli studi, aveva
dedicato un intero anno alla pittura.
Tempo dopo, nel 1910, aveva visitato Ravenna,
rimanendo impressionato dai mosaici e dagli affreschi, che influenzarono i suoi
disegni del Libro Rosso. Eppure, quando la collaboratrice Maria Moltzer sostenne
in una lettera che «le fantasie provenienti dall’inconscio hanno
valore artistico e devono essere riguardate come arte»,
Jung si irritò e ciò gli servì a comprendere meglio la funzione del mandala:
Solo un po’
per volta scoprii che cosa è veramente il mandala: «Formarsi, trasformarsi, eterno giuoco dell’eterna mente». E questo è il Sé, la personalità nella sua interezza, che è armoniosa
se tutto va bene, ma non sopporta l’autoinganno. I miei mandala erano
crittogrammi concernenti lo stato del mio Sé, che mi erano proposti
quotidianamente.
Nell’indagine, Jung attinse al sapere delle
antiche civiltà, dalle citazioni bibliche e gnostiche all’Upaniṣad e alla
Bhagavadgītā, dall’Amduat egizio a Dante, Goethe e Wagner. Si
ispirò soprattutto ai miti greci e indù, alla mistica medievale, con Meister
Eckhart e Tommaso da Kempis (Imitazione di Cristo), e allo stile del Così
parlò Zarathustra di Nietzsche. Se quest’ultimo sanciva la morte di Dio,
con Jung assistiamo alla sua rinascita in seno all’anima:
Se poniamo un
Dio fuori di noi, ci strapperà al nostro Sé, perché il Dio è più forte di noi.
Allora il nostro Sé si troverà in grave difficoltà. Se invece il Dio si insedia
nel Sé, ci sottrarrà alla sfera di ciò che è fuori di noi […]. Nessuno ha il
mio Dio, ma il mio Dio ha tutti quanti, me compreso. […] A lui pervieni dentro
di te, e solo a patto di essere afferrato dal tuo Sé. Esso ti afferra man mano
che la tua vita procede.
Fondamentale poi la distinzione tra spirito del
tempo e spirito del profondo, presente fin dall’incipit:
Se parlo dello
spirito di questo tempo, devo dire: Nessuno e nulla possono giustificare quello
che devo annunciarvi. Qualsiasi giustificazione mi è superflua, perché non ho
scelta, ma devo farlo. Ho imparato che, oltre allo spirito di questo tempo, è
all’opera anche un altro spirito, e cioè quello che governa la profondità di
ogni presente. Lo spirito di questo tempo vorrebbe sentire di cose utili e che
valgono. Anch’io la pensavo in questo modo e la mia parte umana continua pur
sempre a pensarla così. Ma quell’altro spirito mi costringe comunque a parlare,
al di là di ogni giustificazione, utilità e senso.
Valore centrale ha poi il concetto di
immaginazione mitopoietica: in stato di veglia, Jung evocava una fantasia e vi
prendeva parte come in un dramma. Egli voleva osservare che cosa accadesse
quando si annullava la coscienza; intendeva far emergere una parte
dell’attività inconscia che altri – come Aldous Huxley – esploravano con
sostanze come la mescalina.
I simboli sono considerati la funzione più
importante dell’inconscio: vissuti in questo processo, si rivelano più efficaci
delle immagini oniriche. Quando affermo che Jung abbia edificato la propria
cattedrale, intendo rifarmi alle parole di Victor Hugo in Notre-Dame de
Paris, quando paragona il libro a un edificio sacro, ma anche allo stesso
Jung, il quale, suggerendo alla paziente Christiana Morgan di predisporre un
proprio Libro Rosso, scrisse: «Quando poi [le visioni] saranno racchiuse in un
libro prezioso, lei lo potrà aprire e sfogliarne le pagine e per lei sarà la
sua chiesa – la sua cattedrale –, i luoghi silenti del suo spirito ove
rigenerarsi.»
Nel suo tempio, Jung incontra diverse figure, tra
cui il profeta Elia, Salomé, Filemone, un serpente e il diavolo. È Jung a
spiegare la funzione motrice di quest’ultimo: «Se non ti capita nessuna
avventura all’esterno, non te ne capitano neppure nel tuo mondo interiore. La
parte del Diavolo che hai accolto, ossia la gioia, ti procura l’avventura.» E ancora:
«In quanto avversario, il Diavolo è l’altro tuo punto di vista, che ti
tenta e mette dei sassi sulla tua strada proprio là dove meno ne avresti
bisogno. Prendersi cura del Diavolo non significa passare dalla sua parte, altrimenti
si cadrebbe in suo potere. Vuol dire invece comunicare con lui.»
