Conrad. Tenebra, orrore e male
Credit: Larisa-K |
Cuore di tenebra (1899) di Joseph Conrad è il racconto del marinaio Marlow, che narra della sua avventura sul fiume Congo, durante un viaggio svolto per una compagnia belga coinvolta nel commercio dell’avorio.
Ad una stazione,
egli rimane colpito dalla crudeltà dei colonizzatori e sente parlare per la
prima volta di Kurtz, agente della compagnia che aveva trasportato più avorio
di tutti gli altri ed era stato divinizzato dalle popolazioni indigene. Viene
dunque organizzata una spedizione per raggiungerlo, a cui Marlow partecipa.
«[…] per pochi
istanti, ebbi la sensazione che stessi per partire non per il centro di un
continente, ma per il centro della terra.»
Il viaggio di Marlow si svolge su tre piani: fisico, simbolico (o metaforico), metafisico.
Vengono rievocate le esplorazioni geografiche
dell’Ottocento: le descrizioni sono realistiche, poiché si parla di luoghi
concreti e del commercio dell’avorio, con vari riferimenti anche alle esperienze
di vita di Conrad. Questi raggiunse il Congo nel 1890, lavorando per una
compagnia commerciale belga. Durante il viaggio, il capitano si ammalò e Conrad
prese il comando.
«I rematori
erano neri. Da lontano si vedeva spiccare il bianco degli occhi. Gridavano,
cantavano; e i loro corpi grondavano di sudore: avevano facce come maschere
grottesche, quei ragazzi, avevano ossa, muscoli e una vitalità, un’intensa
energia di movimento che aveva la stessa reale naturalezza della risacca lungo
la costa della loro terra. Non avevano alcun bisogno di giustificare la loro
presenza laggiù. Il solo guardarli era confortante. Per un po’ sentivo di
appartenere ancora a un mondo di fatti autentici; ma la sensazione non durava a
lungo. Saltava sempre fuori qualcosa che la scacciava via. Ricordo che una
volta ci imbattemmo in una nave da guerra ancorata non lontano da terra. Sulla
costa non c’era neppure una baracca e la nave stava bombardando la foresta.
Evidentemente da quelle parti i francesi avevano in corso una delle loro
guerre. La bandiera pendeva come un cencio; le bocche dei lunghi cannoni da sei
pollici spuntavano lungo tutta la parte inferiore dello scafo; un’onda lunga,
viscida e untuosa, la sollevava e la lasciava ricadere pigramente facendo
oscillare i suoi alberi sottili. In quella vuota immensità di terra, di cielo e
di acqua, eccola lì, incomprensibile, a sparare contro un continente.»
Proprio
l’allontanamento dalla società occidentale (Londra è definita nel testo la più
grande città sulla Terra) e il contatto con un mondo più selvaggio portano
Marlow ad esplorare la parte più oscura dell’animo umano. L’uomo occidentale,
convinto di avere una missione da compiere attraverso la civilizzazione, arriva
a dare sfogo a quella parte oscura e commette violenze nei confronti delle
popolazioni locali. E proprio la tecnologia, che lo ha reso “civile”, gli
permette anche di compiere crimini su larga scala. In questo modo, il concetto
stesso di civilizzazione assume i contorni di una giustificazione che nasconde
il mero interesse.
Oltre agli
aspetti storici, però, il viaggio di Marlow è soprattutto simbolico: egli affronta
un tragitto via nave, come i grandi personaggi mitici quali Odisseo, per
conoscere fondamentalmente se stesso. Il suo viaggio riecheggia le grandi
esplorazioni dell’animo descritte nei grandi poemi della letteratura. Come quei
grandi personaggi, Marlow diviene un simbolo dell’essere umano in cammino, alla
ricerca di se stesso e delle proprie origini.
