Un'analisi dell'obiettivo 5 dell'Agenda 2030. La parità di genere
Samuel Prophask Asamoah, Definition of Women Empowerment (data incerta) |
L’obiettivo 5 dell’Agenda 2030 per lo
sviluppo sostenibile si occupa della parità di genere.
Un precedente progetto sul tema si può
ritrovare negli Obiettivi di Sviluppo del Millennio, che prevedeva traguardi
come la parità di accesso all’istruzione primaria per ragazzi e ragazze.
Oltre centoquaranta Stati presentano
nella propria costituzione il concetto di parità di genere, ma ancora una
cinquantina non riconosce questo diritto fondamentale. La discriminazione di
genere è un fatto ancora più “universale” rispetto alla pur grave
discriminazione razziale, dal momento che la prima coinvolge tutte le donne ad
ogni latitudine, benché in forme diverse. Proprio per questo, stabilire la
parità di genere significa fare un passo importante anche nei confronti di
tutte le altre forme di discriminazione che riguardano specifiche etnie o
categorie fragili nella società.
Non è solamente una guerra per i
diritti, dal momento che da questo punto di vista è la biologia stessa a
rendere chiaro un fatto: che pur nelle rispettive differenze, uomini e donne
sono dotati delle medesime capacità. Inoltre, i risultati in vari campi, p. es.
nella capacità di leadership, dimostrano che le donne sono dotate di specifiche
doti relazionali che le portano ad avere un atteggiamento più collaborativo
rispetto agli uomini, i quali presentano invece una maggiore tendenza alla
leadership autoritaria.
Oltre ai diritti, la lotta per la parità
di genere si configura come una lotta per la civiltà. Anche qui, sotto vari
punti di vista. Come riporta il sito dell’UNICEF, commentando l’obiettivo 5 con
i dati di uno studio condotto in 87 Stati, il 19% delle donne nella fascia
d’età 15-49 ha dichiarato di aver subito violenze fisiche o sessuali dal
partner. Solo nell’ultimo anno. Ciò nonostante, sono decine gli Stati che
ancora non tutelano le donne dalla violenza domestica.
Ma la lotta per la civiltà include molto
altro. I dati sui matrimoni che coinvolgono minorenni indicano una leggera
flessione (sempre dai dati dell’UNICEF), tuttavia permangono fenomeni
gravissimi come la MGF (mutilazione genitale femminile), dovuti non solo ad una
generica misoginia, ma a fattori culturali spesso molto antichi e per questo
ancora più difficili da cancellare. In questo caso specifico i dati sono
incerti, perché la MGF non viene sempre realizzata in strutture sanitarie e
spesso il fenomeno viene praticato illegalmente a livello domestico.
Dunque ci sono donne nel mondo che non
solo non hanno alcuna tutela rispetto alle violenze subite o ai diritti sulla
proprietà, ma che si ritrovano a dover subire condizioni che le segnano per
tutta la vita, già da bambine.
Laddove questi estremi problemi sono
perlomeno attenuati, come nei Paesi occidentali, le sfide si concentrano
soprattutto su temi come la parità di trattamento e di retribuzione sul lavoro.
Seguendo i dati UNICEF, meno di un terzo
dei ruoli di middle e top management sono assegnati alle donne: in politica, la
presenza femminile nei parlamenti è stimata intorno al 23% (nel 2016). Nemmeno
un quarto del totale, per di più proprio in quell’ambiente lavorativo dove si
decidono le leggi e i provvedimenti che governano tutti i cittadini. Poche
donne nei parlamenti significa dunque una minore attenzione ai temi della
parità che, anche quando vengono presi in considerazione, sono trattati per la
maggior parte da uomini.
Il rapporto “Trasformare le promesse in
azione: la parità di genere nell’Agenda 2030” presentato a New York da Phumzile
Mlambo-Ngcuka, direttore di United Nations Women, sottolinea come lo sviluppo
sostenibile sia possibile solo con la parità di genere: è una questione di
giustizia giuridica, sociale, umana.
Il rapporto entra nel merito di questa
affermazione: ci sono oltre quattro milioni di donne in più rispetto agli
uomini che vivono in condizioni di povertà estrema. Il fenomeno coinvolge anche
nazioni ricche come gli Stati Uniti, dove il tasso di povertà delle donne nere
e delle indigene americane è il doppio di quello delle donne bianche e
asiatiche. Ancora una volta, da questo dato emerge anche la disparità in
termini razziali.
