Disordine mondiale. Memorie del Coronavirus. Parte VII

Gustave Courbet, L'onda (1870)


La Fase Due


Mentre cresceva l’impazienza per la riapertura del 4 maggio, pochi giorni prima scoppiò il “caso Bonafede”.
Il neo vice capo del DAP (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) inoltrò al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede un elenco di 456 boss mafiosi che chiedevano di poter essere scarcerati a causa dell’emergenza sanitaria. Di fatto, 376 riuscirono ad ottenere i domiciliari, tra cui il boss del clan dei Casalesi Pasquale Zagaria, per ironia della sorte finito a Brescia, una delle città più colpite dal Coronavirus. Questa notizia fece scalpore già da sé, poiché era chiaro che porre ai domiciliari queste persone significava mostrare debolezza da parte dello Stato (non giustificabile con generiche “ragioni umanitarie”) e rafforzare le mafie, che soprattutto in questa fase critica, disponendo di molta liquidità, avrebbero potuto “riconquistare” i quartieri più colpiti dalla crisi.
Il 3 si aggiunse ulteriore benzina sul fuoco: nel corso del programma televisivo ‘Non è l’Arena’, in onda su ‘La7’, Massimo Giletti ricevette la chiamata del noto magistrato antimafia Nino Di Matteo, che era ora al CSM, il quale sosteneva che Bonafede gli avesse proposto la nomina al DAP nel 2018, per poi ritirarla inspiegabilmente. In quest’ultimo termine stava tutta la polemica: perché il ministro della Giustizia aveva cambiato idea sulla nomina, preferendo Francesco Basentini al DAP e proponendo a Di Matteo un incarico agli Affari Penali?
C’erano molti dubbi, alcuni dei quali facevano temere che le pressioni mafiose avessero fatto cambiare idea al ministro, sulla base di alcune intercettazioni fatte in carcere, in cui alcuni mafiosi dicevano ad alta voce che, se fosse stato nominato Di Matteo, questi avrebbe gettato la chiave delle loro celle.
Il ministro chiamò quella sera stessa, ma più che entrare nel merito delle parole di Di Matteo, ricordò le azioni politiche intraprese in quegli anni, dal cosiddetto “Spazzacorrotti” all’interruzione della prescrizione. Inoltre, il sabato precedente era stato approvato al Consiglio dei Ministri il nuovo decreto legge di Bonafede, per il rientro dei detenuti in regime di 41 bis o di alta sicurezza.
Il decreto legge del 9 intendeva porre la parola fine alla questione: prevedeva infatti che i giudici di Sorveglianza rivalutassero la sussistenza delle motivazioni sanitarie che avevano portato ai domiciliari di centinaia di mafiosi.
L’opposizione di centro-destra portò avanti una mozione di sfiducia per il ministro, a cui si aggiunse anche una mozione di sfiducia da parte di +Europa, benché per ragioni diverse (la scarsa attenzione alla salute dei detenuti): entrambe furono comunque respinte il 20 maggio.

Mentre questo caso esplodeva e si discuteva su come concluderlo, il 4 maggio cominciò la cosiddetta “Fase Due”, con la riapertura delle attività anche non essenziali, benché mantenendo le misure di distanziamento sociale. Tuttavia, da un lato vi erano fabbriche che – grazie all’intervento dei prefetti – avevano potuto riaprire già prima, in particolare al Nord, mentre dall’altro molte attività rimasero ancora chiuse. Tra queste bar, ristoranti, cinema, discoteche, botteghe di parrucchieri, saloni di bellezza, etc.
Già dalla conferenza del premier Conte precedente al 4, le disposizioni – che ancora dovevano essere pubblicate – stavano facendo discutere esperti di giurisprudenza e cittadini comuni. In particolare fece molto parlare il termine “congiunti”.
Alla fine si giunse a queste poche certezze: non si potevano vedere amici, poiché il termine congiunti comprendeva parenti, coniugi, conviventi e fidanzati stabili. E anche su quest’ultimo termine non c’era chiarezza: come era possibile stabilire se un affetto fosse in effetti stabile? Fu difficile non sentirsi presi in giro. Ma per capire il nuovo decreto, era in realtà già uscita una guida nel 1949, poi divenuta un classico dell’antropologia: Le strutture elementari della parentela di Claude Lévi-Strauss.
Era poi permesso svolgere attività sportiva senza l’obbligo di rimanere in prossimità dell’abitazione. Palestre e piscine rimanevano tuttavia ancora inaccessibili. Riprendevano invece gli allenamenti riconosciuti come di interesse nazionale dal CONI, dal CIP e dalle federazioni.
Oltre agli ambienti dedicati allo sport, restavano chiusi anche i centri culturali come musei e biblioteche.
Le uscite erano vietate a coloro che avevano febbre superiore a 37,5° C. Gli spostamenti potevano avvenire anche al di fuori del proprio comune di residenza, ma non in un’altra regione. Fu permesso di svolgere i funerali, ma solo con congiunti e fino ad un massimo di quindici persone. Le messe invece continuavano a restare sospese e questo portò all’indignazione della Chiesa.

Per quanto riguardava aspetti più “tecnici”, rimase valida l’autocertificazione precedente al 4, ma ne fu introdotta anche una nuova. Le espressioni più comuni sui media richiamavano il fatto che ci stessimo avviando “verso la nuova normalità” e che avremmo dovuto attuare una “convivenza forzata con il virus”.
A fine aprile, a livello globale si contavano più di tre milioni di contagi e i morti erano circa 200mila. Che cosa era cambiato da prima del lockdown, in Italia? I numeri rispetto ad allora erano evidentemente peggiori, ma migliori se si calcolava il lento calo dei nuovi contagi nel corso di aprile. La vera differenza, prima ancora che nei numeri, stava nella nuova consapevolezza degli italiani e nella speranza che l’introduzione delle misure di distanziamento sociale potessero permettere di ripartire in relativa sicurezza. Una sicurezza che poteva essere assicurata solo da uno shock come quello della quarantena.

Nella Fase Uno, gli italiani avevano attraversato almeno due sotto-fasi. Durante le prime settimane vi era ottimismo: era il momento dei canti dal balcone, dell’“andrà tutto bene”, delle persone che riscoprivano la cucina “fatta in casa” e che razziavano il lievito dai supermercati. In quelle stesse settimane, quasi in sordina, c’erano imprenditori e lavoratori a rischio che non avevano ancora alcuna garanzia sul futuro, né per gli eventuali rinvii (affitti, scadenze varie), né sui tempi in cui sarebbero arrivati gli aiuti economici dallo Stato.
Poi, gradualmente, si entrò in quelle settimane critiche, con migliaia di morti giornaliere, contagi in rapida crescita, lo sconforto per la quotidianità irrimediabilmente perduta. In due parole: tristezza e depressione.

