Nomadelfia. Radici di cristianesimo da Platone a oggi

 

Jean Delville, La Scuola di Platone (1898),
Parigi, Musée d’Orsay

Premessa

 

Nomadelfia è una città situata vicino a Grosseto: questa analisi cerca di comprendere come una popolazione di “fratelli cristiani” riesca ad esistere oggi, nelle forme che vedremo, in un mondo in cui la fraternità è spesso solo un vocabolo da accostare – quando capita – a libertà e uguaglianza. Nomadelfia non solo nomina queste tre parole, ma le applica nel concreto nella propria interpretazione del Cristianesimo delle origini.

L’idea di una città ideale, giusta e persino divina, ha tuttavia radici molto antiche, che si trovano almeno a partire da Platone. In particolare, in questo studio l’indagine verterà soprattutto sul legame tra mondo ellenico, romano e cristiano delle origini; un filone di pensiero che sembra legare a sé realtà all’apparenza molto differenti. L’indagine non è certo esaustiva, ma si propone come un punto di partenza per ulteriori approfondimenti sul tema. In ultima analisi, si troverà un raffronto tra Nomadelfia e la società contemporanea.

 

Che cos’è Nomadelfia

 

Nomadelfia è un paese, all’interno del comune di Grosseto, composto interamente da cattolici praticanti, che hanno scelto di vivere secondo lo stile di vita del Vangelo. Letteralmente il nome significa “la fraternità è legge”, nella convinzione che l’uguaglianza e la libertà siano possibili solo nel momento in cui ognuno di noi si senta fratello del prossimo.

La comunità venne fondata da don Zeno Saltini, ed è riconosciuta dalla Chiesa cattolica come parrocchia e dalla Repubblica Italiana come associazione privata di cittadini.

Attualmente la comunità conta oltre trecento persone, divise in più di cinquanta famiglie. Una prima particolarità è che quattro o cinque famiglie vengano unite insieme per formare il cosiddetto gruppo familiare, rimescolato periodicamente per non creare fazioni. Ogni gruppo familiare deve essere disponibile ad accogliere figli in adozione, tanto che esiste anche una particolare figura, detta “madre di vocazione”, una donna che sceglie, anche da sola, di dedicare la propria vita alla crescita di figli, richiamando in questo amore incondizionato la Madonna stessa.

 

Un altro aspetto importante e innovativo della comunità è che tutti i beni siano in comune. Dunque non esiste la proprietà privata, così come il possesso di denaro e di conseguenza nemmeno la disoccupazione. In questo senso si può parlare di “comunismo”, inteso però nell’accezione evangelica del termine.

Poiché tutti i beni sono in comune, non esiste una vera e propria suddivisione del lavoro, ma ognuno, a turno, è disponibile a compiere le mansioni più diverse. Persino il medico, il prete o il sindaco del paese intervengono nei lavori dei campi, o nella costruzione di edifici, e senza alcuna differenza di classe.

 

Un’ultima nota generale è riferita all’educazione. I figli di Nomadelfia hanno l’obbligo di studio esteso a diciotto anni e frequentano scuole interne alla comunità. Lo Stato italiano ha infatti concesso alla comunità un particolare status, per cui possono educare i figli con propri insegnanti e con l’unico obbligo di presentarli come privatisti agli esami di quinta elementare e di terza media.

Queste sono alcune delle caratteristiche generali di Nomadelfia, che verranno approfondite nelle pagine successive, anche nelle contraddizioni più evidenti.

 

Il comunismo platonico e l’etica dello Stato ideale

 

La fondazione.

Esiste, prima ancora che nelle prime comunità cristiane, una particolare idea di Stato comunitario e egualitario, descritto nella Repubblica di Platone. Pur in una concezione in larga parte non religiosa, l’ideale platonico risulta essere conforme in più punti all’etica cristiana, nonostante alcune chiare differenze.

Ricercando nella Repubblica un punto di incontro tra mondo ellenico e Nomadelfia, partiamo proprio dall’immaginario atto di fondazione della polis platonica:

 

«A mio parere», incominciai, «una città nasce perché ciascuno di noi non è autosufficiente, ma ha bisogno di molte cose; […] Così gli uomini si associano tra loro per le varie necessità di cui hanno bisogno; e quando hanno raccolto in un’unica sede molte persone per ricevere aiuto dalla comunanza reciproca, nasce quella coabitazione cui diamo il nome di città. […] Allora costruiamo teoricamente una città, sin dalle fondamenta. La creerà, a quanto pare, il nostro bisogno».

 

Platone, dunque, pone come criterio fondamentale alla fondazione di una città il bisogno, considerandolo tuttavia nei suoi aspetti materiali, fisiologici. Manca però la convinzione che un gruppo di persone possa aggregarsi in base a delle convinzioni ideologiche, se non persino spirituali. In questo senso, il bisogno che ci spinge a creare città, o anche una patria, diviene una necessità che trascende i bisogni materiali.

Inoltre, si delinea subito l’idea di una comunanza reciproca, un tratto distintivo della polis platonica così come di Nomadelfia.

 

La (con)divisione del lavoro.

Un primo punto, tuttavia, differenzia le due realtà: se a Nomadelfia non esiste una gerarchia che diviene classe e tutti sono tenuti a svolgere qualunque tipo di lavoro, Platone ritiene apertamente che ogni cittadino abbia il suo compito, dal quale non possa liberarsi: «[...] ogni cosa riesce meglio, più spesso e più facilmente quando si pratica una sola attività secondo le proprie inclinazioni e a tempo debito, liberi da altre occupazioni».

Vale la pena, su queste basi, fare una prima osservazione. Nel Medioevo cristiano prevalse in parte questa idea platonica: la società feudale strumentalizzò il cristianesimo e in sostanza ridusse drasticamente il margine di mobilità sociale. Il sistema feudale doveva servire a creare quell’unità statale altrimenti precaria a causa della frammentarietà geopolitica, tuttavia essa favorì quella distinzione sociale che per tutta la storia cristiana fu un controsenso difficile da giustificare eticamente.

Al contrario, l’uguaglianza presente a Nomadelfia permette di creare una certa mobilità sociale, che si esplica non in una scalata al potere, ma nella possibilità di ognuno di contribuire al benessere della comunità, senza – in teoria – favoritismi o nepotismi.

 

Lusso e povertà.

Ritornando a Platone, egli prosegue l’indagine fino a giungere a una svolta cruciale:

 

«Bene», dissi, «ora capisco. A quanto pare non stiamo ricercando l’origine di una semplice città, bensì di una città che vive nel lusso. […] A quanto pare, alcuni non si accontenteranno di queste prescrizioni e di questo tenore di vita, ma aggiungeranno lettini, tavole e le altre suppellettili, e poi condimenti, profumi, incensi, etere, manicaretti e ogni sorta di simili raffinatezze. Inoltre […] bisogna scomodare la pittura e il ricamo e possedere oro, avorio e ogni altra materia preziosa».

 

E da qui la descrizione continua; la città dev’essere ingrandita, poiché quella sana non basta più, e il territorio allargato, fino a giungere alla guerra con il paese confinante. Non c’è terra per tutti: c’è terra per il più forte, come nella legge di natura (non a caso Hegel stesso riteneva che fosse impossibile una pace tra Stati, perché nel rapporto tra nazioni si ritorna come allo stato di natura). Platone tuttavia si allontana da questa concezione così materialista e altrove afferma che «la libertà consiste nell’essere padrone della propria vita e nel fare poco conto delle ricchezze». Sembra invece che egli voglia fare un discorso realistico, pur nell’utopia della proposta, e dare ascolto in modo consequenziale alle aspettative del suo interlocutore, con il risultato che di legittimare la guerra e la prevaricazione del più forte.

Nell’ideale di Nomadelfia, al contrario, la povertà è scelta come valore, là dove i popoli della storia hanno perseguito il benessere nella ricchezza. Come disse il diplomatico, cardinale e arcivescovo cattolico francese Roger Etchegaray: «C’è vera condivisione solo nella povertà. C’è vera ricchezza solo nella condivisione».

 

La concezione del divino.