«Quella terra
non sembrava di questo mondo. Noi siamo abituati a vedere la forma addomesticata
del mostro in catene, ma, lì – lì si poteva vedere qualcosa di mostruoso e
libero. Non era qualcosa di terrestre e quegli uomini erano… no, non erano
inumani. Beh, vedete, era proprio quello il peggio – il dubbio che non fossero
inumani. S’insinuava in voi a poco a poco. Urlavano, saltavano, facevano
piroette e orribili smorfie; ma ciò che faceva rabbrividire era il pensiero
della loro umanità – simile alla vostra – il pensiero di una remota parentela
con quel grido primitivo e travolgente. Orribile. Sì, era davvero orribile. Ma,
se eravate abbastanza uomini, dovevate ammettere a voi stessi l’esilissima
traccia di una reazione alla terribile franchezza di quel rumore, il vago sospetto
che contenesse un significato che – pur tanto lontani dalla notte dei primordi
– era possibile comprendere. E perché no? La mente umana è capace di tutto –
perché essa contiene ogni cosa, tutto il passato e tutto il futuro. In fondo,
laggiù che cosa c’era? Gioia, paura, sofferenza, devozione, coraggio, rabbia –
chi lo sa? – ma qualcosa di vero – la verità spogliata dal velo del tempo.
Lasciate che siano gli occhi a scandalizzarsi e inorridire – un vero uomo sa, e
può stare a guardare senza battere ciglio. Ma deve essere uomo almeno quanto quelli
sulla riva.»
Capovolgendo la
prospettiva, Marlow lascia intendere che quegli uomini – e sottolinea quanto
essi siano tali senza alcuna ombra di dubbio – risultino favoriti dal contatto
diretto con la natura selvaggia, che rivela – proprio per chi ha fede – la
parte più autentica sia dell’essere umano che dell’intero creato.
Durante il
viaggio via fiume, sempre più immerso nell’abbraccio di quella terra, il
marinaio indaga su Kurtz e scopre che la Società Internazionale per la Soppressione
dei Costumi Selvaggi gli aveva chiesto di scrivere un reportage in cui parlasse
dei nobili ideali che lo avevano portato in Africa. Il testo, tuttavia,
terminava con una postilla emblematica, che recitava: “Sterminate tutti questi
selvaggi!”. Il colonizzatore era cieco, la sua stirpe aveva perso quella fede
nell’evidenza naturale ed era accecata dal culto della macchina, dalla quale
dipendeva sempre più, fino quasi a riconoscersi nei suoi ingranaggi.
«Ciò che ci
salva è l’efficienza, o meglio, il culto dell’efficienza. Ma quelli se ne
infischiavano. Non erano colonizzatori; ho il sospetto che, per loro,
l’amministrazione si riducesse al puro saccheggio. Erano dei conquistatori e,
per questo tipo di imprese, è sufficiente la forza bruta – niente di cui andar
fieri perché, in definitiva, la nostra forza non è altro che il risultato della
debolezza altrui. Arraffavano tutto ciò che potevano per il semplice gusto del
possesso. Ruberie e violenze, omicidi su larga scala e alla cieca, come si
confà a chi affronta le tenebre. A ben vedere, la conquista della terra non è
poi granché, dato che si riduce a depredare coloro che hanno un diverso colore
della pelle o il naso un po’ più schiacciato del nostro. È soltanto l’idea di
riscattarla, l’idea che c’è dietro: non la pretesa di un sentimento, ma
un’idea; e una fiducia incondizionata in un’idea – qualcosa da poter innalzare,
verso cui inchinarsi e a cui offrire sacrifici…»
La distinzione
tra persone civilizzate e selvagge – rimarcata nel testo con un’implicita
critica all’imperialismo e al razzismo – viene meno di fronte a due dati di
fatto: la chiara umanità degli autoctoni, nonostante la differente cultura, e
l’evidente disumanità degli occidentali; due aspetti speculari che si
incontrano nel medesimo essere umano.
L’ambientazione
africana, nel mezzo della giungla, è uno stimolo a proseguire per Marlow, ma ha
in sé anche le caratteristiche di un peccato mortale. Si tratta di un cammino a
ritroso in quel mondo dal quale tutti quanti proveniamo. E alla fine, dopo
essersi immerso nella natura selvaggia, Marlow raggiunge Kurtz, che viene
trattato come un dio nonostante fosse malato.