Quando cominciò la Fase Due, tra le varie polemiche, ci si chiese anche perché non si fosse attuata una riapertura distinguendo tra aree geografiche anziché tra settori commerciali. Era evidente che le regioni si trovassero in situazioni anche molto diverse tra loro, in certi casi con contagi sotto le dieci persone.
Non ritengo sia esagerato affermare che quella potesse essere l’occasione per fare un passo in avanti nella soluzione della “questione meridionale”, favorendo per una volta il Sud. E non per discriminare il Nord, bensì per attuare un qualsiasi genere di collaborazione nazionale, che tenesse conto del generale contenimento della diffusione nel meridione. Rimase tuttavia una possibilità tra tante, dimenticata, mentre alcuni giornali e personaggi pubblici si misero a parlare di discorsi divisivi, basati sui più vecchi e ridicoli stereotipi tra Nord e Sud.

Dal 4 uscirono tante, tantissime persone. I commenti indignati, persino disperati, erano prevedibili. Ma si potevano rimproverare tutti indiscriminatamente? Uscirono in tanti perché tutti erano rimasti bloccati per due mesi. Nessuno aveva più diritto di altri di uscire, né qualcuno avrebbe avuto particolari virtù a rimanere a casa.
Era anche plausibile pensare che nelle settimane seguenti il numero dei contagi sarebbe cresciuto, perché era ovvio che con più persone esposte avremmo avuto più contagiati che in quarantena.
Alcune delle domande più serie erano queste: sarebbero state sufficienti le misure di distanziamento e i dispositivi di protezione? Gli italiani erano pronti ad un cambiamento così drastico, che richiedeva una forte responsabilità? Se ci fosse stata una nuova crescita dei contagi, questa sarebbe stata esponenziale? E il sistema sanitario era in grado di contenere una nuova ondata? I dubbi sembravano non avere fine.


Prove di riapertura


Il 17 maggio fu emanato un nuovo DPCM, riguardante ulteriori provvedimenti per fronteggiare l’emergenza epidemiologica e per l’allentamento delle misure di quarantena a partire dal giorno seguente ed efficaci fino al 14 giugno 2020.
Cercherò di fare un riepilogo degli articoli che sia il più breve possibile, ma al contempo utile a comprendere la situazione a metà maggio.
Le persone con febbre maggiore di 37,5° C dovevano rimanere al proprio domicilio. Era consentito l’accesso ai parchi, ma con il divieto di assembramento; era consentita l’attività sportiva e motoria all’aperto nelle aree attrezzate; restavano sospese le competizioni sportive, ma erano permessi gli allenamenti a porte chiuse; riaprivano palestre e piscine, seguendo le linee guida dell’Ufficio per lo Sport.
Le manifestazioni pubbliche furono consentite, ma in forma statica e mantenendo il distanziamento. Cinema e teatri rimasero in sospeso fino al 14 giugno. Fu consentito l’accesso ai luoghi di culto, secondo protocolli specifici per le diverse confessioni, specificate negli allegati.
Musei e luoghi della cultura poterono riaprire, ma seguendo i protocolli fissati dalle regioni. Sospesi invece i congressi, le riunioni e gli eventi sociali; sospesa anche la riapertura di centri culturali e sociali, dei centri benessere e termali.
Poterono riaprire le attività commerciali al dettaglio, con la dilazione degli accessi e un tempo massimo per potersi muovere nel negozio. Ristoranti, pub, bar, gelaterie e pasticcerie poterono riaprire, in accordo con le linee guida delle regioni. Era permessa anche la riapertura degli stabilimenti balneari e degli alberghi. In ogni luogo si raccomandò comunque la sanificazione.
Riaprirono anche i cantieri e le attività industriali in grado di seguire i protocolli di sicurezza delle regioni e delle organizzazioni di categoria.
Vi era l’obbligo di utilizzare le mascherine nei luoghi al chiuso accessibili al pubblico e in ogni ambiente in cui non fosse possibile mantenere le distanze di sicurezza. Era inoltre possibile entrare in Italia, seguendo una serie di indicazioni e sottoponendosi all’isolamento fiduciario per quattordici giorni presso il domicilio indicato nella documentazione richiesta.
Dal 3 giugno furono annunciati gli spostamenti da e per gli Stati membri dell’Unione Europea, per gli Stati che aderivano all’accordo di Schengen, per il Regno Unito, Andorra, il Principato di Monaco, la Repubblica di San Marino, lo Stato della Città del Vaticano. Era in ogni caso consentito il rientro presso il proprio domicilio, abitazione o residenza. Restavano tuttavia sospesi i servizi di crociera delle navi passeggeri di bandiera italiana.
Consentiti i trasporti pubblici di linea, secondo un protocollo di regolamentazione di settore sottoscritto il 20 marzo.
Furono introdotte disposizioni specifiche per le attività sociali e socio-sanitarie, che vennero riattivate, con la possibilità di ridurre il distanziamento sociale tra le persone con disabilità o disturbi e gli accompagnatori o operatori di assistenza.

Queste le linee generali del DPCM. Citerò ora alcuni temi molto discussi in questa fase, proseguendo con nuovi temi rispetto a quanto detto nel capitolo precedente.
Prima di tutto, la situazione delle scuole. In uno stato di emergenza come questo, le alternative erano meno di quanto si potesse parlare nelle cosiddette “chiacchiere da bar”. Il virus ci aveva colti impreparati mettendo a nudo anche un’altra mancanza in àmbito educativo, ovvero il processo di digitalizzazione mai davvero compiuto nel nostro Paese. Intendendo questo termine in senso esteso, a partire dalla formazione degli insegnanti affinché fossero in grado di utilizzare una banalissima webcam.
Colti in fallo, non potemmo fare altro che mettere le pezze dove possibile (p. es. fornendo di computer o tablet quegli studenti che ne erano privi) e sperare di avere tempo, in futuro, per rimediare. Mi domandai poi alcune cose: università e ambienti di lavoro avrebbero discriminato i diplomati del 2019-20, anche in modo non esplicito? Da un lato non ne avrebbero avuto tutti i torti, dall’altro sarebbe stata una palese ingiustizia. Si poteva pensare ad un modo per mettere alla prova le loro conoscenze più avanti, p. es. in sede universitaria o con un corso di formazione lavorativa? Oppure sarebbe stato sbagliato?
Pensavo a queste e altre domande sull’argomento. Di certo, l’ipotesi iniziale di far passare tutti gli studenti a prescindere sarebbe stato un modo per screditare coloro che a scuola si erano impegnati per anni, che ci avevano investito tempo, denaro e serenità.
L’unica certezza era che già prima del virus la scuola fosse in gravi difficoltà nel formare persone adulte e dotate di senso critico e, con l’emergenza epidemiologica, la situazione divenne più grave che mai. Pensai alla scuola e non mi veniva in mente nient’altro che una fabbrica di pezzi di carta, al di là del merito o del demerito di studenti e professori; pensai anche a quei maturandi che si erano persi un anno magico delle loro vite, dalla gita all’esperienza ansiosa ma fondamentale della maturità.