Platone, nel Libro II della Repubblica, introduce nella sua città l’elemento divino, ponendo tuttavia dei limiti alla sua interpretazione.

 

«Bisogna poi evitare di proporre loro [ai guardiani] racconti e raffigurazioni di gigantomachie e di ogni altro genere di lotta ingaggiata dagli dèi e dagli eroi con i loro congiunti e familiari; ma se vogliamo persuaderli in qualche modo che nessun cittadino ha mai avuto in odio un concittadino e che questa è un’empietà, occorre piuttosto che gli anziani, uomini e donne, ne parlino subito ai bambini, e quando essi saranno cresciuti dovranno costringere anche i poeti a scrivere storie conformi a questi princìpi. Non bisogna invece accogliere nella città le fole di Era incatenata dal figlio e di Efesto scagliato giù dal padre quando stava per venire in aiuto della madre percossa, né le battaglie degli dèi inventate da Omero, che abbiano o meno un significato allegorico. Il giovane infatti non sa distinguere ciò che è allegoria da ciò che non lo è, ma le opinioni che accoglie a questa età diventano di solito incancellabili e immutabili».

 

A questo punto la questione diviene di carattere educativo. Le divinità vengono accettate, ma non c’è spazio per quei miti che raccontano di dèi in lotta fra loro, tantomeno se parenti. Emerge chiaramente la necessità di educare i futuri cittadini al bene e alla giustizia, escludendo a priori la presenza del male.

La medesima questione si pone per Nomadelfia, dove, tra le obiezioni frequenti, vi è quella di proibire ai propri figli di guardare ciò che vogliono alla televisione. Infatti, esiste una commissione che ripulisce la tv “da pubblicità, violenza, sesso, volgarità”, mostrando solo programmi di informazione, cultura e sport. Alla critica “I vostri figli non sono liberi”, gli abitanti rispondono che «non sono liberi coloro che a forza di vedere tutto non vi sanno più rinunciare». Sostengono anche che non sia necessario provare il male per conoscerlo, perché esso, coinvolgendo emotivamente, «contribuisce a modificare la coscienza, facendole perdere di sensibilità».

Come interpretare dunque il male evidente nella Bibbia e nell’esperienza stessa di Gesù? Se è vero che conoscere il male coinvolga emotivamente, la coscienza non ne perde necessariamente in termini di sensibilità; al contrario, la visione e l’esperienza del male offrono l’occasione dell’azione e della scelta. Sono, in altri termini, anche un modo per accettare la fede in coscienza. È qui evidente il rapporto con una prospettiva legata alla Genesi, in cui la conoscenza del male significa la perdita dell’immortalità e l’abbandono del paradiso terrestre.

 

Così come si cerca di escludere il male dalla città, nella Repubblica è presente anche una definizione del divino quale essere buono per natura, facendo ricadere il male della Terra su una causa diversa.

 

«Ora, se la divinità è realmente buona, non va definita in questi termini?»

«Come no?»

«Ma nulla di ciò che è buono è dannoso. O no?»

«Mi pare di sì».

«Quindi ciò che non è dannoso non arreca danno?»

«In nessun modo».

«E ciò che non arreca danno compie qualcosa di male?»

«Neanche questo».

«E ciò che non compie alcun male può essere causa di un male?»

«E come potrebbe?» […]

«Dunque ciò che è buono non è la causa di tutto, ma è responsabile solo del bene, non del male. […] Quindi la divinità, essendo buona, non sarà la causa di tutto, come dice la gente, ma sarà responsabile di poche vicende umane, non di molte, perché i beni che noi possediamo sono molto minori dei mali; e mentre la causa dei beni non va ricondotta ad altri che alla divinità, per i mali si deve ricercare una causa diversa».

 

Questo punto di vista di Platone mette in luce, già dall’antichità, la figura di un dio benefico e ben disposto verso gli uomini, figura che è destinata ad avere successo con l’avvento del cristianesimo. Non è un caso che nel Medioevo Sant’Agostino vide nella dottrina platonica la filosofia più vicina al cristianesimo, soprattutto per quanto concerne il discorso sull’anima.

 

Popolo e guardiani.

Se per Platone l’Uomo tende alla sopraffazione e alla ricerca del lusso, egli sostiene anche che attraverso una corretta educazione sia possibile formare i cosiddetti “guardiani”. La loro educazione comprende sia aspetti fisici, dalla ginnastica all’arte della guerra, sia aspetti morali, etici. Tra quest’ultimi, per esempio, ricordo la citata esclusione dei tratti negativi delle divinità.

Nel finale del Libro III, vale la pena leggere queste righe e confrontarle in generale con il pensiero cristiano:

 

«Innanzitutto nessuno possieda sostanze proprie, se non quelle strettamente necessarie; in secondo luogo nessuno abbia un’abitazione e una dispensa in cui non possa entrare chiunque lo desideri. […] Vivano in comune partecipando ai banchetti pubblici come se fossero all’accampamento. Occorre poi dire loro che da sempre hanno nell’anima oro e argento divino, dono degli dèi, e non necessitano affatto di quello umano; […] Anzi, essi siano gli unici, tra tutti i cittadini, a cui non sia lecito maneggiare e toccare oro e argento».

 

Nella costituzione di Nomadelfia, all’Art. 6, si parla quasi allo stesso modo: «La Popolazione dei Nomadelfi possiede solo i beni necessari per lo svolgimento della propria attività istituzionale.», senza contare che sono previsti banchetti pubblici e momenti di ritrovo comunitari, ed è esclusa la proprietà monetaria.

Sia nel brano della Repubblica che nella costituzione emerge chiaramente quel comunismo platonico che tanto ha fatto discutere Cicerone. Ciò nonostante, la condivisione rappresenta una vera e propria scelta di vita: nessuno viene obbligato a cedere le proprietà perché la cessione è una scelta volontaria.

 

Sebbene vi siano questi punti di incontro, esiste anche una differenza sostanziale tra le due realtà: per Platone questi obblighi sono riservati ad una cerchia ristretta e privilegiata di abitanti, mentre il resto della popolazione non vive molto diversamente dalle altre città. Il cristianesimo, invece, ha avuto il pregio, benché spesso solo teorico, di considerare allo stesso livello i nobili e gli schiavi, aprendo la vita comunitaria a chiunque.

D’altra parte, se si volesse pensare oggi ad uno Stato comunitario, non si potrebbe scegliere il modello di Nomadelfia, che è fondato su un dogma, né tantomeno il comunismo marxista, trasformatosi in “religione laica” da un punto di vista storico. Al contrario, il comunismo platonico sembra essere il modello che più si avvicina ad una proposta concreta di comunitarismo – sebbene con le debite modifiche – proponendo uno stato laico e al contempo vicino alla spiritualità, pervaso da un’etica di fondo che vede nel bene e nella giustizia le radici della polis.

 

L’uguaglianza dei sessi.

«[...] se invece risulteranno differenti solo per il fatto che il sesso femminile partorisce e quello maschile feconda, diremo che per quanto concerne la nostra questione non è ancora stato dimostrato che la donna differisce dall’uomo, ma resteremo dell’idea che i nostri guardiani e le loro donne debbano svolgere le stesse mansioni».

 

Se dunque i guardiani rappresentano un’élite della polis, in questa élite vengono incluse anche le donne, e con pari dignità. Questo passo segna una svolta importante e supera oltre due millenni di misoginia, nonostante qualche lieve differenza che lo stesso Platone comunque mantiene.

Anche Nomadelfia vede nella donna diritti che nemmeno lo Stato italiano ha completamente riconosciuto, e la valorizza come fonte di vita e di purezza. Ma anche a Nomadelfia esistono lavori propri degli uomini così come delle donne, in questo influenzati da ragioni culturali dalle quali la comunità non è certo distante.

Nonostante ciò, laddove sia possibile svolgere un compito in comune, esso viene realizzato da tutta la popolazione, maschile e femminile. L’aspetto interessante è la fusione tra una certa cultura patriarcale cattolica e la cultura matriarcale propria dell’Ebraismo, dove è la donna a trasmettere l’eredità del nucleo familiare. Questo capita, per certi versi, a Nomadelfia, città in cui molti dei figli sono adottati e dove il ruolo della madre serve da collante per l’unità della famiglia e quindi per l’esistenza stessa della comunità. Certo, ancora una volta, il limite è di aver vincolato la figura femminile a un preciso ambiente domestico.

