Impronte di classici III
Sir John Lavery, Alice (1919) |
La rubrica Impronte
di classici si propone di commentare i classici della letteratura.
Non si tratta di recensioni, bensì di impressioni, utili a
fornire un rapido sguardo d’insieme sulle opere e ad evidenziarne alcuni
aspetti. L’obiettivo è offrire ai lettori una sintesi ed eventualmente
sollecitarne o disincentivarne la lettura.
Nella rubrica di oggi parlo di cinque libri: Frankenstein; or, The Modern Prometheus di M. Shelley, Moby-Dick; or The Whale di H. Melville, The Prophet di K. Gibran, Nineteen Eighty-Four di G. Orwell, Lord of the Flies di W. Golding.
Per queste e altre impressioni di classici – e non solo – mi
trovate anche su Goodreads (qui).
Mary Shelley, Frankenstein;
or The Modern Prometheus (Frankenstein,
1818, 1831)
Foto promozionale dell'attore Boris Karloff, per Bride of Frankenstein (1935) |
Mary Shelley ha consegnato al mondo una di quelle rare
storie che, in tempi antichi, avrebbe certo dato origine ad un’intera
mitologia. E ad essa l’Autrice stessa si ispira, con quel titolo che per intero
diventa Il moderno Prometeo, per dare
tuttavia vita ad una trama innovativa, destinata a sua volta ad influenzare la
letteratura, il cinema e l’immaginario collettivo.
La prima edizione del 1818 fu scritta da un’Autrice
giovanissima e fu poi rivista nel 1831. Il potere evocativo del nome
Frankenstein porta spesso a far credere che esso si riferisca alla creatura e
non – come è in realtà – al suo artefice. La creatura terrorizza gli uomini,
non perché essa sia malvagia, ma perché la sua diversità, fisica e ontologica,
la rende un facile capro espiatorio, l’oggetto più semplice sul quale riversare
il pregiudizio.
Gli aneddoti sulla nascita, l’evoluzione e la pubblicazione
del romanzo meriterebbero una trattazione a parte. Certo Mary Shelley fu abile
a fare interagire elementi filosofici (da Hobbes a Rousseau i più evidenti),
scientifici (in particolare, gli studi sul galvanismo) e letterari, a partire
dall’adozione della forma epistolare fino al rapporto tra letteratura classica
e contemporanea, quindi da scrittori come Ovidio all’antologia Fantasmagoriana, la cui lettura ispirò
la scrittrice e gli altri intellettuali riunitisi nella villa di Byron a
Cologny, in Svizzera, nell’estate del 1816. E in tutto questo, si aggiunge
l’occhio attento di un’Autrice in grado di cogliere alcuni significati delle
turbolenti correnti del suo tempo, sottolineando i rischi di uno sviluppo
incontrollato del progresso scientifico e, più in generale, dell’ardore umano
rispetto al controllo degli elementi.
Herman Melville, Moby-Dick;
or The Whale (Moby Dick, 1851)
Illustrazione del romanzo di Isaac Walton Taber, per un'edizione del 1902 |
Classico dell’American Renaissance, Moby Dick è la storia della baleniera Pequod, comandata da Achab, e
della “balena bianca”, verso la quale il capitano nutre un odio profondo.
Melville trasse ispirazione da fatti realmente accaduti, dalla cronaca e da
ricerche approfondite – e aggiornate all’epoca – in àmbito naturalistico. Il
carattere enciclopedico di molte parti dell’opera la rende oggi una lettura non
certo facile (significativa in tal senso è la descrizione minuziosa di tutte le
tipologie di cetacei). Ciò nonostante è proprio tale aspetto a determinare la
novità di Moby Dick, che con questa
frammentazione della trama costringe il lettore a prestare un’attenzione
maggiore, a diventare l’agente attivo della vicenda, quasi fosse egli stesso lo
scopritore delle singole fonti da raccogliere.
L’opera ebbe successo solo decenni dopo la morte dell’Autore; i temi più
incisivi sono la paura verso l’ignoto, ma al contempo anche il fascino per la
maestosità della Natura; il significato del viaggio per l’essere umano, tra
riferimenti biblici, storici e filosofici.