Nella prima metà di maggio, la ministra dell’Istruzione Lucia Azzolina annunciò i nuovi provvedimenti relativi alla scuola. Fu concessa la possibilità di bocciare, ma solo in casi gravi (assenze prolungate prima della chiusura, problemi di disciplina, etc.). Oltre alla valutazione, fu stabilito di indicare le lacune accumulate dallo studente durante la chiusura, da dover recuperare al ritorno a scuola, a settembre, in modalità non ancora definite.
Gli esami di terza media si sarebbero svolti con un colloquio telematico, presentando una tesina e preparandosi sul percorso scolastico del triennio.
L’esame di maturità si sarebbe invece svolto in presenza, in modalità orale, con una commissione formata da docenti interni e da un solo commissario esterno. Il colloquio sarebbe durato un’ora, prevedendo la discussione di un elaborato sulle discipline di indirizzo; la discussione di un testo di letteratura italiana, del materiale scelto dalla commissione e delle conoscenze di educazione civica; l’esposizione dell’esperienza di alternanza scuola-lavoro. Il credito scolastico avrebbe potuto essere convertito fino ad un massimo di sessanta punti, mentre la prova orale avrebbe portato ad un massimo di quaranta punti.
Le università rimanevano invece un’incognita, con linee guida molto generiche e una larga discrezionalità lasciata alle singole istituzioni, che in modo diverso si preparavano ad organizzare gli esami della sessione estiva. Verso la fine del mese, infine, furono indicate le linee generali per il concorso pubblico per l’assunzione di nuovi docenti, da svolgersi in autunno.

Un altro tema di quei giorni fu costituito dai primi segnali seri di malcontento. Il 13 furono arrestati dodici anarco-insurrezionalisti, accusati di un attentato incendiario commesso a Bologna il 15 dicembre 2018. Le indagini sembravano dimostrare che l’associazione avesse organizzato un sistema per sovvertire l’ordine democratico dello Stato. Il blitz coinvolse le città di Bologna, Milano e Firenze.
Altre proteste, questa volta pacifiche, furono attuate dai commercianti e dai ristoratori, p. es. a Torino, Palermo e Roma: molti proprietari scelsero infatti di rimanere chiusi anche dopo il 18, sia perché il governo non aveva emanato il DPCM in tempo per potersi organizzare, sia perché riaprire con quei sistemi di sicurezza significava una riduzione della clientela spesso di due terzi.
Nel frattempo, il governo premeva a livello europeo per sollecitare l’attuazione del Recovery Fund; il MES era invece stato approvato senza condizionalità, ma solo per investimenti in settori specifici, come quello sanitario. Mentre però si aspettava l’arrivo di nuova liquidità nell’economia reale, oltre alle proteste cominciarono a circolare le prime notizie di suicidi, dovuti alla situazione disperata.

Molti scelsero comunque di riaprire le loro attività, ma tra i più limitati vi erano i lavoratori delle stazioni balneari. Non era solo un problema per i gestori, ma anche per i turisti, perché molti annunciavano che non sarebbero andati al mare a quelle condizioni. Mi immaginavo tra cinquant’anni, quando i collezionisti di oggetti vintage avrebbero trovato le riviste del 2020, con titoli come Abbronzatura Estate 2020 e le fotografie annesse di persone abbronzate con il segno bianco della mascherina sul viso. Un colore sbiadito magari, per rievocare le vecchie riviste americane con storie post-apocalittiche o fantascientifiche al loro interno. Insomma, l’idea di trascorrere un week-end in spiaggia, a quelle condizioni, era tutt’altro che invitante. E un problema davvero grave riguardava quelle spiagge, come sulla Costiera Amalfitana, con aree per la balneazione tipicamente ristrette.
Altri settori rimanevano chiusi, ma premevano per riaprire. Tra tutti, il calcio. Avevo già parlato – ancora nei primi capitoli – del potenziale pericolo che avrebbe causato la chiusura delle attività calcistiche nel nostro Paese, con una certa tifoseria che necessitava di quello sfogo sociale per non indirizzare in altre sedi la carica violenta.
Comprendevo anche gli interessi economici dietro al calcio, tuttavia seguire le norme in partita era semplicemente impossibile: si potevano impedire le marcature, facendo stare i giocatori ad almeno un metro di distanza? Le partite si sarebbero potute tranquillamente risolvere in un testa o croce su chi vincesse la palla. In fondo, questa fase normativa fu segnata da una miriade di controsensi e di veri e propri nonsensi: d’altra parte, lo stesso controllo metodico di tutte le coste, in una Penisola come la nostra, risultava di fatto impraticabile.

La riapertura del 4 ci mostrò come molti di noi fossero stati troppo ottimisti. Uscimmo in città dove i locali erano ancora chiusi; i negozi vuoti o in fallimento; i luoghi di svago inaccessibili. Anche dopo il 18, molti cominciarono ad avere paura persino di invitare e di organizzare un piccolo aperitivo in casa. Si sentiva parlare di bambini e adolescenti che, pur potendo uscire, non ne avevano alcuna voglia. Fu inoltre segnalato un incremento delle chiamate relative alla violenza domestica: persone in gravi difficoltà, isolate dal mondo, con un sentimento di solitudine crescente e la percezione che – là fuori – non vi fosse più niente e nessuno su cui poter contare.
Questa emergenza fu il preludio ad una svolta antropologica. Molti purtroppo non si sarebbero adattati. Non sarebbe andato tutto bene; prenderne coscienza era fondamentale per reagire. La retorica stessa degli eroi sarebbe stata vana se ad essa fosse seguita una devastazione della vita sociale, motore propulsore di ogni società.