Chi è questa
figura? Sembra che Conrad si fosse ispirato a diverse fonti, tra cui forse
Arthur Hodister, un commerciante belga vissuto nell’Ottocento, che parlava tre
lingue congolesi ed era venerato dai locali come una divinità. Questa è
l’ipotesi di Norman Sherry, biografo dello scrittore, ma è probabile che vi
furono altre figure, storiche e non, a ispirarlo. Il dato storico non spiega
però che cosa egli rappresenti.
«Vi ho riferito
ciò che ci siamo detti – ripetendovi le frasi pronunciate – ma a che serve?
Erano le solite parole di tutti i giorni – i vaghi suoni familiari che ci si scambia
tutte le mattine della vita. E con ciò? Secondo me dietro c’era quella
terrificante forza di suggestione delle parole udite nei sogni, delle frasi
pronunciate negli incubi. Un’anima! Se qualcuno ha mai combattuto con un’anima,
ebbene, quello sono io.»
Marlow non riesce
a spiegare molte delle cose di cui aveva fatto esperienza. Spesso impiega
parole generiche, vaghe, per cercare di offrire un’idea, o una suggestione, che
possa raggiungere la coscienza di chi ha intuito quello stato di cose
inesprimibile, laddove si comprende l’universo in un passo, ma non esistono
parole per descriverlo. Questo è il viaggio metafisico, che egli può comunicare solo in maniera parziale ed evocativa.
Marlow riesce a
far imbarcare Kurtz per riportarlo indietro, ma durante il viaggio di ritorno,
prima che il protagonista potesse ottenere risposte, Kurtz – in un ultimo
momento di lucidità – trova proprio quella parola, o almeno la più valida, e muore
esclamando: “L’orrore! L’orrore!”.
L’orrore conradiano
è la presa di coscienza della trama che irretisce l’universo ed è terribile
perché è impalpabile, come una tenebra, a tal punto da pensare che non esista o
che sia inevitabile. In entrambi i casi, dell’orrore si ignora volontariamente
l’esistenza, fino a renderlo un dato di fatto trascurabile, sul quale poter addurre
al massimo una giustificazione di impotenza. L’orrore non è per forza l’essenza
dell’universo, il suo meccanismo di funzionamento, ma è il modo in cui gli
uomini hanno deciso di regolare le proprie vite.
«C’erano dei
momenti in cui tutto il passato ti si ripresentava dinanzi, come succede alle
volte, quando non hai nemmeno un attimo da dedicare a te stesso; ma ritornava
sotto forma di un sogno agitato e rumoroso, richiamato alla memoria con stupore
tra le realtà opprimenti di quel mondo di piante, acqua e silenzio. E
l’immobilità di questa vita non rassomigliava affatto alla pace. Era piuttosto
l’immobilità di una forza implacabile che covava un’intenzione imperscrutabile.
Ti guardava con aria vendicativa. In seguito ci feci l’abitudine; non la vedevo
neanche più; non ne avevo il tempo. Dovevo continuare a scovare il canale;
dovevo riuscire a individuare le tracce dei banchi di sabbia sommersi, per lo
più a intuito; stavo attento alle rocce sommerse; stavo imparando a serrare i
denti svelto per impedire che il cuore mi balzasse fuori quando riuscivo a
schivare per un pelo qualche vecchio tronco d’albero traditore che avrebbe
potuto attentare all’integrità della mia bagnarola e far affogare tutti i
pellegrini; non dovevo lasciarmi sfuggire la legna secca che avremmo potuto
fare a pezzi durante la notte e bruciare nella caldaia il giorno dopo. Quando
devi occuparti di cose di questo genere, dei meri eventi di superficie, la
realtà – la realtà, vi dico – scompare. L’intima verità delle cose rimane
nascosta – per fortuna, per fortuna.»
