Huxley. Percezione, visione e mistica
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Le porte della percezione (1954) di
Aldous Huxley è un saggio breve, che riporta le esperienze vissute direttamente
dallo scrittore nel consumo di mescalina, principio attivo del peyote. Il
titolo trae ispirazione dal poema Il
matrimonio del cielo e dell’inferno (1793) di William Blake e influenzò a
sua volta la cultura, a partire dagli artisti della beat generation fino ai vari
riferimenti nella cultura pop (esplicito in tal senso il nome dei The Doors).
La mescalina è
una droga utilizzata dai Nativi americani nelle loro cerimonie, per ottenere
profezie, cure e forza interiore. In particolare, essa fu isolata dal
farmacista tedesco Arthur Heffter (1897) e sintetizzata dal chimico tedesco
Ernst Späth (1919). Huxley sostenne che al suo tempo, gli studi empirici sull’uso
di questa sostanza fossero ancora molto pochi e questo fu, in parte, uno
stimolo a sperimentarla.
In questa
avventura, collaborò con lo psicologo Humphrey Osmond. Huxley aveva già
sperimentato la meditazione, l’ipnosi e l’auto-ipnosi, ma ancora non aveva
raggiunto lo stato che andava cercando.
Per rendere
possibile la sopravvivenza biologica, l’Intelletto in Genere deve essere
filtrato attraverso la valvola riducente del cervello e del sistema nervoso.
Ciò che viene fuori all'altro capo è il misero rigagnolo della specie di
coscienza che ci aiuterà a vivere sulla superficie di questo particolare
pianeta. Per formulare ed esprimere il contenuto di questa ridotta consapevolezza,
l’uomo ha inventato ed elaborato all’infinito quei sistemi di simboli e di
implicite filosofie che chiamiamo lingue. Ogni individuo è nello stesso tempo
il beneficiario e la vittima della tradizione linguistica nella quale è nato;
il beneficiario in quanto il linguaggio gli dà accesso ai ricordi accumulati
dall’esperienza degli altri; la vittima in quanto lo conferma nella convinzione
che la ridotta consapevolezza sia la sola consapevolezza e perché stuzzica il
suo senso della realtà, in modo che egli è fin troppo pronto a prendere i suoi
concetti per dati, le sue parole per cose vere.
Huxley parte
dunque dal presupposto per cui il cervello limiti le esperienze non necessarie
alla sopravvivenza: la mescalina avrebbe quindi lo scopo di liberare tale
impedimento inibendo l’assimilazione di glucosio da parte del cervello.
Lo scrittore comincia da
un dato fisiologico, ma il suo esperimento mira a dimostrare come la mescalina
porti ad un’esperienza mistica, ovvero spirituale, al contrario di altre
sostanze, come l’alcool e il tabacco, meramente intossicanti. Il suo
esperimento vuole essere un’esortazione per quegli scienziati interessati ad un
approccio umanistico, che apra le strade dello spirito al genere umano.
Osmond registrò
le sessioni. La droga era lenta nel fare effetto, ma questo durò poi per circa
otto ore. La moglie Maria seguì l’esperimento. Dallo studio dello scrittore, il
gruppo camminò per sette isolati fino a raggiungere un drugstore particolarmente fornito, e furono sottoposti a Huxley dei
libri d’arte, che attirarono la sua attenzione. Tornarono a casa per ascoltare
musica, mangiare e camminare in giardino; alla fine, si spostarono sulle colline
che sovrastano West Hollywood, dove fecero alcune foto allo scrittore, prima
che l’effetto terminasse.
Al principio
dell’esperienza, Osmond cerca di far definire a Huxley lo spazio-tempo mutato.
Egli sembra divenire cieco, capace di far venire meno il dato biologico,
per cui l’occhio non si preoccupa più di comprendere l’ambiente circostante con
i suoi pericoli e le sue opportunità. Il processo sembra procedere non tanto
dal dato esterno alla mente, ma da quest’ultima alla natura circostante. Così
gli oggetti divengono funzione dello sperimentatore: non conta più la loro
collocazione, né ciò che rappresentano, bensì solo ciò che intrinsecamente
sono.
Importante era
che i rapporti di spazio avevano cessato di avere gran peso e la mia mente
percepiva il mondo in termini diversi dalle categorie di spazio. In tempi
normali l’occhio si interessa di problemi come Dove?, A quale distanza?,
Qual è la posizione in relazione a che
cosa?. Nell’esperienza della mescalina le domande implicite alle quali
l'occhio risponde sono di un altro ordine. Posto e distanza cessano di avere
grande interesse. La mente percepisce in termini di intensità di esistenza,
profondità di significato, relazioni entro uno schema. Io vedevo i libri, ma
non mi interessava affatto la loro posizione nello spazio. Ciò che notai, ciò
che colpì la mia mente fu il fatto che tutti splendevano di luce viva, e che in
alcuni la gloria era più manifesta che in altri. Sotto questo aspetto, la
posizione e le tre dimensioni erano fuori causa. Non che, senza dubbio, la
categoria di spazio fosse stata abolita. Quando mi alzai e presi a camminare,
potei farlo del tutto normalmente, senza falsare i contorni degli oggetti. Lo
spazio era sempre là, ma aveva cessato di predominare. La mente si interessava,
soprattutto, non di misure e di collocazioni, ma di essere e di significato.
