Impronte di classici II
Sir John Lavery, Alice (1919) |
La rubrica Impronte
di classici si propone di commentare i classici della letteratura.
Non si tratta di recensioni, bensì di impressioni, utili a
fornire un rapido sguardo d’insieme sulle opere e ad evidenziarne alcuni
aspetti. L’obiettivo è offrire ai lettori una sintesi ed eventualmente
sollecitarne o disincentivarne la lettura.
Nella rubrica di oggi parlo di cinque libri: Poems di E. Dickinson, Heart of Darkness di J. Conrad, The Catcher in the Rye di J. D. Salinger,
On the Road di J. Kerouac, Memorie di un librario di G. Orwell.
Per queste e altre impressioni di classici – e non solo – mi
trovate anche su Goodreads (qui).
Emily Dickinson, Poems
(Poesie, 1890)
Cover realizzata da Leslie Goldman |
Nel 1890 usciva postuma la prima raccolta poetica di Emily
Dickinson, curata M. Loomis Todd e T. W. Higginson; in vita erano state
pubblicate solamente poesie singole, quasi sempre senza il consenso
dell’Autrice e spesso con stravolgimenti testuali. La donna visse infatti una
vita appartata, esteriormente semplice e a tratti quasi ordinaria, ma ricca e
intensa dal punto di vista interiore. Alla sua morte, la scrittrice lasciò
quaranta taccuini di poesie, che furono così editi in una successione di
edizioni critiche (e non) che giungono fino ai nostri giorni.
Nella scrittura intimistica e introspettiva eccellono molte
scrittrici del passato. La loro sensibilità, e spesso la loro tristezza,
permise ad esse di farsi spazio in un mondo dominato dagli uomini. Donne
relegate per costrizione o per scelta dentro quattro mura, impossibilitate
dalle convenzioni ad esplorare il mondo esterno, che seppero trarre le migliori
pagine da quella loro prigionia fisica e mentale. Tra queste autrici, la più
nota in tal senso è forse proprio Emily Dickinson. A partire dall’Ottocento,
lei e altre scrittrici scardinarono a piccoli e determinati passi quella
struttura letteraria fatta a misura d’uomo e la resero sempre più universale e
inclusiva. E non si limitarono alla letteratura, poiché le loro vite furono
esempio di questa indipendenza quotidiana.
In Emily Dickinson ricorrono i temi della natura, della
religione, degli amori inconfessati, degli spazi preclusi dalla realtà, ma
accessibili dall’immaginazione. Il tema della morte è forse il più ricorrente,
o comunque uno dei più densi di significato. Le sue poesie possono riempiere di
dispiacere, perché ad ogni verso sembra di intuire qualcosa di non detto,
qualcosa che, nonostante le oltre millesettecento poesie che ci ha trasmesso,
si è sempre tenuta dentro. E che di fatto l’ha distrutta. La sua testimonianza,
giuntaci in modo tutt’altro che scontato, ha un respiro universale, non tanto
(non solo) perché tratta di temi comuni al genere umano, ma perché a distanza
di oltre un secolo riflette ancora, e forse meglio, l’anima sperduta
dell’umanità contemporanea.
Joseph Conrad, Heart
of Darkness (Cuore di tenebra,
1899)
Cover di un'edizione del 2010, illustrata da Matt Kish |
Il marinaio
Marlow racconta la sua avventura sul fiume Congo durante un viaggio svolto per
la compagnia belga coinvolta nel commercio dell’avorio. Alla stazione della
compagnia, Marlow rimane stupito dalla crudeltà dei colonizzatori. Qui sente il
nome di Kurtz, agente che aveva trasportato più avorio di tutti gli altri ed
era stato come divinizzato dalle popolazioni indigene. Si ritiene che egli sia
uscito di senno, per cui viene organizzata una spedizione per rintracciarlo, a
cui Marlow partecipa.
Il viaggio
intrapreso si svolge su più piani. Vengono rievocate le esplorazioni
geografiche dell’Ottocento: le descrizioni sono realistiche, poiché si parla di
luoghi concreti e del commercio dell’avorio, con vari riferimenti anche alle
esperienze di vita di Conrad.
Proprio
l’allontanamento dalla società occidentale e il contatto con un mondo più
selvaggio portano Marlow ad esplorare la parte più oscura dell’animo umano.