 

A questo punto, ho evidenziato le dovute differenze, ma anche le affinità tra i due mondi, collegati da un pensiero che per secoli si è evoluto in sintonia, grazie alla scuola platonica, ma anche attraverso altre scuole di pensiero come quella gnostica di Valentino e via discorrendo.

Nel prossimo capitolo, parlerò del mondo romano, parlando di Seneca e dei primi apologeti cristiani, citando altri esempi che collegano o differenziano il cristianesimo dalle culture occidentali che l’hanno preceduto.

 

Il rapporto tra Seneca e il cristianesimo

 

La filosofia greca e la patristica.

Nel momento in cui il cristianesimo si diffuse, cominciarono anche le persecuzioni. Di qui, la necessità di difendere la nuova religione dalle innumerevoli accuse dei pagani. Si sviluppò in questo modo la prima fase della filosofia patristica, che durò circa fino al 200 d.C., e che intendeva legittimare il cristianesimo nel contesto storico del periodo.

Si cercò innanzitutto di convergere gradualmente verso un’unica dottrina riconosciuta dall’intero universo cristiano, ma questa dottrina dovette tenere conto dell’importante influenza che il mondo greco continuava ad avere presso l’Impero romano.

Il cristianesimo si pose in continuità con la filosofia greca attraverso la comunanza del lògos, inteso come “ragione” data in eguale misura a tutti gli esseri umani. Il cristianesimo svolgeva in questo modo il ruolo di ultimo livello di ricerca di quella verità finale, a lungo interpretata nel mondo ellenico. La Rivelazione poneva la parola fine ad ulteriori interpretazioni filosofiche, dal momento che il traguardo era stato raggiunto. Filosofia e religione diventarono dunque due facce della stessa medaglia, e in questa veste vennero intese almeno fino al Medioevo (come per la Scolastica).

 

Ma nello studio del pensiero greco, i Padri della Chiesa rintracciarono i punti di incontro senza disdegnare le forme espressive e i contenuti di quel mondo, generando così una nuova cultura non sempre propriamente in linea con l’originaria radice giudaica.

Le filosofie più riprese furono lo stoicismo, l’epicureismo e il neo-platonismo. Tertulliano, p. es., parlò della corporeità di Dio, con chiari riferimenti agli stoici, mentre Arnobio sostenne apertamente che esistessero gli dèi, per quanto sottoposti al Dio supremo.

Tuttavia, i nemici del cristianesimo non furono solo i pagani, ma anche le nuove scuole di interpretazione evangelica. Nella polemica contro la gnosi vi era la necessità di dividere le fonti cristiane originali da quelle reinterpretate, spesso con presunti errori o comunque con modi di pensare estranei alla linea maggioritaria di interpretazione.

Per quanto i Padri della Chiesa si sforzarono di mantenere inalterate le vere radici del cristianesimo, il modello cristiano che è giunto fino a noi risente pesantemente dell’influenza del mondo greco, attraverso scrittori che in buona parte provenivano da esperienze pagane e da un modo di pensare tipicamente greco-romano.

 

L’esempio di Arnobio.

Vissuto nel IV secolo, il retore e apologista Arnobio offrì un esempio interessante di questa linea continua di trasmissione. Nato come pagano, Arnobio inizialmente criticò la dottrina cristiana, finché, grazie a un sogno, avvenne la conversione. Per convincere il vescovo della sua fede sincera, scrisse l’Adversus nationes, un’opera che sa più di retorica che di profonda conoscenza religiosa. Arnobio, infatti, viene spesso criticato di non credere fino in fondo al cristianesimo e di rimanere ancora legato ad alcune credenze pagane. Se però si considera che in quel periodo non esisteva una Chiesa centrale che segnasse un percorso comune, appare normale che un credente di allora venisse influenzato dalla cultura dominante.

Scarsi sono in effetti i riferimenti al Nuovo Testamento, mentre del tutto assenti sono le citazioni dall’Antico, aspetto strano e sorprendente, che fa pensare al fatto che Arnobio non conoscesse questi due testi. La sua idea di Dio è dunque molto lontana dalla visione giudaica, mentre abbondano riferimenti all’epicureismo (Lucrezio), così come allo stoicismo (Seneca) e allo scetticismo. Per quanto concerne invece l’influenza gnostico-platonica, vale la già citata credenza sull’esistenza di altri dèi, visti però come forze subordinate al Deus princeps.

 

Nei libri I e II dell’Adversus nationes, il tema centrale è il legame tra le filosofie pagane (Platone in primis) e gli insegnamenti del cristianesimo. I libri III, IV e V attaccano la mitologia pagana, mentre i libri VI e VII difendono i cristiani dalle accuse di empietà.

In questi libri emerge innanzitutto una particolare concezione dell’anima, che sarebbe stata creata dal demiurgo, ovvero l’entità emanata dall’eone Sophia senza la partecipazione di Cristo, e che corrisponde – secondo il Vangelo gnostico di Giuda – a Satana stesso. Arnobio dunque, riprendendo questo insegnamento, fa intendere che l’uomo sia stato creato da Satana e che Cristo sia servito a risvegliare la scintilla divina che era rimasta imprigionata nella materia.

Questo punto di vista è confermato poco più avanti, dove l’apologeta afferma che la storia sia una sequela di violenze che si ripetono ciclicamente, ma che sia sbagliato ricondurre questa violenza a Dio, fautore invece della perfezione del mondo. L’uomo, dunque, non può che essere stato creato da un essere inferiore al Dio supremo.

In questo senso, se Arnobio concorda con Platone sulla bontà di Dio, è anche vero che non accetta affatto che l’anima abbia un carattere divino. Rifacendosi ancora ai Vangeli gnostici, egli crede che l’anima umana non sia né spirito né corpo, ma un’entità intermedia, che solo Dio può salvare se l’uomo sceglie di seguirlo.

 

Affinità con Seneca.

Oltre all’influenza delle filosofie greche e di parti dello gnosticismo, è interessante cogliere le analogie tra Arnobio e Seneca. A tal proposito, vale la pena citare il saggio Lettori cristiani di Seneca filosofo di Paolo Mastandrea, dal quale trarrò alcuni passi importanti ai fini dell’analisi. Il confronto con Seneca sembra infatti l’esempio più evidente dei punti di incontro e di divisione tra cristianesimo e paganesimo, in lettura parallela al raffronto gnostico.

Mastandrea, comparando l’Adversus nationes al De ira di Seneca, si concentra sulle particolarità stilistiche e di contenuto che accomunano i due scrittori. Sulla base dei due testi, egli afferma che «la vergogna dell’accesso collerico, che sconvolge la ragione dell’essere umano e ne deturpa la fisionomia in modo belluino, mai potrà venire a conoscenza e prova della natura superiore della divinità. […] Arnobio insiste a lungo sul problema dell’inconciliabilità dell’ira con la impassibile e sicura grandezza che per definizione compete agli dèi».

 

E aggiunge:

 

Queste concordanze mettono in luce l’assunto comune ai due autori: il vero culto da tributare agli dèi procede dall’acquisizione di una corretta idea della loro natura che distolga l’uomo dalla superstizione per mezzo della conoscenza intellettuale, così da apprezzare appieno l’essenza esclusivamente benefica e aliena dalla vendetta. Occorre riconoscere nel nume una potenza grande e amica […]. Nella sua polemica antipagana Arnobio attinge dal filosofo stoico i migliori argomenti contro la vecchia religione e le sue pratiche puerili, in favore di un approccio maturo fondato sull’idea della profonda e totale bontà di Dio e quindi sulla liberazione da ogni ansia superstiziosa.

 

Seneca non è cristiano.