La riapertura delle regioni italiane


Il 21 maggio si superarono i cinque milioni di contagiati nel mondo, sebbene due terzi di questi fossero concentrati in soli quattro Paesi. In Italia, il Capo della Polizia, Franco Gabrielli, ribadì la necessità di assicurare il divieto di assembramento, alla luce dei primi dati allarmistici sulla rinata movida delle città. Dall’altro lato c’erano anche i più timorosi, che si domandavano ingenuamente perché fosse necessario riaprire i negozi tanto presto. Semmai, il problema riguardava le regole rigide, che ebbero per molti un potere dissuasivo almeno in quelle settimane e che di fatto danneggiarono comunque le attività commerciali, sebbene per una ragione comprensibile. D’altra parte non si poteva nemmeno togliere alle persone la possibilità di esercitare una delle pochissime facoltà che gli erano rimaste, ovvero il potere d’acquisto.
Il 26 si cominciò a parlare in modo diffuso del problema degli assembramenti e il governo tastò il terreno – come aveva fatto nei mesi precedenti – questa volta sulla possibilità di creare un gruppo di 60mila volontari per controllare locali e persino spiagge. In effetti, il solo pensiero di tenere sotto controllo tutte le coste della Penisola appariva impraticabile, ma certamente la proposta di un corpo di volontari addetto a tale compito era quantomeno risibile. In fondo, non era altro che un’implementazione degli informali e annoiati “poliziotti dei balconi”, che avevano accompagnato le settimane della quarantena.
In attesa del 3 giugno, data di riapertura delle regioni, territori limitrofi come Friuli, Veneto, Emilia e la provincia di Trento anticiparono i collegamenti interregionali. Tuttavia ci furono non poche difficoltà ad avere informazioni su come muoversi, a causa di un continuo rimbalzo di responsabilità e delle incertezze delle stesse istituzioni. Dai comuni alle polizie locali, dal numero speciale dedicato all’emergenza alle sedi della Protezione Civile: la rilettura de Il processo di Kafka poteva ben evidenziare l’assurdità di queste regole e normative non chiare, che ponevano il cittadino in balìa della libera interpretazione del presunto responsabile di turno.
Ad ogni modo, mentre in Italia il problema degli assembramenti riguardava il tema della movida, in India il rischio di un contagio crebbe per gli sfollati del superciclone Amphan. Medesime priorità, piani di difficoltà decisamente diversi. Cito questo dato solo per evidenziare come in quei mesi la nostra visuale sul mondo circostante si fosse drasticamente ridotta e i problemi nostrani, anche i più banali, avevano occupato forse più spazio del necessario.

Nel frattempo, il 27 l’ANSA comunicò i dati sul Recovery Fund: 172,7 miliardi sarebbero stati riservati all’Italia; 81,807 come aiuti e 90,9 come prestiti. Il discorso fu solo in parte al centro del dibattito, perché il focus era stato spostato in modo evidente sui gruppi di persone che si ritrovavano nei locali, scatenando oltretutto una bagarre tra regioni virtuose e incapaci, dividendo per l'ennesima volta la sfida tra Nord e Sud.
Vedendo tutti quegli assembramenti sui media – reali ma anche in parte enfatizzati – ci si cominciò a domandare come mai non aumentassero in maniera vistosa anche i contagi. Non ci fu una risposta univoca. Il 25 uscì comunque un articolo interessante di Luca Carra, sul sito scienzainrete.it (SCIRE), dal titolo Perché si muore sempre meno di Covid?.
Tra le varie spiegazioni, nell’articolo si citano quelle proposte da Fabio Ciceri, ematologo vicedirettore scientifico dell’Ospedale San Raffaele di Milano: «Le cure in ospedale e a casa sono più appropriate che nei primi tempi e somministrate in modo più precoce. Si è messo a fuoco che, al di là delle polmoniti, la malattia presentava un quadro infiammatorio e di trombosi diffusa da trattare con anticoagulanti e terapie immunomodulanti. Inoltre, uscendo dall’emergenza e con più letti disponibili, gli ospedali rispondono meglio. Un altro punto importante è la stagionalità: a febbraio-marzo negli esami sierologici dei pazienti abbiamo trovato virus influenzali e altri virus che suggeriscono infezioni concomitanti e, quindi, aggravanti il quadro. Anche l’inquinamento atmosferico, irritando le vie respiratorie, fa sovraesprimere i recettori ACE2 e peggiorare la prognosi».
Giunse infine il 3 giugno, con la possibilità di potersi muovere tra regioni: senza dubbio le persone stavano già cominciando ad abbassare la guardia e a parlare, in tanti, in termini complottistici, spinti anche dal comprensibile malcontento per mesi di inattività.

Secondo i dati della Johns Hopkins University, al 31 le vittime a livello globale erano 370.247, di cui 103.906 negli Stati Uniti. I contagiati avevano superato i sei milioni, di cui oltre un milione e settecentomila negli Stati Uniti e quasi mezzo milione in Brasile.
Ma all’emergenza Coronavirus tornarono ad affiancarsi altri temi molto importanti a livello mondiale. Ad Hong Kong erano riprese le proteste, ma fu negli Stati Uniti che accadde un fatto gravissimo. Il 25, a Minneapolis, in Minnesota, fu ucciso George Floyd, un afroamericano che perse la vita durante l’arresto da parte di quattro agenti di polizia, che come mostrato dai video diffusi attuarono un evidente abuso di potere. L’agente Derek Chauvin premette il suo ginocchio sul collo di Floyd per otto minuti e quarantasei secondi e, nonostante le richieste disperate della vittima, l’agente non allentò la pressione fino alla morte dell’uomo. Le parole della vittima, "I can’t breathe" divennero uno slogan e la sua morte portò ad un’ondata di proteste destinata a protrarsi per diverse settimane e di cui avrò modo di parlare più nel dettaglio.
Le contraddizioni della superpotenza a stelle e strisce potevano vedersi anche di fronte al lancio del razzo Falcon 9 della compagnia Space X, fondata da Elon Musk. La missione Demo-2 (o DM-2) fu avviata al Kennedy Space Center il 30 e i due astronauti coinvolti furono Bob Behnken e Doug Hurley. Si trattò di un’ennesima conquista statunitense, con l’obiettivo di aprire la strada alla normalizzazione dei viaggi nello spazio, oltre che di uno sfoggio di tecnologie avveniristiche, a partire dagli schermi piatti nella capsula Crew Dragon. Certamente gli eventi della morte di Floyd e della missione Demo-2 non avevano quasi nulla in comune, ma forse evidenziavano bene quali fossero le grandi vette e i gravi disastri che gli Stati Uniti erano in grado di compiere ancora oggi.


Black Lives Matter


Queste memorie sono circoscritte al tema del Coronavirus e a come il mondo reagì alla pandemia. Tuttavia fenomeni come le proteste negli Stati Uniti, riunite intorno al movimento Black Lives Matter, non possono essere ignorati, per la loro rilevanza storica e per il fatto che comunque si inserirono nel contesto dell’emergenza sanitaria, intrecciandosi ad essa.
Il mese di giugno si aprì con una bufala su un presunto blackout a Washington DC, il primo del mese. Nella capitale c’erano stati significativi disordini nella notte, con saccheggi e scontri tra polizia e manifestanti. Quest’ultimi avevano marciato verso Lafayette Square, di fronte alla Casa Bianca, costringendo il presidente Trump a rifugiarsi con la famiglia nel bunker previsto dal protocollo per le emergenze. La Casa Bianca rimase così al buio e Trump, per minimizzare lo smacco subìto, si affrettò a fare battute sull’accaduto. In seguito, dalle parole passò ai fatti e fece sgombrare con la forza lo spazio antistante alla sede governativa per poter simbolicamente andare alla chiesa presidenziale di St. John (incendiata dai manifestanti) e – Bibbia alla mano – annunciare di essere colui che avrebbe riportato law and order.
Nei giorni di quella bufala, mi chiesi perché ci lamentassimo delle fake news se poi, quando ci comodava, eravamo pronti a diffonderle o a “cavalcare l’onda”. Il fact checking doveva necessariamente valere per tutti e per tutto. Altrimenti era solo ridicola contro-propaganda.