L’Uomo occidentale, convinto di avere una missione da compiere con la
civilizzazione, arriva a dare sfogo a quella parte oscura e commette violenze
nei confronti delle popolazioni locali. E proprio la tecnologia, che lo ha reso
“civile”, gli permette anche di compiere crimini su larga scala.
Ma oltre agli
aspetti storici, il viaggio di Marlow è simbolico: egli affronta un tragitto
via nave, come i grandi personaggi mitici quali Odisseo, per conoscere
fondamentalmente se stesso. La sua avventura riecheggia le numerose
esplorazioni dell’animo descritte nei grandi poemi della letteratura.
Come quei grandi
personaggi, Marlow diviene un simbolo dell’essere umano in cammino, alla
ricerca di se stesso e delle proprie origini. Nel suo caso specifico,
l’ambientazione africana, nel mezzo della giungla, stimola il protagonista in
questa indagine, in un cammino a ritroso in quel mondo dal quale tutti quanti
proveniamo.
J. D. Salinger, The Catcher in the Rye (Il giovane Holden, 1951)
Edizione del 1991, della Little, Brown and Company |
L’Autore avrebbe voluto che la copertina del romanzo fosse
interamente bianca, affinché i lettori si concentrassero sul contenuto:
l’editore dell’epoca non ascoltò lo scrittore e inserì il cavallo di una
giostra citata nel testo. La copertina bianca giunse solo nel 1991. Il titolo è
invece ispirato alla canzone Coming’ Through
the Rye
di Robert Burns, ma viene storpiato in un passaggio del testo, quando il
protagonista risponde alla sorella Phoebe che da grande vorrebbe salvare i
bambini, afferrandoli un istante prima che cadano nel burrone.
Il giovane
Holden Caulfield racconta la sua storia in prima persona, forse prima del
Natale del 1949: la vicenda si svolge nell’arco di un fine settimana, quando di
sabato Holden abbandona l’istituto dove studiava e di lunedì visita lo zoo
insieme alla sorella. Il ricordo di questa esperienza avviene alcuni mesi dopo,
quando Holden aveva compiuto diciassette anni. La storia è ambientata prima ad
Agerstown, immaginaria cittadina della Pennsylvania, poi a New York, nell’area
metropolitana di Manhattan.
Holden Caulfield
assiste ad una partita di football da una collina, prima di andarsene dalla
scuola, dalla quale è stato espulso per non aver passato abbastanza esami.
Passa a trovare il professore di storia Spencer, che aveva in simpatia, ma
viene ripreso e Holden se ne va senza comprendere la sincera preoccupazione del
docente. Rientrato per l’ultima volta nel dormitorio, incontra due compagni di
stanza, ma ne nasce un litigio per ragioni amorose. Emerge così fin da subito il
carattere turbolento del ragazzo, il quale, non riuscendo ad individuare il
proprio spazio nel mondo, diviene scontroso, schivo e diffidente verso gli
altri.
Ritornato in
anticipo a New York, decide di non avvisare i genitori e inizia così la sua
avventura tra night club, incontri con vecchie amicizie e anche con una
prostituta, che si rivelano tuttavia deludenti. Egli non sa ancora che cosa
stia cercando; con curiosità si apre al mondo, ma è la sua sensibilità a
ferirlo di fronte a persone che non sono in grado di offrirgli le risposte che
ritiene di doversi aspettare.
Incompreso, in
lui cresce il desiderio di fuga: è in parte una negazione delle responsabilità,
in parte un rifiuto della necessità e del dovere di crescere, adducendo una
serie di pretesti. In un linguaggio nuovo per il suo tempo, vivo e senza filtri,
Salinger descrive il modo di vivere di quei giovani che non riescono a trovare
un significato duraturo alla vita, principalmente perché rifiutano con disgusto
la società borghese e convenzionale. Non sembrano esserci soluzioni esaustive a
questo “educato degrado”, per cui il protagonista vede nella fuga una risposta
immediata, che solo l’amore per la sorella Phoebe riesce a mitigare in una
maggiore prudenza.