Proseguendo il suo studio, Mastandrea analizza i versi del Contra epistulas Senecae, un’elegia di un certo Honorius Scolasticus, databile presumibilmente alla metà del sesto secolo. Honorius vuole elogiare il vescovo Iordanes, sua guida spirituale, «paragonando l’uomo di Chiesa al filosofo romano e se stesso a Lucilio»: la differenza è che la nuova coppia maestro-discepolo possiede il vantaggio della fede.

A questo punto è importante sottolineare come nonostante vi siano delle affinità tra il pensiero di Seneca e la dottrina cristiana, il filosofo latino rimanga sostanzialmente attaccato ad una visione stoica e distaccata di Dio e del mondo:

 

La polemica di Honorius ha toccato tre momenti: 1. non tutte le norme morali del filosofo antico sono adattabili alla dottrina cristiana cattolica, o comunque ad essa comparabili; 2. il disprezzo della morte ribadito nei precetti a Lucilio si fonda sulla sostanziale negazione della sopravvivenza dell’anima e delle pene ultraterrene; 3. la stessa morte di Seneca avvenne al di fuori e in contrasto ad ogni modalità di devozione cristiana.

 

La fine di Roma.

Bisogna inoltre dire che Seneca risente molto del periodo in cui viveva: egli – più che rappresentare il mondo nuovo del cristianesimo – costituisce l’ultimo grande baluardo del pensiero filosofico di fronte alla crescente decadenza dell’Impero romano. E così conclude Mastandrea:

 

Agostino coinvolge il filosofo in una valutazione […] demolitoria del personaggio, inteso come superbo e vacuo emblema dell’anelito stoico all’autosufficienza umana. […] Fermo negatore di ogni autonomia morale del singolo quanto più assisteva indifferente e sfiduciato allo sgretolarsi del massimo ordine politico mai comparso sulla terra, l’Agostino della maturità individua nell’abbandono alla rivelazione e alla grazia l’unica salvezza possibile. Contro Seneca e contro chiunque riponesse ancora speranza sulle capacità umane, si levava il monito alla rinuncia ad ogni sforzo sacrilego verso una falsa libertà.

 

Durante il regno di Marco Aurelio (161-180) vi erano state le prime importanti incursioni barbariche. L’imperatore stesso rifletteva una certa mancanza di forze di fronte al corso degli eventi, e in uno dei suoi ultimi pensieri affermò chiaramente che l’unica cosa importante da fare fosse «compiere quello a cui la tua natura porta, e accettare quello che la natura universale reca» (XII, 32).

Circa mezzo secolo dopo, prima con Caracalla e poi con Elagàbalo, Roma subì una vera e propria orientalizzazione, evidenziando la crisi spirituale che l’Impero stava passando. Si diffondevano infatti i culti misterici e soteriologici, che avvicinavano l’individuo alla divinità, mentre veniva meno la fiducia nel politeismo e nei confronti del destino prediletto di Roma. Alla religione di Stato, collettiva, si sostituiva una religione privata, dell’Uomo: in questa prospettiva la filosofia greca, culla del pensiero umano, era forse più vicina al cristianesimo dell’Uomo-divino che al paganesimo dell’Uomo succube degli dèi.

Questa crisi spirituale, inoltre, si legò strettamente ad una crisi socio-politica, soprattutto se si considera che fino ad allora la vita religiosa era stata vincolata a quella civile e politica.

Al contempo, il cristianesimo trovava sempre più consensi, e le persecuzioni non facevano altro che generare ammirazione e stupore nei politeisti, fino a giungere nel 391, con Teodosio I, al riconoscimento del cristianesimo come religione di Stato.

L’affermazione definitiva del culto fu interpretata da molti come la prova della sincera verità insita in questa religione, destinata da Dio a regnare sulla Terra. Da un punto di vista sociologico, si può dire che prevalse quella religione che offriva più speranza all’essere umano, in un momento di forti difficoltà. Cresceva il malcontento diffuso e con essa l’idea della fine dei tempi: si avvertiva in generale un senso di decadimento storico e morale.

Questo genere di sentimento si è ripresentato più volte nella storia, anche a partire dalla fine del XIX secolo e in molti momenti della prima metà del Novecento, periodo in cui nacque e si sviluppò Nomadelfia. Essa voleva rappresentare una risposta a un mondo precipitato nel relativismo e che aveva provocato due disastrose guerre mondiali.

 

L’erede Nomadelfia

 

Alcune differenze con il comunismo di Marx.

Nel corso dell’Ottocento si sviluppò il pensiero di Karl Marx. La sua idea di comunismo era molto differente da quella proposta da Platone. Quest’ultimo, infatti, era fondamentalmente antidemocratico: lo Stato ideale che viene descritto nella Repubblica è un sistema aristocratico, retto da filosofi, in cui è solamente l’élite che governa a doversi sottoporre alla condivisione della proprietà e della famiglia. Questo per esorcizzare l’eccessivo materialismo e il conflitto d’interesse: il resto della popolazione, invece, continuava a vivere secondo le proprie inclinazioni, pur nel contesto, nuovo, delle leggi. L’unica uguaglianza intesa da Platone era l’uguaglianza all’interno dell’élite aristocratica, per di più in un periodo storico in cui nessuno aveva in mente di abolire la divisione in “classi”, né tantomeno la schiavitù, motore primario dell’economia.

Inoltre, Platone era convinto della necessità che ogni cittadino si dedicasse secondo le proprie inclinazioni, naturali e sociali, al bene comune, senza eccedere per avidità di potere o di successo, e senza doversi scontrare con le varie componenti della polis.

Già solo con questi elementi, è facile comprendere come il comunismo platonico sia decisamente lontano da quello marxista, che è invece antielitario, e ritiene la lotta di classe come un dato di fatto, necessario all’affermazione stessa del comunismo.

 

Se è vero che esistono affinità tra il cristianesimo e la Repubblica platonica, quali sono invece i punti di incontro con il marxismo?

Il cristianesimo è stato forse il primo ad aprire la “condivisione” a tutti gli uomini, schiavi inclusi: le prime comunità cristiane, nate intorno agli apostoli, venivano descritte come comunità nelle quali i credenti «avevano tutto in comune; le loro proprietà e i loro beni li vendevano e ne facevano parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno» (Atti, 2, 44-45).

E nel IV secolo, Ambrogio affermava: «la natura ha messo tutto in comune per l’uso di tutti: essa ha creato il diritto comune; l’usurpazione ha creato il diritto privato»; così molti altri santi e martiri.

Ma se nel comunismo cristiano è fondamentale l’aspetto morale e antimaterialistico, tanto da avvicinarlo a quello platonico, nel comunismo di Marx non c’è utopia, bensì un’azione concreta nella storia; non c’è un impianto moralistico, bensì una necessaria conseguenza del capitalismo. Per certi versi, il comunismo marxista è più materialista del platonismo e del cristianesimo, nel senso che intende agire in un contesto reale criticando la reificazione della persona e la personificazione della macchina.

Il cristianesimo, invece, tiene in considerazione l’individuo, ma preferisce rivolgersi a un mondo “altro”, sdegnando in buona parte le realtà storiche che si sono susseguite nei secoli, adattandosi a principati, monarchie, imperi e democrazie. Soltanto nei singoli credenti vi è sempre stata una qualche azione concreta, che ha permesso alla Chiesa di Roma di arginare il distacco tra la religione storicizzata e la prima ispirazione della fede.

Perciò, in sostanza, il medesimo termine “comunismo” designa una serie di esperienze che vanno da Platone a Marx, senza tuttavia una sostanziale connessione. Più precisamente, si riscontrano affinità nel comunismo utopico-moralistico (Platone e cristianesimo), ma non tra questo e il comunismo storico-materialistico (Marx): l’uno, perlomeno nella teoria, può fare a meno della storia; è una rivelazione de facto, dogmatica, religiosa; l’altro, al contrario, ha bisogno di una conferma sul piano della storia.

 

La distopia del Novecento.

Se in Platone si ricerca una società ideale, utopica, diversamente avviene in uno dei più famosi scrittori del Novecento, George Orwell. Nel romanzo 1984, egli descrive una distopia, ovvero un’immaginaria società futura portata agli estremi negativi. L’opera è ispirata all’anti-totalitarismo sia di stampo nazi-fascista che sovietico, con particolari allusioni alla situazione dell’URSS.