Facciamo però un discorso più specifico in termini storici. Il 4 si commemorò l’anniversario delle proteste di piazza Tienanmen, a Pechino, che durarono dal 15 aprile al 4 giugno 1989. Ne parlai in questo blog e rimando a quel post (qui) per integrare il discorso.
Si tende comunque a dire che le fotografie e i video di quei giorni diedero maggiore forza a coloro che protestavano in Europa per ottenere la caduta del muro e dell’URSS. Penso però, e purtroppo, che sia solo una mezza verità. L’Unione Sovietica era destinata comunque a cadere e il processo di disgregazione era avviato già da diversi anni.
Non credo nemmeno che le proteste di piazza Tienanmen abbiano davvero mosso le coscienze di fronte alle repressioni del regime cinese, dal momento che la storia ci ha mostrato come la Cina sia potuta divenire un colosso mondiale e che oggi sia in grado di agire in modo (quasi) del tutto incontrollato anche dal punto di vista della repressione interna. Si pensi soltanto al caso del Tibet e alle proteste di circa dieci anni fa, di cui forse i giovani d’oggi non hanno nemmeno mai sentito parlare. Si pensi allora agli Uiguri, l’etnia turcofona di religione islamica, la cui persecuzione fece grande scalpore nel 2019. E si concluse anch’essa nel silenzio generale. Nessuna giustizia; nessun diritto acquisito.

Tutto questo per dire che cosa? Che sono davvero rare le proteste che hanno avuto un esito felice e immediato nella storia. E ogni volta che nascono questi grandi fenomeni, siamo tentati di credere che non sia mai successo nulla del genere, che “il vento stia cambiando”, che vivremo finalmente in un mondo migliore e via discorrendo. La realtà ci mostra piuttosto come molte di queste proteste siano importanti, talvolta fondamentali, ma che richiedano tempo (anni o persino secoli) per mostrare i propri frutti. Frutti che, come in ogni grande rivoluzione o protesta, si concludono sempre, anche minimamente, con un qualche genere di compromesso tra il nuovo sistema e quello che lo ha preceduto.
Eppure... eppure sappiamo, percepiamo nel profondo di noi stessi, che il cambiamento è necessario; che non possiamo ancorarci a nessuna certezza o abbandonarci alla rassegnazione di fronte ad un’umanità che soffre di fronte a noi, o proprio in noi stessi. E tutto questo è il motore della storia; le nostre vite in qualità di esseri umani, al di là delle singole esistenze che brevemente si disperdono.

Ora, le proteste negli Stati Uniti avevano una indiscutibile legittimità. Per un'inquadratura antropologica e storica dell'argomento, rimando a un post che scrissi sull'argomento (qui), per mostrare come l'assassinio di George Floyd si inserisse nella storia stessa degli Stati Uniti e in un certo pensiero razzista.
Leggendo la sintesi alla quale ho rimandato, sembra che l’umanità continui a mordersi la coda all’infinito, senza mai venirne a capo. Ho citato p. es. l’uccisione di Fred Hampton (1969) per mano della polizia e i tumulti di Los Angeles del 1992: casi che scatenarono reazioni molto simili a quelle successive alla morte di Floyd, in una fase storica in cui vi era ancora un concreto attivismo per i diritti civili, che andava oltre il tempo fugace di un trend sui social.
Nella storia umana, è capitato che singoli individui si distinguessero, magari persone di cui non abbiamo nemmeno mai sentito parlare, ma che hanno trovato un loro modo di uscire da questo schema perverso, da questo infinito ritorno, portando l’umanità ad un livello superiore. Quello che stava succedendo negli Stati Uniti era qualcosa di grandioso e di doveroso da portare avanti, ma il timore era che non ci sarebbero state conseguenze positive sul lungo periodo. Era facile pensare che la rabbia sarebbe divenuta sempre più uno scontro tra opposte fazioni, sempre più feroce. Una lotta senza quartiere dove avevo seri dubbi che, alla fine, avremmo potuto distinguere i cosiddetti “buoni” dai “cattivi”, senza se e senza ma. E questo è il ciclo di cui parlo.

Violenza chiama violenza e chi aveva il dovere di fermarla? Chi aveva il diritto morale di poterla fermare? Era facile condannare il saccheggio quando questo era realizzato per puro sfogo o per violenza gratuita. Ma se ci riferivamo a quelle persone relegate ai margini della società (inevitabilmente aggiungerei, in un sistema tardo-capitalista dove per forza c’era chi vinceva e chi perdeva), allora mi era molto più difficile condannare e più semplice comprendere. Non bisognava nascondere che la violenza potesse provenire anche dagli stessi manifestanti afroamericani: proprio in quanto esseri umani, era legittimo per loro provare anche odio, disperazione, desiderio di rivalsa troppo a lungo frustrata.
In queste proteste c’era un malessere concreto e trasversale, impossibile da ignorare. E proprio di questo parlerei, di proteste al plurale: il caso Floyd aprì un vaso di Pandora, dove non vi era solo la contraddizione mai davvero risolta dei diritti civili, ma molto altro, che riguardava ogni etnia. Al contempo, però, era necessario che gli afroamericani fossero liberi di esprimere le loro istanze di giustizia senza l’interferenza di altre persone estranee alla loro questione.

Mi concentrerei inoltre su un altro punto. Era necessario capire anche come si sarebbero schierati gli ispanici a livello elettorale – a patto che avessero scelto di farlo – e come si sarebbero schierate tutte le minoranze, anche quegli afroamericani che vivevano invece in zone urbane della classe media o medio-alta.
Ormai tanti orientali, ispanici e afroamericani erano perfettamente nelle istituzioni e nei CdA delle aziende, si potrebbe dire in maniera proporzionale al loro peso nella società (14% per gli afroamericani). Eppure non sempre era così e c’erano ancora molte situazioni critiche di discriminazioni dirette e indirette, in particolare nelle aree più disagiate degli Stati Uniti. Sembrava però chiaro che le proteste di quei giorni riguardassero non solo quegli afroamericani che vivevano ancora la discriminazione, ma anche coloro che, al di là dell’etnia, vivevano la discriminazione economica e di classe. Quell’elettorato che in gran parte affidò le proprie speranze di emancipazione all’allora candidato alle presidenziali Barack Obama e che in quei giorni faceva i conti con una realtà che non era poi cambiata di molto sotto quel punto di vista.
Infine, un’ultima considerazione. Ritengo che ogni governo statunitense, repubblicano o democratico, abbia sempre sentito di avere un debito morale nei confronti dei propri veterani di guerra e che quindi non abbia mai fatto quegli accertamenti sufficienti di cui ci sarebbe stati bisogno, soprattutto quando si trattava di accedere al lavoro nelle forze dell’ordine. E penso anche che vi fosse sempre stato il timore che questi veterani, non trovando un lavoro “dignitoso”, avrebbero potuto impiegare le loro conoscenze militari per costituire gruppi e sottogruppi di azione violenta contro lo Stato.