Nella sua
avventura, Marlow respinge fino all’ultimo quella presa di coscienza che
avverte come dolorosa, poiché da essa non si può tornare indietro, nella serena
ignoranza. Si lascia andare a un “pragmatismo di sopravvivenza”, ma l’incontro
con Kurtz è fatale in tal senso.
Il male sgorga
da ogni angolo circostante. Il suo simbolo è un cuore di tenebra. La tenebra
che impedisce di vedere, di muoversi; che costringe all’immobilità,
all’impotenza, e che genera paura. Il cuore ottenebrato è incapace di vedere la
bontà e si chiude in se stesso, divenendo sempre più sterile. È quell’auto-referenzialità
che ha condotto gli europei a ritenere un bene la “civilizzazione” dei non
occidentali. In maniera circolare, l’ulteriore chiusura ha reso più dense le
tenebre: la presunzione di superiorità, alimentata dalla tecnologia, ha dato
vita al delirio della macchina personificata.
Questa tenebra –
sembra dire Conrad – esiste in ogni Uomo. Può assumere diverse forme, dal
potere al piacere, dalla ricchezza all’auto-affermazione egoistica. Ma non c’è
elenco che la racchiuda per intero. E la civiltà occidentale non sanifica
questa condizione esistenziale, non la “cura”, ma la tiene imbrigliata, a tal
punto che, una volta liberata, essa esplode nelle peggiori azioni, nella
tortura e nel genocidio.
«Il massimo che ci si possa aspettare è una certa conoscenza di se stessi – che arriva troppo tardi – una raccolta di rimpianti inestinguibili. Io ho combattuto con la morte. È la lotta meno emozionante che possiate immaginare. Si svolge in un grigiore impalpabile, senza terreno sotto i piedi, con il vuoto attorno, senza spettatori, senza incitamenti, senza gloria, senza la grande smania di vittoria, senza la grande paura della sconfitta, in un’atmosfera malsana di tiepido scetticismo, senza credere più di tanto nel vostro diritto, né, tanto meno, in quello del vostro avversario. Se questa è la forma della suprema saggezza, allora la vita è un enigma più grande di quanto alcuni di noi non credano. Sono stato a un pelo dal cogliere l’ultima occasione per pronunciarmi, e ho scoperto con umiliazione che, probabilmente, non avrei avuto nulla da dire. Questo è il motivo per cui sostengo che Kurtz era un uomo notevole. Aveva qualcosa da dire. La disse. Visto che anch’io ho dato un’occhiata oltre il limite, comprendo meglio il senso di quello sguardo fisso che non distingueva la fiamma della candela, ma che era grande abbastanza da abbracciare l’universo intero, acuto abbastanza da penetrare tutti i cuori che battono in quelle tenebre. Aveva tirato le somme – aveva espresso il suo giudizio. “Che orrore!”. Era un uomo notevole. Dopo tutto, questa è l’espressione di un certo tipo di credo, aveva candore, aveva convinzione, aveva una nota vibrante di ribellione nel sussurro, aveva il volto raccapricciante della verità intravista – uno strano miscuglio di desiderio e di odio.»
Secondo Marlow, libere da queste tenebre sono solo le donne, che vivono in un mondo che non esiste e che non può esistere. Tornato in Belgio, egli incontra la fidanzata di Kurtz, ma le mente dicendole che l’uomo fosse morto invocando il suo nome. E chi ascolta il suo racconto, può comprendere la menzogna, ma non le sue ragioni più profonde.
Kurtz, un uomo carismatico e pericoloso, stilla il sangue nero del suo cuore di tenebra; l’universo brutale che la sua stirpe ha generato, il mistero terribile di ciò che ha perduto. E il suo fascino è ambivalente, poiché seduce gli abitanti locali, in quanto emblema del potere a cui aspirano, e al contempo gli occidentali, che vedono in lui la possibilità di un cammino a ritroso verso un’esistenza autentica, che pure appare tanto terribile a chi ha smarrito la rotta da lungo tempo.
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