Siamo abituati a
considerare gli oggetti in relazione ad altro. Parte del loro significato
materiale dipende dalla loro collocazione in un dato luogo e in un dato
momento. E se eliminiamo il primo fattore, l’oggetto non è più vincolato a un
tempo che si svolge prima o dopo una certa posizione nello spazio (p. es.
prima, durante o dopo la caduta di una mela dal tavolo). Liberando l’oggetto
dal suo vincolo relazionale, esso è solo in se stesso e al contempo in sé ha l’universo.
Ero tornato dove
ero stato quando guardavo i fiori, ero tornato in un mondo dove tutto brillava
di Luce Interiore, ed era infinito nel suo significato. Per esempio, le gambe
di quella sedia, com’era miracolosa la loro lucida levigatura! Passai diversi
minuti – o erano secoli? – non soltanto a fissare quelle gambe di bambù, ma
essendo effettivamente quelle gambe o piuttosto essendo io stesso in loro; o
per essere ancora più preciso (perché “Io” non ero implicato nella questione,
né in un certo senso lo erano “esse”) essendo il mio Non-io nel Non-io che era
la sedia.
Huxley cita
molti oggetti ne Le porte della
percezione, spesso riferendosi direttamente a opere d’arte. Egli nutre un
particolare interesse per i drappeggi, che introducono forme non
rappresentative nella pittura figurativa e nella scultura naturalistica. L’abilità
dell’artista è in questo senso innata, poiché questi è «congenitamente
attrezzato a vedere sempre. La sua percezione non è limitata a ciò che è
biologicamente o socialmente utile».
In particolare,
i drappeggi sono segni, incisioni dalla forte carica espressiva (immediato è il
collegamento con tanta arte contemporanea, a partire da Lucio Fontana e da
molti altri). Ma perché i drappeggi abbiano tale forza, per Huxley non è certo.
D’altra parte
Ciò che conta è
meno la ragione dell’esperienza che l’esperienza stessa. Fissando le gonne di
Giuditta, nel Più Grande Emporio del Mondo, appresi che Botticelli – e non solo
Botticelli ma anche molti altri – aveva guardato i drappeggi con gli stessi
occhi trasfigurati e trasfiguranti dei miei quella mattina. Essi avevano visto
l’Istigkeit, il Tutto e l’Infinito
nelle pieghe degli abiti e avevano fatto del loro meglio per renderlo in
pittura o in pietra. Necessariamente, è fuori dubbio, senza riuscirvi. Poiché
la gloria e la meraviglia dell’esistenza pura appartengono a un altro ordine
che anche l’arte più alta non ha il potere di esprimere. Ma nella gonna di
Giuditta potei vedere chiaramente ciò che, se fossi stato un pittore di genio,
avrei potuto fare dei miei vecchi calzoni di flanella. Non molto, sa Iddio, in
paragone con la realtà, ma abbastanza per far loro comprendere almeno un poco
del vero significato di ciò che nella nostra patetica imbecillità chiamiamo “mere
cose” e trascuriamo preferendo la televisione.
E qui si giunge
al punto ulteriore. L’arte – secondo Huxley – è per “principianti”, oppure per
chi si accontenta dei simboli e non di ciò che essi significano. Questo
tuttavia non sminuisce l’arte, poiché il discorso vale per «una persona la cui
mente trasfigurata e trasfigurante può vedere il Tutto in ogni questo […]». Ed è così, anzi, che
l’arte riacquista la sua funzione di interprete e di mediatrice; non si chiude
nell’auto-referenzialità, ma incanala l’essenza delle cose in un recipiente che
possa rendere tale essenza più accessibile.
Così un semplice
vaso di fiori diviene «un miracolo, momento dopo momento, della nuda esistenza».
Proprio perché la durata è sostituita da un perpetuo presente, l’esperienza è
talmente affascinante, che lo sperimentatore non sente l’esigenza di compiere
azioni, ma solo di esserci e di partecipare di tutto ciò che lo circonda e che
racchiude. Egli distinse due tipologie di visioni: estetiche (costituite da
colori sgargianti) e sacre, a seconda del grado di profondità a cui davano
accesso.