In una Londra comandata dal Grande Fratello, leader di un partito unico, gli abitanti sono continuamente osservati dai telescreens, schermi gestiti dal Partito e che condizionano le azioni delle persone con la loro costante presenza. I sentimenti più umani, come l’amore, vengono banditi: è l’odio a regnare. Stesso dicasi per la libertà, l’uguaglianza, etc., parole ormai prive di significato nell’ottica di uno Stato che attraverso la propaganda è in grado di sconvolgere la storia, la cultura e le emozioni.

Wilson Smith, il protagonista del romanzo, tenta di liberarsi da questa schiavitù innanzitutto mentale, ma non ha basi da cui partire: non esiste più alcuna morale, nessun modello precostituito dal quale partire. Egli è alla continua ricerca di un passato che non esiste più nemmeno negli oggetti, e tantomeno nei flebili ricordi dei prolet. Trova una speranza nell’amore per la Julia, ma il suo proposito di libertà è destinato a fallire. Egli rappresenta una parte dell’umanità della prima metà del Novecento, con individui che erano omologati ai regimi o alla società borghese, oppure liberi di affermarsi, ma in un mondo che aveva smarrito le coordinate.

 

Con Nietzsche, a fine Ottocento, il Superuomo aveva decretato la morte di Dio; l’insensatezza della religione e delle morali; il bisogno di accrescere il proprio spirito dionisiaco e di determinarsi sugli altri esseri umani. Nel 1949, anno di pubblicazione del romanzo orwelliano, il Superuomo deformato dai totalitarismi aveva fallito la sua missione, ma aveva lasciato all’umanità il fardello del nichilismo.

Molti scrittori e artisti proiettarono questa mancata verità nell’assurdo (da Pirandello con Così è (se vi pare) a Samuel Beckett e la sua opera teatrale Waiting for Godot). Altri, invece, guardarono fiduciosi al futuro, ricrearono nuove basi pur nella consapevolezza che non esistessero mete finali, “paradisi” da raggiungere. È il caso, per esempio, del romanzo On the Road dello scrittore statunitense Jack Kerouac, che nelle prime pagine scrive:

 

«Dobbiamo andare e non fermarci finché non siamo arrivati.»

«Dove andiamo?»

«Non lo so, ma dobbiamo andare».

 

Il perché si debba andare, pur senza determinarlo, è la reazione alle spinte nichiliste che negano persino il beneficio del dubbio.

Ritornando a 1984, si può qui intravedere il monito, o meglio la metafora di un mondo contemporaneo, in cui l’essere umano è sempre più potente, ma al contempo è incapace di abbandonare i propri istinti più deleteri. On the Road, invece, rappresenta l’azione concreta di protesta, che dalle pagine critiche diventa storia. È anzi la natura umana che si scontra sul piano della storia, che in certi momenti non trova un equilibrio: ma non è la natura umana ad essere duplice; duplici sono i fenomeni da cui essa attinge nel determinarsi.

 

Contesto storico per l’affermazione di Nomadelfia.

È in uno di questi momenti storici che nasce Nomadelfia, ovvero nel contesto della guerra civile italiana del 1943-45. Il 3 settembre 1943 era stato firmato l’armistizio di Cassibile tra il Capo del Governo Pietro Badoglio e gli Alleati anglo-americani. L’armistizio venne reso pubblico con un proclama dell’8 settembre. A questo annuncio seguì la fuga delle autorità italiane, da Badoglio al re Vittorio Emanuele III, senza chiarire quale dovesse essere il compito dell’esercito italiano da quel momento. Alcuni decisero di tornare a casa, altri rimasero fedeli al fascismo o al re o alla causa della liberazione: si generò una dura guerra civile, con l’esercito regio, gli Alleati e la Resistenza da una parte, e la coalizione nazifascista dall’altra, che occupava il nord Italia con la Repubblica Sociale Italiana, fondata da Mussolini il 23 settembre 1943 su iniziativa di Hitler.

 

Tra il 9 e il 10 luglio 1943 avvenne lo sbarco alleato in Sicilia (operazione Husky), che liberò in pochi giorni l’isola; tra il 27 e il 30 settembre 1943 ci furono le Quattro giornate di Napoli e il seguente ingresso in città degli Alleati. Tuttavia, nel tardo autunno del 1943, ci fu una prima battuta d’arresto sulla Linea Gustav, al confine tra Lazio e Campania. Lo sbarco ad Anzio risultò vano e solo nella primavera del 1944 gli anglo-americani sfondarono la linea a Monte Cassino e liberarono Roma a giugno. Ma i tedeschi, comandati dal feldmaresciallo Albert Kesselring si attestò, tra il 25 agosto 1944 e il 21 aprile 1945, su una nuova linea difensiva, la Linea Gotica. Il 25 aprile, infine, fu proclamata dal CLNAI l’insurrezione generale di tutte le forze partigiane.

Già dal 9 settembre 1943, giorno seguente al proclama di Badoglio, venne fondato a Roma il Comitato di Liberazione Nazionale (CLN). Proprio per un fatto storico, la Resistenza riguardò soprattutto l’Italia centro-settentrionale. Per circa due anni i partigiani si scontrarono con i nazifascisti, formando anche piccole “repubbliche”, spesso distrutte dalla violenza nazista, con ripercussioni anche sui civili non armati. Ma l’attività politica più importante offerta dalla Resistenza fu quella di liberare alcune città, come Firenze, prima dell’arrivo alleato, mostrando la capacità della nazione di potersi ancora amministrare da sé.

In questo contesto bellico erano presenti formazioni partigiane di stampo comunista (Brigate Garibaldi), di derivazione socialista (Brigate Matteotti) o ancora di ispirazione laica, cattolica, liberale (Brigate Osoppo, etc.). Ma esistevano anche espressioni popolari non direttamente collegabili alla Resistenza, ma ad essa affini per quel desiderio di libertà e giustizia, come nel caso delle Quattro giornate di Napoli o dei giovani volontari riuniti intorno alla figura di don Zeno Saltini, fondatore di Nomadelfia.

 

La risposta di Nomadelfia.

Ho parlato in precedenza dell’azione di quei singoli credenti, che ebbero la volontà di agire nel corso della storia per riavvicinare i fedeli alla religione cristiana. Tra questi credenti rientra don Zeno Saltini.

Nato il 30 agosto 1900 a Fossoli, in provincia di Modena, interruppe giovanissimo gli studi per dedicarsi all’azienda agricola di famiglia, venendo subito a contatto con le teorie socialiste diffuse dai contadini della zona.

Nel 1917 venne arruolato, ma non partecipò al conflitto mondiale. Sempre sotto le armi, vi fu la svolta fondamentale nella sua vita: un giorno si scontrò con un commilitone ateo e anarchico, che criticò aspramente la religione cattolica. Zeno tentò di obiettare, ma per la sua scarsa istruzione venne deriso da tutti. Da quel giorno decise di studiare legge, divenne avvocato al termine della guerra e qualche anno dopo fu ordinato sacerdote.

 

Costituisce costante obbligata, nella vita dei protagonisti della storia delle religioni, l’evento traumatico che interrompe un’esistenza trascorsa, dalla prima infanzia alla giovinezza, nella più lieta serenità, improvvisamente incrinata dalla percezione del dolore. A infrangere la felicità di uno spirito di superiore sensibilità non è necessario, peraltro, l’urto diretto della sofferenza, è sufficiente la conoscenza della sua esistenza: sapere che esistono uomini sofferenti, sapere, quindi, che la natura dell’uomo è soggetta al dolore, basta a dissolvere la gioia dell’anima dotata di autentica nobiltà, facendole apparire fatua ed inutile ogni fonte di contentezza di cui possa fruire. […] Il convincimento, maturato nel corso dell’università, che la difesa giudiziaria più efficace non elide le cause della delinquenza, radicate nell’ingiustizia sociale, la matrice di ogni trauma civile, lo sospinge, dopo la laurea, sulla strada del sacerdozio, l’unica, ritiene, per misurarsi con la ragione vera di ogni male sociale, del male medesimo.