Ciò che ho voluto tracciare con queste sintesi e con le mie considerazioni riguarda un approccio critico rispetto a un tema tanto delicato come quello dei diritti civili, che potrebbe estendersi alla lotta per molti altri diritti umani. Se è vero che non possono più esserci dubbi su quale sia la via da seguire per un’umanità davvero unita senza differenze di razza, dobbiamo anche affrontare questa lotta senza mitologie, senza generalizzazioni, senza contro-propaganda. Poiché, letteralmente parlando, non esiste il bianco e il nero, e siamo tutti esseri umani nella nostra capacità di odiare e di amare.


La Fase Tre in Italia. Politica e razzismo


L’11 giugno accaddero due eventi rilevanti nel nostro Paese. Il Consiglio dei Ministri approvò la vendita di due fregate prodotte da Fincantieri all’Egitto, con il consenso delle delegazioni dei partiti di maggioranza, sebbene Liberi e Uguali avesse precisato in seguito il suo disaccordo. La vendita fruttava 1,2 miliardi di euro, a cui si aggiungevano accordi per jet, caccia e satelliti. L’approvazione fece tornare al centro dell’attenzione, almeno per pochi giorni, il caso di Giulio Regeni, che quattro anni prima era stato rapito, torturato e infine ucciso in circostanze mai chiarite. A questo caso si aggiungeva quello di Patrick Zaky, attivista egiziano e studente all’Università di Bologna, che era stato arrestato il 7 febbraio 2020 all’aeroporto del Cairo, per “istigazione al rovesciamento del governo e della Costituzione”. Ma con la vendita di queste fregate, il governo italiano ribadiva l’interesse a mantenere i rapporti commerciali con l’Egitto governato da Abdelfattah al-Sisi, rifiutando la strada dello scontro diplomatico.

La strategia adottata dal governo mostrò tutta la sua debolezza il 1° luglio, quando le procure dei due Paesi si incontrarono in videoconferenza per un confronto. Di fatto, la procura generale egiziana non fornì nuove informazioni sul caso Regeni, nemmeno sulle sollecitazioni del procuratore Michele Prestipino Giarritta, che chiese risposte concrete e in tempi brevi p. es. sulla scelta del domicilio per i membri dei servizi segreti egiziani sotto indagine da parte di Roma.
Dieci giorni prima c’era pure stata una beffa ai danni della famiglia Regeni, quando gli inquirenti egiziani consegnarono alcuni presunti oggetti personali di Giulio, trovati in realtà nella casa di una delle persone uccise in una sparatoria, a marzo 2016, a cui il governo cercò invano di attribuire la colpa della morte di Regeni. Nessuna verità, dunque, e anzi la volontà italiana di umiliarsi di fronte all’Egitto in cambio di un nuovo accordo commerciale.

Oltre a questo triste episodio, l’11 giugno il CdM approvò un nuovo DPCM, in vigore da lunedì 15, per regolare le riaperture della cosiddetta Fase Tre. Ora, una premessa: l’uscita dei DPCM e le conferenze stampa del premier Conte divennero una pratica talmente diffusa, sulla quale spendemmo giorni e giorni durante la quarantena, che ormai ci sembravano un qualcosa di talmente routinario da poter essere ignorato. Allo stesso modo, la formula “Fase Tre” non ebbe tanta fortuna come quella precedente, forse anche per il fatto che apparisse troppo ravvicinata o precipitosa.
Ad ogni modo, il nuovo DPCM stabiliva quanto segue: riaprivano le aree gioco per bambini nei luoghi pubblici e i centri estivi, seguendo alcune linee guida che riducevano il numero degli iscritti anche a meno di un terzo rispetto alle normali capacità. Ripresero gli eventi sportivi di interesse nazionale, senza pubblico, e dal 25 fu consentito lo svolgimento degli sport di contatto, compatibilmente con l’andamento della situazione epidemiologica dei territori coinvolti.
Fu di nuovo possibile svolgere manifestazioni pubbliche, benché in forma statica, mantenendo le distanze sociali e le misure di contenimento. Riaprirono teatri, cinema e sale da concerto, ma con posti pre-assegnati e l’obbligo di distanziamento di almeno un metro: gli spettacoli all’aperto erano consentiti fino a un massimo di mille spettatori, ridotti a duecento per sala nei luoghi chiusi. Luoghi di culto e della cultura poterono riaprire con analoghe disposizioni. Riaprirono anche i centri benessere e i centri termali.
Rimasero sospesi i servizi educativi per l’infanzia e le attività didattiche in presenza nelle scuole di ogni ordine e grado. Stessa sorte anche per le università. Le prove teoriche e pratiche realizzate da autoscuole e motorizzazione civile non furono invece sottoposte a queste sospensioni.
Riaprirono gli stabilimenti balneari, con regole che potevano variare leggermente da regione a regione, ma che includevano talvolta il pagamento per l’accesso e in ogni caso il distanziamento delle postazioni, con regolare igienizzazione.
Infine, rimanevano praticamente invariate le disposizioni di quarantena per chi mostrasse i sintomi del Coronavirus.

Per dare un’idea pratica di come ci si doveva muovere in quei giorni, riporto la mia esperienza personale in alcuni luoghi, come testimonianza per il futuro. Quanto riporto era la situazione a Pordenone e in provincia.
Tra maggio e giugno, mi capitò p. es. di dover andare più volte in ospedale a causa del ricovero di un parente stretto. Il giorno che questi andò al pronto soccorso, ci fu impedito di restare nella sala d’attesa e il paziente dovette rimanere da solo durante tutto l’iter di analisi. Dopo i primi controlli, stabilito che dovesse essere operato, gli venne fatto un tampone per il Coronavirus: il risultato arrivò circa un’ora e mezza dopo e fu negativo. A quel punto fu portato in reparto, in attesa dell’operazione. Per le circa due settimane di ricovero, non potemmo andarlo a trovare e riuscimmo a vederlo soltanto tramite videochiamata. Il fatto di non poter ricevere visite fu molto deleterio per il suo umore, ma non si poteva fare altrimenti. Ogni due giorni si saliva all’ottavo piano dell’ospedale e si attendeva all’ingresso del reparto, dove un infermiere veniva a ritirare i vestiti e gli oggetti che avevamo portato e ci restituiva quelli sporchi. Quando fu in grado di muoversi, il paziente riuscì anche ad affacciarsi per farsi vedere a distanza. Per il resto, dovette tenere la mascherina costantemente, benché fosse negativo al tampone e isolato all’interno del reparto.