La comunicazione
visuale domina su quella verbale in quanto più evocativa. Forse in questo
senso, influirono i problemi alla vista che lo colpirono (aveva sofferto di
irite, un’infiammazione dell’iride). Huxley cercò di curare la vista fisica – e
scrisse inoltre L’arte di vedere
(1942) – ma al contempo si occupò di risolvere una miopia interiore, a cui
tutti siamo soggetti.
Ora, se è vero
che l’esperienza con la mescalina conduce a stati di profonda comprensione
delle cose, a tal punto da percepire un’intima relazione con tutto, Huxley
parla di una condizione umana di solitudine che non conosce grandi eccezioni.
Noi viviamo
insieme, agiamo e reagiamo gli uni agli altri; ma sempre, in tutte le
circostanze, siamo soli. I martiri quando entrano nell’arena si tengono, per
mano; ma vengono crocifissi soli. Allacciati, gli amanti cercano disperatamente
di fondere le loro estasi isolate in una singola autotrascendenza; invano. Per
la sua stessa natura, ogni spirito incarnato è condannato a soffrire e godere
in solitudine. Sensazioni, sentimenti, intuiti, fantasie, tutte queste cose
sono personali e, se non per simboli e di seconda mano, incomunicabili.
Possiamo scambiarci informazioni circa le esperienze, mai però le esperienze
stesse. Dalla famiglia alla nazione, ogni gruppo umano è una società di
universi-isole.
Huxley conclude
che la mescalina non corrisponda né porti all’illuminazione suprema, ma che
costituisca una “grazia gratuita” (termine ripreso dalla Summa Theologica di Tommaso d’Aquino).
Il monaco Swami
Prabhavananda affermò proprio che quella sostanza costituisse un cammino
illegittimo verso l’illuminazione. E negli anni seguenti, lo stesso Huxley sostenne
che quell’attenzione verso la mescalina fu una tentazione che permetteva di
fuggire dalla “realtà centrale”, ma che portava ad una falsa, o comunque
imperfetta forma di beatitudine.
Mosso dalle
nuove riflessioni, egli pubblicò il seguito de Le porte della percezione, il cui titolo è ancora ispirato al testo
di Blake: Paradiso e Inferno (1956).
Quest’opera arricchisce la prima con nuovi elementi legati soprattutto all’arte
e distingue tra visioni positive e negative.
Per loro, come
per il visionario positivo, l’universo è trasfigurato, ma nella maniera
peggiore. Tutto in esso, dalle stelle in cielo alla polvere sotto i piedi, è
indicibilmente sinistro o disgustoso; ogni avvenimento è carico di significato
d’odio; ogni oggetto manifesta la presenza di un Orrore Onnipresente, infinito,
onnipotente, eterno.
Huxley parla
degli schizofrenici, che intende come coloro che vivono normalmente l’altro
mondo e al contrario non riescono ad adattarsi al nostro abituale. Anch’egli,
ne Le porte della percezione, aveva
avvertito un’intensa paura di fronte alla vista di una semplice sedia, che
aveva paragonato a quei sentimenti di follia che si ritrovano in opere della
letteratura e della spiritualità come il Libro
tibetano dei morti.
Un’ulteriore
distinzione presente in Paradiso e
Inferno riguarda l’esperienza mistica e visionaria:
L’esperienza visionaria
non è la stessa dell’esperienza mistica. L’esperienza mistica è al di là del
regno dei contrari. L’esperienza visionaria è ancora entro questo regno. Il
paradiso implica l’inferno, e “andare in paradiso” non è maggiore liberazione di
quanto lo sia la discesa nell’orrore. Il paradiso è soltanto un punto di
vantaggio dal quale il Piano divino può esser visto più chiaramente anziché dal
livello dell’ordinaria esistenza individualizzata.
In maniera
simile al discorso sull’arte, anche questa distinzione non ha i contorni di un
giudizio; serve invece a definire i diversi gradi delle esperienze superiori. Perché
in fondo – come egli stesso specifica – nella vita «anche l’esperienza
visionaria beatifica tende a cambiare i suoi sintomi se dura troppo lungamente.
Molti schizofrenici hanno i loro periodi di felicità paradisiaca; ma il fatto
che (al contrario del consumatore di mescalina) essi non sanno quando, se pure
mai, saranno autorizzati a tornare alla tranquillante banalità dell’esperienza
quotidiana, fa sì che anche il paradiso sembri spaventoso. Ma per coloro i
quali, per qualsiasi ragione, sono spaventati, il paradiso si trasforma in
inferno, la beatitudine in orrore, la Luce Chiara nell’odioso lampo della terra
dell’illuminazione».
Allora l’esperienza
visionaria mostra i propri limiti e quella mistica rimane in attesa di essere
esplorata. Il ritorno alla banalità rassicurante appare quasi d’obbligo, purché
sia cosciente e momentaneo. E ognuna di queste differenze riposa e si anima
nella stessa identità, senza mai esserne qualcosa di diverso.
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