 

Già in queste prime esperienze di vita e di studio si rileva quel desiderio di combattere le ingiustizie, spingendosi ad affrontare il male stesso. In questa forte tensione vi è già il germoglio delle idee “estremiste” di don Zeno. Egli voleva letteralmente «rifondare l’insieme dei rapporti sociali infondendo in essi l’afflato della fraternità predicata da Cristo».

Per fare ciò, don Zeno si servì, in piena epoca fascista, della nuova grande tecnologia: il cinema. Ad esso affiancò spettacoli con danze, coreografie, e altro ancora, sempre aiutato dal gruppo di ragazzini bisognosi che aveva “adottato”. A Mirandola (Modena) fondò infatti l’Opera dei Piccoli Apostoli, che si occupava di accogliere i bambini abbandonati. È in questi primi nuclei di persone che si sviluppò la comunità nomadelfa, nonché la critica di don Zeno tanto al regime fascista quanto al marxismo. Egli sfruttò le pause dei suoi spettacoli per sensibilizzare la popolazione di braccianti ai temi della carità e della giustizia sociale, criticando da un lato le azioni liberticide del fascismo, dall’altro le accuse del marxismo ai danni della religione cattolica, vista come strumento storico del potere.

 

Durante la guerra civile italiana, però, la costruzione di questa comunità venne sospesa, poiché don Zeno stesso aveva incitato la popolazione alla rivolta, tanto da essere arrestato dal regime. I ragazzi dell’OPA compirono varie azioni: dalla distribuzione di grano alle famiglie e ai partigiani prima che fosse depredato dai tedeschi, al salvataggio di bambini ebrei presso una villa modenese. Altri ancora parteciparono alla resistenza armata presso le Brigate Italia, mentre alcune mamme di vocazione protessero i ricercati e nascosero armi in casa: alcune di queste persone subirono l’ira nazifascista tra fucilazioni, impiccagioni e torture.

Un aspetto molto importante era l’importanza che don Zeno attribuiva alla memoria: egli invitava, a guerra conclusa, a raccontare le proprie esperienze durante quegli anni difficili, da un lato perché Nomadelfia potesse avere delle basi comuni su cui riconoscersi, dall’altro per ricordare a tutti gli orrori della guerra, del male medesimo.

 

A guerra conclusa, nel maggio 1945 don Zeno poté finalmente ricongiungersi ai suoi ragazzi: nell’immediato dopoguerra dilagò un’imponente violenza antifascista, tanto che don Zeno fu chiamato, quale voce autorevole del modenese, a calmare gli animi. Nel 1946 pubblicò La rivoluzione sociale di Gesù Cristo, che ha un significato pragmatico:

 

Riflessione, fantasia e preghiera accendono ed intensificano in don Zeno l’impressione dell’incombere di un’ora suprema per il Cristianesimo, per il Paese e per sé medesimo. Lo soggioga la certezza che lo scontro tra il Capitalismo e il Marxismo abbia condotto l’umanità sull’orlo di un confronto finale, alla cui conclusione le si aprirà innanzi l’alternativa tra l’abbraccio del Vangelo, nella sua primitiva integralità, o la caduta in un abisso peggiore di quello dal quale essa pare stia per riemergere. Davanti al bivio della storia crede che anche la Chiesa dovrà schierarsi, scegliendo di essere il lievito che compenetri la farina dell’umanità nella rivoluzione della rinascita universale, o rifiutando la propria missione, e per quel rifiuto essere condannata dal suo Fondatore a tornare, crudelmente perseguitata, nelle catacombe: una profezia che negli anni successivi ripeterà con appassionata insistenza.

 

Nel novembre 1946, tentò questa rivoluzione, creando l’associazione dei Padri di Famiglia, che riuniva in un’unica comunità evangelica le famiglie di contadini e di braccianti del modenese. Tuttavia i capifamiglia rifiutarono questo stile di vita e don Zeno, indignato, annunciò la nascita di Nomadelfia insieme ai suoi “figli”.

Il 19 maggio 1947 ci fu infatti l’occupazione pacifica dell’ex campo di concentramento di Fossoli, frazione di Carpi, da parte dei Piccoli Apostoli. L’anno seguente la comunità si diede persino una costituzione e assunse finalmente il nome di Nomadelfia, mentre proseguivano i lavori per la trasformazione del campo di concentramento da luogo di morte a luogo d’amore.

La comunità, che contava più di un migliaio di abitanti, poté contare fin da subito sul sostegno di alcuni uomini eminenti di allora, da padre David Maria Turoldo alla contessa Giovanna Albertoni Pirelli e molti altri ancora: tuttavia erano tempi di crisi e la comunità, inoltre, entrò in contrasto con il governo di unità nazionale del dopoguerra. In particolare, le critiche provenivano dalla Democrazia Cristiana:

 

Il Governo ottiene dal Vaticano l’invio a Fossoli, in visita ufficiale, del nunzio apostolico presso il Quirinale, monsignor Borgoncini Duca. La visita riveste un inequivocabile significato politico. Il prelato è, formalmente, il responsabile delle relazioni tra lo Stato italiano e la Città del Vaticano: inviandolo a Nomadelfia la Curia romana dimostra di volere verificare se le attività della città possano costituire, come denuncia il Governo, ragione di frizione tra le due parti.


Sua eccellenza Borgoncini Duca […] giunge nella città il 17 febbraio 1950, effettua la propria visita appassionandosi al quadro umano che si dischiude davanti a lui e la conclude, nella chiesetta ricavata in una baracca, benedicendo la comunità. Alla benedizione aggiunge un indirizzo di saluto in cui vibrano simpatia e adesione: “Per me è stata una grande rivelazione. – proclama – Ho visto tante città, ma una città come questa non l’ho vista mai. Riferirò al Papa tutto quello che ho visto. Dirò quanta vita c’è, quanto entusiasmo. Sono sicuro che il Papa confermerà questa benedizione che io adesso vi do.”.

 

Il primo scoglio sembrava superato; don Zeno intrattenne anche una corrispondenza diretta con il pontefice, ma la sua sete di giustizia sociale non venne placata: egli continuava a girare l’Italia in cerca di sovvenzioni e predicava la nascita del Vangelo in Terra.

La sua battaglia religiosa proseguì sempre più aspramente sia con il mondo politico che con il Vaticano, fino a giungere nel 1952 allo sgombero forzato del campo di Fossoli. Si trattava della cosiddetta “diaspora” dei Nomadelfi, un popolo senza più casa, come raccontato nella Bibbia, che doveva subire persino la divisione delle madri dai propri figli adottivi, riportati negli orfanotrofi. Alcuni di loro tornarono nel mondo dell’illegalità; altri tentarono di fuggire per ricongiungersi alle nuove madri.

 

Nel 1953 don Zeno pubblicò una delle sue opere più importanti, Non siamo d’accordo, uno dei testi più importanti della libellistica antivaticana, ormai difficile da reperire. Il prete di Carpi criticò la borghesia, i governanti democristiani, le autorità ecclesiastiche. Fu un momento di svolta, la battaglia decisiva di don Zeno: perdere significava svuotare la sua comunità della forza propulsiva e riformatrice. Era da intendere come uno scontro della Giustizia, terrena e divina, contro il Potere, il Denaro, il Male che ne derivava.

Nella lettera a monsignor Montini (il futuro papa Paolo VI, allora prosegretario di Stato Vaticano), don Zeno rivolse la sua indignazione per lo sgombero della città. Il monsignore risponse citando proprio l’apostolo Paolo, dalla prima lettera ai Corinti: «La carità è paziente, è benigna, la carità non contende, non opera avventatamente, non si gonfia, non è ambiziosa, non chiede ciò che le appartiene, non si irrita, non pensa il male, non gode del male, partecipa invece alla gioia della verità: tutto sopporta, tutto spera, tutto sostiene».