Il capitano Achab è accecato dall’odio e non riesce ad
accettare i propri limiti umani, naturali; insegue l’animale, ma è spesso
questo a presentarsi a lui in tutta la sua potenza. Allora Moby Dick, che può
rappresentare l’anelito umano verso l’Assoluto sconosciuto, si trasforma anche –
di fronte alla difficoltà della ricerca – nella terribile manifestazione del male,
che si realizza tra gli uomini, e tra essi e la Natura, quando viene a mancare
la comprensione e prevale l’istinto di dominio.
Kahlil Gibran, The
Prophet (Il profeta, 1923)
Copertina della prima edizione |
Dal Novecento ad oggi, le opere di questo genere sono più
rare di quanto si pensi. Poiché di spiritualità si è pubblicato e si pubblica
tanto, soprattutto saggistica (o pseudo tale), rischiando spesso di cadere
vittima delle allucinazioni del guru del momento, privo di ogni legame
legittimo con una qualsiasi tradizione.
Il Profeta di Gibran è impregnato delle parole bibliche, coraniche ed
estremo orientali, ma non è un testo religioso, che lo renderebbe limitato di
per sé: si tratta di spiritualità nel significato più nobile del termine.
Un’analisi approfondita dei contenuti richiederebbe un lungo
spazio, perché Gibran parla di grandi argomenti, dal rapporto tra ragione e
passione o tra bene e male, fino a descrivere come dovrebbero sussistere i
legami umani quali l’amicizia, la famiglia, l’amore di coppia, affinché possano
essere floridi.
L’Autore non impiega elaborati costrutti teorici, né ragionamenti complessi, ma
con una prosa poetica – tanto descrittiva quanto chiara nei contenuti – egli
delinea la propria visione del mondo, cercando di mostrarla nella sua
universalità attraverso la figura di un profeta. Tra i temi forse più incisivi
dell’opera, ritorna più volte nel testo l’idea che non vi sia una colpa o un
peccato atavico e che il male stesso nasca dal dubbio e dall’esitazione,
sebbene da quest’ultimi termini possa nascere al contempo anche l’occasione di
fare del bene.
Il profeta di Gibran rassicura l’umanità e guarda ad essa
consapevole dei difetti che la caratterizzano: sceglie, tuttavia, di metterne
in luce l’intima bontà.
George Orwell, Nineteen
Eighty-Four (1984, 1949)
Copertina della prima edizione |
Romanzo pubblicato nel 1949, ma scritto nell’anno precedente
(da cui il titolo, a cifre invertite). La terra è divisa in tre grandi potenze
totalitarie in perenne conflitto: Oceania, Eurasia, Estasia. Londra è parte
della provincia di Pista Uno ed è sede dei ministeri di Oceania, tra cui quello
temibile della Verità, che presiede la propaganda e il revisionismo storico.
La società è amministrata secondo i princìpi del Socing (IngSoc), cioè del partito socialista
inglese, ed è governata da un partito unico guidato dal Grande Fratello (Big Brother), che ha le caratteristiche
di Josif Stalin e di Adolf Hitler. Il partito unico controlla i suoi membri
attraverso teleschermi e delatori: il Ministero dell’Amore (Miniluv) si occupa di convertire i
dissidenti alla sua ideologia, servendosi della psicopolizia (Thought Police).
I Prolet sono quei cittadini posti al di sotto del partito,
privi di potere e destinati a svolgere lavori pesanti: la discriminazione tra
classi è molto marcata e il capo dei dissidenti, Emmanuel Goldstein, viene
costantemente sottoposto all’odio propagandistico.
Gli slogan più diffusi dal governo sono “la guerra è pace”, “la libertà è
schiavitù”, “l’ignoranza è forza”. Altri slogan elogiano l’unica forma di
pensiero ammessa, il bipensiero (Doublethink),
ispirato al materialismo dialettico leninista: “la menzogna diventa verità e
passa alla storia”; “chi controlla il passato controlla il futuro: chi
controlla il presente controlla il passato”.
Il linguaggio che si sviluppa è la Neolingua (Newspeak), in cui i termini assumono un significato sempre più
specifico e si semplificano i significati concessi, in modo tale che sia
impossibile concepire un pensiero critico individuale. La cultura viene
adattata per esprimere l’unica linea di pensiero; la realtà è falsificata; la
letteratura è meccanizzata tramite versificatori – che seguono schemi
predefiniti – e parlascrivi.