Jack Kerouac, On
the Road (Sulla strada, 1957)
La copertina della prima edizione |
La tradizione fa
derivare l’espressione “beat generation” da una visione di Kerouac, il cui
significato rimanderebbe al concetto di “beato”. Egli fu tuttavia critico
rispetto a quello che considerava il finto carattere licenzioso degli hippy: a
confronto con lui e con la sua generazione, venuta prima, gli hippy erano
“bravi ragazzi”.
Kerouac fu
apolitico per certi versi, ma ispirò anche il pacifismo e l’antimilitarismo
degli anni Sessanta (la prosa spontanea dello scrittore ispirò tra gli altri
Bob Dylan). Fu tra i primi a scrivere del disagio giovanile e del malcontento
post-bellico, e non in una chiave depressiva, bensì in una ricerca spasmodica
della libertà, della autenticità e della felicità. Kerouac si definì “poeta
jazz”: il suo stile è infatti simile al bebop; conserva lo stesso ritmo, i
medesimi slanci improvvisi di luce, la frammentarietà.
Sono pochi, pochissimi gli scrittori di successo che hanno
potuto vivere di una scrittura fortemente idealistica e vuota di contenuti
pratici. Di fatto, uno scrittore dovrebbe trovare una sua via concreta nella
vita: egli rimane scrittore, ma se davvero la curiosità è una sua peculiarità,
dovrebbe esplorare arti, tecniche, conoscenze scientifiche e tecnologiche.
Hemingway e Melville conobbero la pesca; Lovecraft la geologia; Levi, Stevenson
e ancora Lovecraft la chimica; Dickens e Zola il lavoro in miniera; e così via.
Se si vuole raccontare una storia, bisogna non solo che sia credibile, come lo
sarebbe un qualsiasi dizionario, ma che sia partecipata. Non occorre essere per
forza minuziosi, ma apprendere i princìpi cardine di una disciplina e – se
necessario per fini letterari – anche mentire. L’importante è avere qualcosa da
dire, conoscere quella cosa e renderla infine narrabile.
Sul come narrare,
qui ogni scrittore è padrone o più o meno immerso in uno stile dei suoi
contemporanei. On the Road è
suddiviso in cinque parti, che contengono una serie di episodi non sempre del
tutto collegati tra loro, riguardanti le esperienze di un uomo che viaggia
attraverso gli Stati Uniti. Lungo il tragitto incontra Sal Paradiso e Dean
Moriarty, rispettivamente riflessi delle figure di Kerouac stesso e dell’amico
Neil Cassidy.
La figura del
viaggiatore (hobo) è influenzata
tanto dai classici della letteratura americana, da Melville a Twain, quanto dai
reali bluesman del delta del Mississippi. Le descrizioni si connettono
direttamente con quelle tipiche del grande romanzo americano ottocentesco,
soprattutto per il realismo lirico delle descrizioni paesaggistiche. Tra
autobiografia e rielaborazione immaginifica, il romanzo rappresenta l’opera più
nota dello scrittore che, ad una visita psichiatrica nel 1943, fu definito
significativamente uno “psicopatico costituzionale”.
George Orwell, Memorie
di un libraio (2021)
L'edizione Garzanti del 2021 |
Orwell è molto
in voga negli ultimi anni, ma – a livello scolastico e in generale tra i
lettori – ci si limita troppo spesso alle sue due opere più famose e riuscite.
Egli fu tuttavia anche un giornalista, un critico, un recensore e, pure, un
libraio.
Questo piccolo
libricino, edito da Garzanti, ne raccoglie alcuni articoli: si parte dalla sua
esperienza lavorativa in una libreria dell’usato, che è ancora molto attuale e
valida anche per altri contesti come le biblioteche, per poi passare a
considerazioni sulla lettura e sulla scrittura. In maniera diretta, Orwell fa
ironia sui clienti più esigenti (ma anche più confusi), così come sui recensori
e sulle letture commerciali, riprendendo quello che G. K. Chesterton definiva
“buon brutto libro”.
Una selezione
mirata, attualissima, con testi brevi che dipingono fedelmente il mondo dei
libri in molti suoi aspetti socio-culturali.
Nota: per il precedente episodio della rubrica, si veda qui; per quello successivo qui. Su questo blog si trova anche la rubrica Letture commerciali, dedicata alle impressioni riguardanti i libri di successo pubblicati dal 2000 ad oggi (qui il primo post).
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