La povertà, inoltre, porta con sé un
alto tasso di abbandono scolastico: all’interno di una famiglia con più figli,
sono i maschi ad essere privilegiati nell’accesso all’educazione. Questo si
potrebbe spiegare sia da un punto di vista culturale (per quella tradizione che
vede la donna relegata a ruoli domestici e familiari), sia da un punto di vista
sociale, perché, disponendo di poche risorse, una famiglia predilige
l’educazione del figlio maschio, che ha più probabilità di “farsi spazio nel
mondo” rispetto a una donna. Come si può notare, è una sorta di circolo
vizioso, che muove dalla famiglia alla società e viceversa.
Inoltre è evidente che il problema non
riguardi solo l’accesso all’istruzione, ma anche altri aspetti come l’accesso
alle cure mediche. Partendo svantaggiate già dall’infanzia, il divario tra
uomini e donne non può che farsi più ampio con il passare del tempo. La donna
cresciuta nella povertà, scarsamente educata, non è quindi in grado di
competere con il mercato del lavoro sempre più esigente e specializzato. In
più, dopo aver vissuto tutta la giovane età in una condizione di sottomissione
– più o meno esplicita o marcata – rispetto agli uomini della famiglia (oltre
al padre, i fratelli “favoriti”), questa donna si ritrova a cercare in un uomo
una figura che la protegga e si prenda cura di lei, in quanto è stata da sempre
oggettivamente disarmata dalla cultura nella quale ha vissuto.
Tuttavia nemmeno per le donne istruite
la strada è tutta in discesa. I pregiudizi di genere sono forti: alcuni si
alimentano del pensiero comune, altri – più subdoli – nascono come reazione al
senso di minaccia avvertito tanto dai colleghi maschi quanto dalle colleghe,
che vedono minacciato lo spazio che hanno dovuto guadagnarsi strenuamente (il
fenomeno delle donne contro altre donne meriterebbe una trattazione a parte).
E ai pregiudizi si affiancano le
disparità: il citato rapporto di Un Women sottolinea che nel mondo le donne
ricevono in media il 23% di remunerazione in meno rispetto ai colleghi (è il
cosiddetto “Gender Pay Gap”).
Qual è invece la situazione italiana?
Sul sito italiano dedicato all’Agenda 2030, risulta che il tasso di occupazione
delle donne sia tra i più bassi dell’Unione Europea (circa il 52% contro la
media UE di circa il 65%, nella fascia d’età 20-64).
Ci sono stati diversi provvedimenti
legislativi e progetti. Tra questi: lo stanziamento di dieci milioni di euro da
parte del governo per il “Piano d’azione straordinario contro la violenza
sessuale e di genere” (triennio 2017-19); la dichiarazione di illegittimità
costituzionale rispetto alla norma implicita che obbliga l’imposizione del solo
cognome paterno; 20 milioni investiti nel contrasto alle discriminazioni; quota
delle consigliere nei CdA delle imprese a partecipazione pubblica quotate in
Borsa aumentata dal 4,5% (2004) al 30,3% (2016).
Ma l’Italia rimane indietro per altri
aspetti: mediamente, il numero di parlamentari donne rimane circa a un terzo
del totale e comunque con scarsi incarichi di rilievo (è sufficiente guardare
al numero ridotto di donne nelle varie task
force create dal governo per affrontare l’emergenza del Coronavirus).
Oltretutto, il concetto stesso di “quota rosa” può essere umiliante, poiché una
donna dovrebbe essere chiamata a ricoprire un ruolo per le proprie qualità e
non perché è necessario coprire un numero per raggiungere una percentuale accettabile
di politicamente corretto.
Il parlamento riflette in tal senso una
tendenza tipica della società, invece che attivarsi per legiferare in contrasto
a quella tendenza. Infatti, solo per citare un esempio, le giovani donne che
intendono avviare una nuova impresa necessitano di maggiori garanzie tecniche
per poterlo fare rispetto agli uomini, dal momento che vengono considerate meno
affidabili o meno capaci nel fare impresa (per contro, in Stati come l’India
avviene l’esatto contrario, sempre per ragioni culturali).
Per quanto riguarda la maternità, il 30%
delle madri lavoratrici interrompe il lavoro alla nascita del figlio. L’impiego
di anticoncezionali moderni è inoltre sotto la media europea di ben 18 punti:
solo circa il 18% delle donne italiane utilizza la pillola contraccettiva,
mentre un altro difetto riguarda la possibilità di accedere all’interruzione
volontaria della gravidanza (Legge 194/78), soprattutto al Sud, per la
diffusione dell’obiezione di coscienza del personale medico e paramedico.