Il punto di vista, tuttavia, era quello del potente che attraverso la retorica cattolica cercava di calmare l’animo di un dissidente, il quale controbatteva: «Eccellenza Reverendissima, […] senza dubbio grave è il Suo invito paterno alla carità. Che cosa è la carità? San Paolo la esprime, nella lettera, sotto quell’aspetto che Lei mi indica e che mi sento in coscienza di dover sempre tener presente. Che cosa è la carità? È anche: “Scendeva da Gerusalemme a Gerico un uomo...” Che cosa è la carità? È anche “Guai a voi...” […] È un dilemma di facile scelta; o piegarsi ad essere ingiusti, mancando quindi di carità; o scagliarsi contro l’ingiustizia, realizzando in tal modo la carità in senso pieno».

Il monsignor Montini aveva posto la questione su un piano retorico e simbolico; don Zeno rispose con le stesse armi del suo interlocutore, facendo anche uso delle sue conoscenze giuridiche, per capovolgere il punto di vista.

 

Cessato il primo attacco “teologico”, il prete passò alle questioni pratiche, che interessavano maggiormente un animo legato ai problemi concreti. Egli dice: «È un problema di semplice contabilità. Per vivere in Italia occorrono almeno L. 105.000 pro-capite all’anno. Negare anche questo minimo all’uomo, è peccare. Noi ci accontentavamo di quel minimo. Neppure questo ci è stato concesso, e, come noi, milioni di Italiani sono nello stesso fallimento. E perché abbiamo tentato di vivere, siamo stati puniti. Il resto sono tutti pretesti che si affrontano dopo e non prima del pasto. Potete dire in Vaticano di essere stati trattati ad uno ad uno come noi?».

Dalla constatazione numerica delle difficoltà, si passava alla domanda retorica dietro cui si celava l’accusa: il Vaticano era troppo distante dalla popolazione per comprendere davvero come ci si sentisse a vivere nella povertà e nel bisogno.

 

Presupposto che in Italia siamo sei milioni di miserabili alla deriva, si consuma contro di noi un furto di circa un miliardo e ottocento milioni di lire al giorno, con i quali si fanno i palazzi, le ville, si sistemano lavoratori, imprenditori, professionisti, speculatori, ricchi e gerarchi e si pagano carabinieri e polizia per farci tacere noi che rimaniamo, da quella distribuzione, a mani e stomaco vuoti. Guardi, Eccellenza, che lo stomaco è cosa d’interesse divino.

 

La critica sferzante al potere e ai ricchi era già stata presentata nell’opera precedente, Dopo venti secoli (1951), in cui si additava l’incoerenza dei cristiani e si esprimeva una critica al marxismo e al liberalismo, visti come fonte di sfruttamento dei poveri. Nel suo progressismo vi era però più conservatorismo di quanto si potesse pensare: ciò nonostante i critici democristiani parlarono di un “prete rosso”, che nel contesto della Guerra Fredda favoriva il comunismo.

 

Voi potreste rispondermi: “E come potremmo fare a lavorare in questi pesanti uffici se non avessimo una retribuzione?” Già, è appunto questo che ci domandiamo noi. E che ci importano i Vostri Uffici, trovandoci noi in questo stato di schiavitù? Se siete padri anche di fatto, venite dalla nostra parte, venite con noi, a vivere come noi.

Ci interessa il diritto alla vita, ma non solo quello della Vita Eterna, bensì anche di questa vita terrena, la comunione dei santi “sicut in Coelo et in terra”.

 

In tutta la libellistica antivaticana ritorna costantemente questa critica alla ricchezza della Santa Sede e l’auspicio che essa possa tornare a quella povertà evangelica che permetteva ai fedeli di riconoscersi in Cristo. Dai primi secoli del cristianesimo a Martin Lutero, fino ai giorni nostri, questo messaggio è rimasto inascoltato.

Un altro aspetto forte dell’invettiva di don Zeno era il ritorno frequente dell’espressione “diritto alla vita”, laddove nell’antichità il credente cristiano era portato a subire la realtà sperando nell’aldilà, mentre qui si figurava la volontà di agire in questo mondo, rendendolo dignitoso per la vita umana.

 

Guardi, Eccellenza, il governo italiano, non facciamone mistero, democristiano in genere, il ministro Scelba in ispecie, ha preteso che noi vivessimo con L. 26.071 pro-capite l’anno. […] Facciano i conti e paghino. Non mi risponda: ‘Poveretti, come possono fare?” Lo chieda all’on. Scelba come fa quando noi Nomadelfi, ad esempio, diciamo che è un ingiusto: manda le camionette della polizia, fogli di via in base all’art. 147 della legge di Pubblica Sicurezza. E bisogna vedere come fa presto! Ci punta, come ha fatto, la pistola, e ci manda, come ha fatto, al confino. Manco di carità a dirLe queste cose?.

 

In questo passo l’attacco era più contingente: si riferiva al potenziamento della pubblica sicurezza voluto dal ministro dell’Interno Mario Scelba, scaturito soprattutto in seguito all’attentato a Palmiro Togliatti (14 luglio 1948), che generò scontri tra le forze di sinistra e le forze di polizia. Gli scontri tra polizia e manifestanti assumevano spesso carattere ideologico: da un lato si volevano affermare i diritti dei lavoratori, dall’altro nascevano vere e proprie discriminazioni nei confronti di socialisti e comunisti.

 

Dicono certe anime (auto) pie, naturalmente sempre quelle che se la cavano: “Eppure De Gasperi è un sant’uomo, un vero cattolico; ma queste cose non le può fare poveretto”. Noi decisamente rispondiamo: “Se non può fare queste cose, che ci sta a fare al potere? Venga con noi; ed insieme ritorneremo alle catacombe”. Può essere cattolico qualsiasi uomo che si metta a capo per applicare un sistema sociale addirittura infanticida, matricida, parricida?

Dica al Santo Padre che mandi ... ragionieri con le macchine calcolatrici al Congresso della Suprema Congregazione del Santo Uffizio, e che non tema; la Chiesa è robusta. Per il momento quei ragionieri sarebbero molto più utili dei teologi. […] Ci penseremo poi noi a concludere che abbiamo tutti diritto alla vita, mentre i ragionieri cominceranno a fornire al Padre Commissario gli estratti conti dei nostri oppressori cattolici. I non cattolici vedranno: “e vedendo crederanno”. […] È da un gran pezzo che si attende questa conversione della Santa Sede.

 

In don Zeno rimase saldo il proposito di divulgare il Verbo, criticando le espressioni di una falsa fede, comprata da interessi politici e del tutto umani. In particolare, per don Zeno un partito di cristiani in politica aveva permesso alla borghesia di governare sotto il segno di una morale cristiana stravolta in ogni sua componente. Se nell’intervento politico la Democrazia Cristiana cercava di esprimere forme laiche e umanitarie, mantenendo l’attributo “cristiana” solo a scopi ideologici, essa non aveva alcun bisogno di definirsi diversa da altre dottrine umanitarie come il socialismo.

Già allora c’era il problema della corruzione e dell’esagerata ricchezza della Santa Sede, che era in realtà un problema secolare. La riforma della Chiesa, secondo don Zeno, doveva passare attraverso l’esempio degli uomini che la rappresentavano, a partire dallo stesso pontefice. Il rischio che si correva, altrimenti, era di “tornare alle catacombe”, di regredire fino ad annientare l’intera istituzione.

 

Don Zeno morì il 15 gennaio 1981, colpito da infarto. Nel 1953 aveva chiesto a Pio XII di essere svincolato dal sacerdozio, per svolgere funzioni laiche che gli permettessero di rimanere vicino alla sua comunità dispersa per la Penisola.

L’esperienza di Nomadelfia tuttavia non finì in seguito allo sgombero di Fossoli: la comunità si riunì in una zona a pochi chilometri da Grosseto, trasformando negli anni un ambiente inospitale in un luogo vivibile. Nel 1962, papa Giovanni XXIII trasformò Nomadelfia in una parrocchia; don Zeno riprese il sacerdozio e venne nominato parroco della città.