In questo scenario, si sviluppano le vicende del
protagonista, Winston Smith, e di Julia. Orwell fu molto ispirato da Aldous Huxley,
che fu suo docente all’Eton College. In seguito alla guerra civile spagnola, a
causa del tradimento sovietico, Orwell cominciò a schierarsi contro ogni forma
di totalitarismo: scrisse così opere come Omaggio
alla Catalogna e La fattoria degli
animali. 1984 è la sua opera più
matura, una delle distopie più note della letteratura, in grado – in parte – di
preannunciare alcuni sviluppi della società e di influenzare in modo
preponderante il genere, anche a livello cinematografico.
William Golding, Lord
of the Flies (Il signore delle mosche,
1954)
Copertina della prima edizione, di Faber & Faber, con un'illustrazione di Anthony Gross |
Il libro narra la storia di un gruppo di ragazzi britannici
finiti su un’isola disabitata in seguito alla caduta in mare dell’aereo sul
quale si trovavano.
Capitati in un ambiente idilliaco, gli istinti prendono comunque
il sopravvento e a poco a poco mettono da parte la propria “civile educazione”
per lasciarsi andare ad uno stato primitivo. Tentano però di auto-organizzarsi,
dandosi regole condivise e differenziando i compiti. L’esperimento si riduce ad
una breve parentesi, perché ben presto la natura animalesca dei giovani –
alimentata da un lato dalla paura per l’ignoto, dall’altro dal desiderio di
potere – ha ragione di ogni tentativo di gestione razionale della situazione.
Secondo Golding, nell’essere umano è insito il male e, anzi,
lo produce così come le api producono il miele. E non è un caso che egli abbia
scelto dei ragazzini come protagonisti, smitizzando in parte quella convinzione
che vede nei più giovani una purezza primigenia.
Innumerevoli sono i simboli impiegati da Golding nella definizione della sua
poetica. Una conchiglia marina diviene lo strumento per chiamare tutti i
sopravvissuti e diviene il mezzo con il quale poter giungere a conclusioni
razionali (mantenere sempre il fuoco acceso), espresse in modo democratico
(parla solo chi, a turno, ha la conchiglia in mano).
I giovani cercano un leader e qui si dividono tra quello
razionale e lungimirante e quello istintivo e più propenso all’impiego della
violenza. Nel mezzo, coloro che si adeguano alla legge del più forte, quelli
che tentano di mediare, o ancora i sottomessi e i capri espiatori. Si
definiscono così due ambienti precisi: il luogo in cui si trovano le capanne,
sulla costa, che rappresenta un baluardo di civiltà, e la foresta, che trasforma
i suoi avventori in selvaggi. A questi due spazi, si aggiunge Castle Rock, un
pendio roccioso dove si comincia a credere che vi sia nascosta la Bestia, un
essere mostruoso che terrorizza i ragazzi durante la notte.
Nelle sue pagine, l’Autore non si dilunga nei particolari e si concentra su
alcuni singoli eventi che, concatenati, generano un ritmo serrato e proteso
verso la tragedia. In metafora, è facile intuire come vi sia una descrizione
della nascita dei totalitarismi, ma l’opera parla in realtà in modo ancora più
universale, trattando della malvagità propria del genere umano, a prescindere dalla
nazionalità e persino dall’età e dall’estrazione sociale (i ragazzi sono tutti
di buona famiglia).
In realtà, ai protagonisti è offerto tutto il necessario per sopravvivere; essi non mancano di nulla, tuttavia si ritrovano a lottare per il predominio e contro forze oscure che il loro inconscio trasforma in un’entità maligna dalla quale doversi difendere. Con una lettura contemporanea, inoltre, potremmo figurarci l’isola come il pianeta Terra e i ragazzi come l’umanità, giovane comparsa del creato che non è in grado di apprezzare i frutti che ha davanti agli occhi e che le permetterebbero di vivere in pace.
Nota: per il precedente episodio della rubrica, si veda qui; per quello successivo qui. Su questo blog si trova anche la rubrica Letture commerciali, dedicata alle impressioni riguardanti i libri di successo pubblicati dal 2000 ad oggi (qui il primo post).
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