D’altra parte, a maggio 2020, un
personaggio pubblico come il giornalista Mario Adinolfi invitava su Twitter le
ragazze a diventare madri, per una ricrescita dalle macerie come nel 1946,
senza considerare un semplice fatto storico, ovvero che l’incremento delle
nascite dal ’46 non fu dovuto tanto alla fine della guerra, quanto alla
speranza in un futuro di benessere, che si realizzò nel boom economico degli
anni Cinquanta. Condizioni totalmente diverse da quelle odierne, in cui la
speranza è un fattore continuamente messo in crisi dalle precarie condizioni di
vita.
Per concludere, la lotta per la parità
di genere è un territorio talmente vasto proprio perché coinvolge circa la metà
dell’intera popolazione globale. Una persona su due vive dunque a prescindere
una situazione di partenza che la vede più o meno svantaggiata. Messa in questi
termini, la questione assume un rilievo ancora maggiore.
Il tema è talmente importante da
coinvolgere il significato stesso del termine donna, p. es. in concomitanza con
lo sviluppo di nuove teorie e scelte relative al gender, che possono anche
andare oltre una troppo netta divisione tra i due sessi e che potenzialmente
possono quindi contribuire a favorire un clima di uguaglianza tra i generi.
In definitiva, l’obiettivo 5 dell’Agenda
2030 si pone diversi traguardi da raggiungere per la parità di genere, attraverso
leggi e campagne di sensibilizzazione che possono essere sintetizzate nei
seguenti punti:
1) fine
di ogni forma di discriminazione e di violenza nei confronti delle donne di
ogni età e provenienza;
2) abolizione
delle pratiche e consuetudini che danneggiano le donne (p. es. i matrimoni
combinati e la MGF);
3) valorizzare
la parità di genere nel nucleo familiare (a partire da responsabilità
condivise);
4) rendere
possibile di fatto la partecipazione femminile alla leadership e a tutti i
contesti e ruoli lavorativi;
5) garantire
la parità nell’accesso alle risorse economiche, al diritto alla proprietà, ai
servizi finanziari, alla salute sessuale e riproduttiva;
6) promuovere
l’impiego della tecnologia dell’informazione e della comunicazione per dare
maggiore forza all’empowerment delle donne.
Sitografia
° Sito ASviS (Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile) sull’obiettivo 5: qui.
° Sito italiano dell’Obiettivo 2030, per i dati citati sulla situazione italiana: qui.
° Sito UNICEF sugli obiettivi dell'Agenda 2030: qui.
Analisi interessante! Esprimo la mia opinione su due punti:
RispondiElimina1. penso che le quote rosa, sebbene facciano storcere il naso, potrebbero essere utili per incentivare le donne ad affrontare percorsi di studio e/o carriera che magari sono tradizionalmente maschili, potrebbero essere utili in una fase di "transizione", per poi essere abbandonate quando non ve ne sarà più bisogno, in quanto la cultura sarà cambiata. Tendo a dare per scontato che per quote rosa non si intende assumere una persona solo perchè donna, ma assumere una persona perchè qualificata, perchè donna e perchè il ruolo che deve ricoprire ha bisogno di rappresentanza femminile.
Non sono sicura al 100%, però ottimisticamente penso che potrebbe produrre questi effetti positivi.
2. Riguardo alla legge per il diritto all'aborto, dico che tra i ginecologi debbba essere vietato il diritto all'obiezione di coscienza. Faccio un'esempio: sarebbe normale che un medico di famiglia fosse no-vax? Certo che no! Ergo, se una persona che vuole fare il ginecologo o la ginecologa, non è disposto a praticare aborti, deve semplicemente trovare un'altra strada, perchè rendere irraggiungibile il diritto all'aborto può provocare dei danni inimmaginabili (fisici, psicologici ecc.) oltre che incentiverebbe il ricorso a vie illegali e pericolose. Ricordiamoci bene che anche negli anni '40 l'aborto si praticava, c'è sempre stato e non cesserà mai di esistere e bisognerebbe anche cambiare la narrativa al riguardo. (Su quest'ultimo punto però non mi dilungo, perchè uscirebbe fuori un messaggio ancora più lungo!)
Se il concetto di quote rosa viene applicato nel modo che intendi, allora è effettivamente valido; e deve sempre essere inteso come fase transitoria verso una condizione in cui l'equità di genere possa essere espressa in maniera "spontanea".
EliminaRiguardo agli obiettori di coscienza, sono d'accordo: nel momento in cui avviene questo rifiuto, il medico dovrebbe essere reinserito in un altro contesto sanitario, dove possa svolgere il proprio lavoro, senza però nuocere ai propri pazienti.