Ma ormai la sua battaglia aveva perso la forte spinta rivoluzionaria; era stato costretto a rientrare nei ranghi della Chiesa: la sua critica era ancora sferzante, ma meno incisiva. I tempi stessi erano profondamente cambiati: la novità si normalizzò, la proposta – nelle sue estreme conseguenze – rimase utopia. Continuò ad esistere, ma come germoglio che deve ancora maturare nelle coscienze; negarlo significa chiudersi nel proprio mondo senza accorgersi che la realtà ha preso ormai altre strade e che si è preferito un rinnovato dogmatismo alla lotta, sebbene pacifica, per affermare i propri ideali.

 

Consumismo e crisi giovanile.

Nel 1965, cominciarono a svolgersi le serate di Nomadelfia, eredi di quelle manifestazioni artistiche che erano già state realizzate dall’Opera dei Piccoli Apostoli. Come una sorta di circo itinerante, i nomadelfi presero a muoversi lungo tutta la Penisola e talvolta anche all’estero (famosa è l’esperienza francese). Il 12 agosto 1980, a Castel Gandolfo, fu persino Giovanni Paolo II ad ospitarli con entusiasmo, ricambiando la visita nel 1989.

 

Nel periodo che va dagli anni Sessanta agli anni Ottanta, uno dei motivi più frequenti nella letteratura italiana è l’inquietudine giovanile. Se negli anni Sessanta era tempo di rivoluzione culturale e rifiuto degli schemi consumistici, negli anni Ottanta troviamo una gioventù smarrita, che risente del “riflusso”: furono anni in cui il consumismo sfrenato aveva avuto la meglio e i giovani avevano perso i punti di riferimento del passato (famiglia, scuola, etc.), spazzati via dal Sessantottismo, ed erano costretti a vivere in un presente in cui la sregolatezza e la diffusione delle droghe offriva una fuga tanto facile quanto illusoria. Era questo il clima del romanzo Altri libertini di Pier Vittorio Tondelli o ancora di Due di due di Andrea De Carlo. In quest’ultimo libro viene appunto raccontata la vicenda di due amici, il ribelle Guido Lareni e il narratore, che subisce il fascino dell’amico. I due partecipano alle proteste studentesche ma si accorgono che oltre il velo di rivolta si cela anche in questo caso una nuova forma di dogmatismo. Dice infatti Guido riferito agli studenti di stampo comunista: «Vorrebbero cambiare il mondo per tornare indietro. Hanno la testa piena di fotografie granulose e film da cineteca, la Corazzata Potëmkin e Pellizza da Volpedo, monumenti e vecchie copertine di libri. Non riuscirebbero a inventare qualcosa di nuovo nemmeno se fossero costretti».

A questo punto Guido si lascia andare ad una vita sregolata, ottiene successo con un romanzo, ma l’autodistruzione che egli descrive finisce per realizzarsi davvero. Al contrario, il narratore riesce a trovare un compromesso. Ritiratosi in una fattoria umbra, si dedica all’agricoltura, riuscendo così ad uscire dagli schemi borghesi ma senza cadere nell’autodistruzione.

 

In entrambi i protagonisti si ritrova una spinta anarchica che li porta però a due soluzioni differenti: nei suoi vagheggiamenti, Guido teorizza persino una nuova civiltà agricola, che ponga fine al sistema consumistico.

Negli anni Sessanta, effettivamente, vi furono movimenti, come quello hippy, che cercarono di formare queste comunità. Senza dover andare oltreoceano, basti pensare alla Città Libera di Christiania, un quartiere autogovernato di Copenaghen. Fondata nel 1971 e tuttora esistente, nacque con modalità parallele a Nomadelfia, dal momento che degli hippy occuparono una base navale dismessa, sebbene lo stile di vita fosse diametralmente opposto.

Non mancano comunque esempi religiosi di comunità simili a Nomadelfia, come nel caso del kibbutz, un termine ebraico che indica la forma associativa volontaria di alcuni lavoratori, che su un rigido principio di uguaglianza e di proprietà comune avevano fondato una comunità in Israele nel 1909.

Infine, vale la pena citare un esempio meno recente, degli inizi del XIX secolo, periodo in cui nacque il termine “falansterio”, ad opera del filosofo francese Charles Fourier, ad indicare forme di vita comunitaria in parte rivoluzionarie ancora oggi.

 

Nomadelfia, dunque, non rappresenta una novità in questo senso: essa è l’espressione di un’antica tradizione cattolica, la prima, quella comunitaria, che racchiude l’essenza stessa del cristianesimo.

Nomadelfia ha avuto il merito di dare speranza e aiuto concreto nel secondo dopoguerra, aprendo le porte della città a tutti i diseredati e affamati d’Italia interessati a quella proposta.

Concluso questo compito e subita la dispersione, l’esperienza ha avuto la forza di rigenerarsi e di offrire nuovo appoggio a quelle persone, soprattutto giovani, che nel mondo capitalistico si erano sentite fuori posto, estranee. Nel corso della sua esistenza, Nomadelfia ha accolto centinaia di migliaia di giovani, spesso provenienti anche da riformatori o carceri minorili.

L’attenzione principale di Nomadelfia è stata rivolta soprattutto all’istituto fondante del cristianesimo e al tempo stesso della società: la famiglia. Famiglia non intesa necessariamente come composizione classica di genitori e figli; ma famiglia intesa come insieme di valori che esulano dal solo cristianesimo e valgono per ogni civile convivenza. Non a caso nella comunità si usa il termine “famiglia allargata” per indicare che le responsabilità educative non spettano ai soli genitori, ma a tutti gli adulti della città.

 

Conclusione

 

Siamo giunti così alla fine di questa analisi. La riflessione conclusiva si concentra ancora sulla concezione di famiglia, che è l’elemento fondante di Nomadelfia. Già Hegel aveva considerato in maniera problematica tale concetto, perché esso rischia di creare una realtà illusoria che ci esclude dal mondo vero. Il mondo vero è costituito di singoli individui che hanno propri desideri da esprimere e realizzare: il fatto che vi sia un desiderio comune, e che questo si concretizzi nella fede in Cristo, è forse fuorviante, perché nega la possibilità di un contrasto in nome di un dogma. Dunque si concede che questa società sia definita libera, ma si nega che l’individuo lo sia. Con ciò non si vuole escludere che, all’interno di una normale società, l’individuo non possa credere a ciò che desidera, ma che ciò che desidera sia la norma di tutti.

A questo punto, l’obiezione potrebbe essere che quando alcune persone condividono ideali comuni, non è corretto proibirgli di vivere insieme. La risposta potrebbe essere che sul piano della famiglia ciò è possibile, anzi necessario, ma che a livello di società sia indispensabile che certe convinzioni universali restino parte di un insieme che comprende altrettante verità universali. Questo per il rispetto della libertà di scelta di chi prima di tutto, come i figli, si adegua a uno stato precostituito: all’interno di una società quale quella di Nomadelfia, i discendenti dei fondatori sono forse così coscienti della loro scelta comunitaria, almeno nella misura in cui lo erano i loro ferventi predecessori? Non si rischia piuttosto di crearsi le proprie leggende, i propri miti ed eroi, e formare intorno a queste immagini il nuovo e cieco credo?

Lo stesso don Zeno diceva che Nomadelfia non fosse l’unico modo per rapportarsi al cristianesimo. D’altra parte, nessuna realtà umana potrà mai eguagliare alcun disegno divino, nemmeno quando rivelato. Nel mondo di oggi non basta più prendere posizione; bisogna capire prima in base a che cosa si stia prendendo posizione. Prima di scegliere dobbiamo comprendere quali siano i valori in cui crediamo, per poi rinnovare costantemente questa scelta ed essere coscienti di ciò che siamo diventati, evitando sempre la facile strada che porta ad essere succubi alla sola legge creata dall’Uomo.

 

Bibliografia

 

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° Cammertoni V., Perché Nomadelfia, Edizioni Artestampa, Modena, 2008;

° De Carlo A., Due di due, Mondadori, Milano, 2007;

° Don Zeno, Non siamo d’accordo, De Silva Editore, Torino, 1953 (prima e unica edizione);

° Mastandrea P., Lettori cristiani di Seneca filosofo, Paideia, Brescia, 1988;

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° Platone, Repubblica, Newton Compton, Roma, 2011;

° Pontiggia G. e Grandi M. C., Letteratura latina, Principato, Milano, 1998;

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