Un altro esempio: scuola e università. Seguii via Skype diversi studenti, facendo ripetizioni anche a due maturandi. Mi raccontarono situazioni quantomeno bizzarre: docenti che forse non avevano mai visto prima una webcam e che facevano intere lezioni mostrando solo un mento o i capelli; docenti che proprio non fecero lezioni online e che caricavano materiale didattico senza fine, ad ogni ora della notte e nei giorni festivi. C’erano poi casi di studenti che svolgevano verifiche scritte a webcam spenta, con l’ausilio degli appunti e di internet e che magicamente alzarono la loro media anche di tre voti. Voti che al principio erano segnati come provvisori e che poi – dato l’evolversi della situazione – furono confermati o calcolati in modo del tutto arbitrario dagli insegnanti. Si arrivò così alla maturità: nessuna prova scritta e un’unica prova orale, regolamentata minuto per minuto con argomenti già prestabiliti e un marginalissimo spazio riservato ad eventuali domande “fuori programma”, per così dire.
Come ebbi già modo di scrivere in questi capitoli, mi domandai ancora una volta quanto tutto ciò avrebbe danneggiato gli studenti diplomatisi nel 2020 a livello lavorativo o di carriera universitaria. Proprio a proposito di università, vidi e sentii di studenti che svolsero esami a webcam spenta, copiando allo stesso modo degli studenti delle superiori. Personalmente, conclusi i 24 CFU necessari all’accesso ai concorsi per l’insegnamento e partecipai a tre esami tramite la piattaforma Microsoft Teams. Vidi molte cose quantomeno discutibili, oltre al fatto che le connessioni danneggiarono diversi studenti. Da luglio, poi, avrebbero ripreso gli esami in presenza, perlomeno a Trieste.

Racconto ancora alcuni esempi. Ripresi a lavorare in biblioteca a fine maggio. Si parlò di “porte aperte”, ma di fatto le regole furono molto stringenti e in generale tale modello fu adottato da tutti gli enti pubblici come questo. I dipendenti firmarono una sorta di auto-certificazione in cui affermavano di non aver contratto il virus e che avrebbero seguito una serie di protocolli qualora avessero avuto sintomi da Covid-19. L’accesso alla biblioteca fu consentito solo su appuntamento e soltanto per ritirare i libri precedentemente prenotati. Erano sospesi tutti gli altri servizi, come l’accesso ai computer, la lettura di giornali e riviste, l’ingresso alla sezione ragazzi. I dipendenti avevano l’obbligo di utilizzare la mascherina e i guanti, di assicurarsi che gli utenti si igienizzassero le mani all’ingresso e di accompagnarli all’uscita, che non corrispondeva all’ingresso, in modo tale che non si incrociassero le persone. Per sintetizzare, cito un’ultima norma: le restituzioni potevano avvenire solo lasciando i libri in un box all’esterno della biblioteca; i dipendenti li ritiravano e li mettevano in quarantena per quattro giorni in una apposita sala.
Come era prevedibile, l’utenza calò drasticamente e molti furono scontenti di queste decisioni, poiché probabilmente le persone volevano tornare alla normalità, mentre il cambiamento delle loro abitudini generava in loro un ulteriore stress. Oltretutto, molti dovettero trovare surreale la differenza tra le regole stringenti delle strutture pubbliche e la libertà che trovavano nei bar e nei locali, dove le persone cominciavano ormai a violare la gran parte delle norme di distanziamento. In tutto questo, l’arrivo dell’estate non fece altro che peggiorare la situazione.

In effetti, in un primo tempo l’accesso ai locali fu limitato e si fece ampio uso di mascherine e guanti (spesso guanti per modo di dire, trattandosi di pezzi di plastica rettangolari senza dita), ma da metà giugno la situazione precipitò. La mascherina non era più obbligatoria negli spazi aperti, purché si mantenessero le distanze, e questo forse spinse molti ad abbassare la guardia o a pensare che il pericolo fosse stato esagerato per mesi. Era comune osservare persone senza mascherina e in gruppi numerosi tanto nei negozi quanto nei locali.
L’immagine più nitida di questo fenomeno la fotografai con la mente nella località di mare di Lignano: discoteche che non rispettavano alcuna norma di distanziamento; bar e ristoranti pieni dove praticamente nessuno indossava la mascherina e manteneva le distanze. La polizia si fece vedere solo una volta, quasi all’alba, per un giro di controllo: d’altra parte, se fossero stati presenti per tutta la nottata, avrebbero dovuto multare letteralmente qualche migliaio di persone.

Dopo questi esempi diretti, vengo all’ultimo argomento. Il 21 si conclusero i nove giorni dei cosiddetti “Stati generali”, organizzati dal governo Conte a Villa Doria Pamphilj, ai quali tuttavia non parteciparono le opposizioni, vedendovi solamente una “passerella” politica. L’obiettivo del governo era di individuare le linee guida per il futuro del Paese, confrontandosi con tutte le parti sociali coinvolte.
In breve sintesi, segnalo alcune idee uscite da questa settimana e mezza di confronti. Il premier Conte presentò il Recovery Plan suddividendolo in nove punti e centotrentasette progetti. La riforma del fisco avrebbe dovuto essere improntata ad una maggiore equità ed efficienza: tra le intenzioni, quella di abbassare l’IVA e di favorire a livello fiscale gli imprenditori che operavano al Sud. A livello di infrastrutture, si parlò di diversi progetti, come una linea ad alta velocità da Brindisi a Napoli, nonché una riforma del codice degli appalti. Seguì un rilancio del progetto per un’Italia digitale, con un’ulteriore estensione dei pagamenti digitali e la creazione di una rete unica nazionale di fibra ottica. In questo contesto si parlò anche della digitalizzazione della pubblica amministrazione, legandola al processo di sburocratizzazione. Non mancarono infine i riferimenti al Green Plan italiano, che incluse anche la transizione energetica dell’ex ILVA di Taranto. Tante le idee e le proposte, ma di fatto gli Stati generali furono un momento di confronto di idee e di parole e non già un piano d’azione attuato o attuabile nell’immediato.

Nel frattempo premeva la rabbia nel Paese e cominciarono a svolgersi diverse manifestazioni di protesta contro il governo. Nei giorni degli Stati generali, a Roma si riunirono ultrà ed esponenti di estrema destra: ci furono tensioni e lanci di bottiglie; bruciò una parte del prato del Circo Massimo e si udirono cori inneggianti al duce.
Cito questi episodi per due motivi. Il primo per evidenziare come nei primi tempi della quarantena sottolineai l’importanza del calcio e dello sport come sistema per attutire la rabbia sociale. Il secondo per sottolineare come nel nostro Paese vi fosse la necessità di guardare a noi stessi in termini di razzismo, prima ancora che agli Stati Uniti. In diversi Stati, soprattutto negli USA e nel Regno Unito, si cominciarono ad abbattere le statue di razzisti e schiavisti, provocando spesso un acceso confronto sulla legittimità di quegli atti di vandalismo. Eppure in Italia avevamo molto di cui discutere, tra numerosi monumenti di origine fascista e statue dedicate a personaggi controversi, come quella di Indro Montanelli ai giardini pubblici di Milano, a lui dedicati. La statua fu imbrattata con vernice rossa e non era la prima volta che subiva un atto di vandalismo.