Il serpente è invece inteso in chiave gnostica: «è la
natura ctonia dell’uomo, di cui egli non è consapevole».
Jung vede una serpe nera strisciare nel corpo del Crocifisso e fuoriuscire,
bianco, dalla sua bocca. Poco dopo scrive: «Dalla bocca esce la parola,
il segno e simbolo. Se è segno, la parola non significa nulla. Se invece è
simbolo, significa tutto […].»
Filemone rappresenta infine la forma del buono e
del bello, una sorta di filosofo socratico espressione di sapienza e strumento
di Jung per esprimere idee neoplatoniche:
Ci sforziamo
di raggiungere il buono e il bello, ma al tempo stesso afferriamo anche il
malvagio e il brutto, poiché nel pleroma essi formano un tutt’uno col buono e
col bello. Se invece restiamo fedeli alla nostra essenza, cioè alla
differenziazione, allora ci differenziamo dal buono e dal bello, e perciò anche
dal malvagio e dal brutto, e non cadiamo nel pleroma, ossia nel nulla e nel
dissolvimento.
Non mancano nemmeno parti ironiche, come quando
riconosce il proprio snobismo intellettuale nel respingere i romanzi ambientati
nel Medioevo, quelli con una dama da salvare, e che invece rappresentano un
archetipo non così banale o irrilevante. Ciò che in seguito definì “inconscio
collettivo” non è che un regno di cui ciascuno condivide l’eredità genetica, un
luogo in cui la coscienza può attingere bellezza e orrore, ironica follia e
saggezza.
Nella propria indagine, Jung si adopera ai fini
dell’individuazione del Sé, l’integrazione tra conscio e inconscio che consente
di raggiungere un solido equilibrio psicologico, nonché uno stato di coscienza
superiore che non considerava accessibile a tutti, come sottolineato dallo
studio sui Tipi psicologici (1921).
In ultima analisi, Jung scrisse il Libro Rosso
per sé, ma con esso egli perfezionò un metodo particolare che ogni ricercatore
dell’anima avrebbe potuto adattare alle proprie inclinazioni. Con un
ammonimento:
Quello che vi
do non è né una dottrina né un insegnamento. E da quale pulpito potrei
indottrinarvi? Vi informo della via presa da quest’uomo, della sua via, ma non
della vostra. La mia via non è la vostra via, dunque non posso insegnarvi
nulla. La via è in voi, ma non in dèi, né in dottrine, né in leggi. In noi è la
via, la verità e la vita. Guai a coloro che vivono seguendo dei modelli! La
vita non è con loro. Se voi vivete seguendo un modello, allora vivrete la vita
del modello, ma chi dovrebbe vivere la vostra vita, se non voi stessi? Dunque vivete
voi stessi.
L’esatto opposto di ogni forma contemporanea e
passata di gurismo. È la sollecitazione a assumersi la responsabilità della
direzione che forniamo al nostro personale cammino materiale e spirituale: «Vivere
se stessi significa essere un compito per se stessi. Non puoi mai dire che
vivere per se stessi sia un piacere. Non sarà una gioia, ma una lunga
sofferenza, perché devi farti creatore di te stesso.»
Jung compie un cammino che, a livello psicologico, si traduce nel processo di individuazione, ma che, a livello spirituale, rappresenta il principium individuationis, il Tat Tvam Asi della tradizione indù e della filosofia perenne. Jung sviluppò il tema in Tipi psicologici, distinguendo tra l’Io e il Sé, «in quanto l’Io è solo il soggetto della mia coscienza, mentre il Sé è il soggetto della mia psiche totale, quindi anche di quella inconscia.» E ne l’Io e l’inconscio (1928) conclude: «Quando si riesce a sentire il Sé come un irrazionale, come un ente indefinibile, al quale l’Io non è né contrapposto né sottoposto ma pertinente, e intorno al quale esso ruota come la terra intorno al sole, allora la meta dell’individuazione è raggiunta.»
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