Penso che in tutta questa faccenda fosse necessario porsi in una prospettiva di buonsenso critico, promuovendo una contestualizzazione storica e tematica. Ma proprio in nome di essa, Montanelli ne usciva sfavorito: in una prospettiva storica, il giornalista appariva un individuo piccolo, impregnato di supponenza intellettuale. Non era possibile parlare del suo lavoro come scrittore e giornalista non considerando questa figura in tutte le sue caratteristiche, compreso quel matrimonio con una bambina africana che Montanelli continuò a raccontare fino a tarda età e i cui contorni storici rimanevano incerti, ma non la mentalità di colui che questa storia la raccontava. E se era vero che ognuno di noi vive di luci e di ombre, qui le ombre divenivano tenebre e non era possibile fare finta di nulla.
Il giudizio storico è costituito anche dalla doverosa revisione di quei panegirici alla memoria che nascondono senza pudore ciò che è sotto la luce del sole. Montanelli non riconsiderò molti pensieri come quelli diffusi sui social in quei giorni. E visse ben oltre gli anni Trenta del Novecento: ebbe tutto il tempo – il tempo di una vita – per conoscere gli sviluppi storici e antropologici di taglio anticolonialista e antirazzista. Il non aver fatto un passo indietro nemmeno in quel clima di attenzione per i diritti umani (di tutti) è una condanna che Montanelli si auto-inflisse. Ed era giusto che i contemporanei lo sottolineassero.

Il problema della memoria e dei monumenti era tuttavia solo una parte della questione. Durante gli Stati generali e le proteste negli Stati Uniti, Aboubakar Soumahoro, sindacalista ivoriano naturalizzato italiano, si incatenò vicino a Villa Pamphilj, fino a quando Conte decise di ascoltare le sue richieste: una riforma della filiera agricola, un piano nazionale per affrontare l’emergenza lavoro e una modifica delle politiche migratorie.
Era questa l’occasione italiana per dare significato all’indignazione di quelle settimane, ma ritengo che i sostenitori del Black Lives Matter in Italia non diedero abbastanza visibilità a questa persona. Oltretutto, sostenere la lotta di Soumahoro aveva implicazioni nella lotta parallela alle mafie e allo sfruttamento degli immigrati e degli emarginati che queste compivano.
Citando le parole del podcaster John Modupe, pronunciate in un video su Instagram del 3 giugno sul tema del razzismo nella Penisola: «Il razzismo in Italia non ha un valore di mercato abbastanza alto», per cui ci indignavamo per ciò che accadeva negli Stati Uniti, ma non nel nostro Paese. In poche parole, mediaticamente non reggeva il confronto tra l’immagine del nero americano e quella dell’immigrato in Italia. E puntavamo il dito, lavandocene le mani.


Gli sviluppi sull'ambiente


Tra la fine di maggio e i primi giorni di giugno, circolò la notizia della morte di un’elefantessa, in India. Era morta dopo giorni di agonia per aver ingerito un ananas riempito di petardi. Ne nacque un’indignazione internazionale e sui social si trovarono numerosi disegni dedicati all’elefantessa, che era oltretutto incinta.
L’animale era entrato nell’area di un villaggio vicino al parco nazionale di Silent Valley, nel Kerala; un episodio analogo era accaduto il mese precedente, con la morte di un altro pachiderma. Come raccontò un funzionario forestale, Mohan Krishnan, l’elefantessa non aveva fatto del male ad un singolo essere umano, «nemmeno quando correva in preda a un dolore lancinante per le strade del villaggio».
L’ananas con i petardi era riservato ai cinghiali ed era stato messo dai contadini per difendere i campi. Forse anche grazie alla reazione internazionale, fu avviata un’indagine e si arrivò all’arresto di un coltivatore. Ad ogni modo, non parlerei comunque di fatalità, perché il fatto che l’ananas fosse riservato ai cinghiali non cambiava la storia di una virgola, a prescindere dall’animale coinvolto. E si poteva benissimo estendere il discorso al trattamento riservato agli animali in certi nostri allevamenti, senza fare tanta strada.

In quei giorni, molti ripeterono la consueta constatazione per cui l’essere umano non meritasse di vivere su questo pianeta. Di sicuro, il rapporto tra uomini e animali era un tema particolare in India, a causa della sovrappopolazione. Lo stesso problema era in fondo all’origine della diffusione iniziale del Covid-19.
Un’altra notizia collegò questi due argomenti. Il 30 maggio, alcune scimmie attaccarono un assistente di laboratorio del Meerut Medical College di Delhi, fuggendo con dei campioni di analisi del sangue di persone affette da Covid-19. La maggior parte dei campioni fu recuperata intatta, mentre uno di questi era stato masticato da una delle scimmie.
Questi animali erano ormai abituati a vivere con gli umani e, in seguito all’adozione delle misure restrittive, avevano riconquistato aree della città, ritrovandosi tuttavia in mancanza del cibo che rubavano o ottenevano dalle persone.

Per rimanere sulla linea di coloro che sostenevano come non fossimo degni di abitare questo pianeta per la nostra scarsa responsabilità, basterebbe citare il caso della Siberia.
Circa ventimila tonnellate di diesel fuoriuscirono da un serbatoio situato nella zona industriale della città di Norilsk, capitale russa del nichel. La causa fu il cedimento dei supporti del serbatoio, provocato dal collasso del permafrost.
La compagnia Norilsk Nickel attribuì la colpa al cambiamento climatico, ma è giusto ricordare che l’area fosse già uno dei luoghi più inquinati del pianeta, per la dispersione di anidride solforosa nella tundra artica. Negli ultimi anni, le temperature in Siberia erano cresciute in maniera sorprendente, provocando una serie di incendi sempre più gravi. Proprio ai primi di luglio si diffusero gli incendi boschivi concentrati soprattutto nella Siberia orientale, con una distruzione di oltre un milione di ettari di foresta.
Per citare un ultimo tema, ricollegandoci al Coronavirus, divenne un problema anche l’inquinamento causato dalla dispersione di guanti e mascherine. Secondo i dati diffusi dall’ISPRA, questi oggetti avrebbero prodotto dalle 160mila alle 400mila tonnellate di rifiuti entro la fine del 2020. La campagna di sensibilizzazione avviata dal Ministero dell’Ambiente italiano era certamente utile, ma nel concreto, una volta gettati negli appositi contenitori, che fine avrebbero fatto questi rifiuti? Di fronte a tutte queste notizie sull’ambiente, l’unica cosa certa era l’impegno umano a recuperare il tempo perso con la devastazione del pianeta.

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